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Autore: giulina    03/03/2013    2 recensioni
Leo tirò in aria l'ennesimo biscotto e lo fece finire direttamente nella bocca aperta, sorridendo alla ragazza che continuava a girare lo zucchero nel suo tè ormai freddo. Non resistette più e gli sorrise apertamente. Con quel ragazzo era tutto un mostrare sorrisi storti e denti bianchi, un ridere fino a sentire male allo stomaco.
- Mi piace. -
- Il mio riuscire a centrare la bocca con il biscotto? Lo sai che riesco a mangiarmi anche l'unghia del pollice mentre sono al telefono? -
Agata rise di nuovo e Leo le si avvicinò, toccandole delicatamente con l'indice la fossetta appena accennata sulla guancia sinistra.
- Mi sono innamorato. -
- Di me? -
- Macchè, parlavo di quella fossetta lì. Sì, proprio quella lì. Non è che la puoi regalare? -
Agata continuò a sorridere mentre Leo le percorreva con il dito la pelle del viso e la guardava con quegli occhi dalle ciglia lunghissime, che le facevano sentire la necessità di abbassare lo sguardo. Non meritava che qualcuno la guardasse con quegli occhi.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sinceramente non so cosa dire, sembrano passati secoli dall'ultima volta che ho aggiornato (ed è effettivamente così) tanto che non mi ricordavo più come si facesse ad inserire l'HTML!

Io sono un caso più unico che raro, questo c'è da dirlo.

Bando alle ciance spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e non mi troviate così arrugginita come penso di essere visto che era un pò che io e la scrittura non ci incontravamo. L'ispirazione è tornata e cercherò di utilizzarla anche per le altre mie storie in corso.

Non vi abbandono, state tranquille.


Buona lettura!












..ha avuto in un giorno la certezza di aversi 
acqua che ha fatto sera che adesso si ritira 
bassa sfila tra la gente come un innocente che non c'entra niente 
fredda come un dolore Dolcenera senza cuore..


-Dolcenera, Fabrizio De Andrè-









Leo avrebbe voluto tanto farsi allungare la barba. Non rasarsela per due o tre mesi e farsi crescere anche due lunghi baffi biondi, tendenti al rossiccio alle estremità, che avrebbe accarezzato con aria pensosa durante i suoi momenti filosofici.
Sosteneva che seduto sulla sua sedia a dondolo sul terrazzo insieme alla sua nuova barba avrebbe raggiunto il livello massimo di saggezza. Sarebbe stato come un Marx del ventunesimo secolo.
Ad Agata però non piaceva la barba e men che meno i baffi. Diceva che lo facevano sembrare un vecchio maniaco a cui bastava soltanto un impermeabile nero e una pipa per andare a spaventare giovani ragazzine al parco.
Leo sulla pipa di legno ci aveva fatto un pensierino, se bisogna essere sinceri.
Ogni sabato lo costringeva quindi a radersi e spesso, quando lo faceva, lei se ne stava seduta sul tavolo in cucina insieme a lui.
In bagno, Leo si spalmava la schiuma al mentolo che gli portava Agata dalla Conad, specchiandosi per minuti interi allo specchio rotondo, costantemente appannato nell'angolo destro, intrattenendo spesso e volentieri dei monologhi a voce alta con se stesso.
A radersi però andava in cucina; si posizionava davanti al lavello, dove c'erano sempre piatti sporchi e bicchieri dai manici sboccati da lavare, e con il rasoio nella mano destra iniziava a radersi specchiandosi sul fondo di una pentola di acciaio attaccata alla parete arancione dove c'era il portaposate che conteneva soltanto cucchiaini da caffè.
Mentre si radeva chiacchierava con Agata oppure parlava alla sua figura riflessa, elencando le innumerevoli qualità che possedeva il suo viso. Agata lo interrompeva sempre quando definiva i suoi occhi di un “blu ceruleo chiarissimo con dei riflessi di grigio quasi argento vicino alla pupilla”. I suoi occhi erano verdi, delle volte giallognoli. Stop. Leo tendeva sempre ad esagerare ed era narciso come pochi.
Gli piaceva anche un sacco descrivere il neo che aveva vicino al labbro inferiore, quel neo che sapeva benissimo piacere ad Agata. Una volta, mentre facevano il bagno insieme, lei gli aveva addirittura confessato di essersene disegnata uno identico nello stesso punto con la matita nera degli occhi, quando non si conoscevano ancora molto bene.
Naturalmente Leo quella confessione non se la sarebbe mai dimenticata.
Quel sabato mattina il ragazzo si stava facendo la barba ma non con il suo abituale rasoio, il che lo disturbava non poco. In quel momento, il suo personalissimo rasoio che nonna Paola gli aveva comprato il mese prima, era tra le mani di Agata che lo stava usando per radersi le gambe, seduta sul bordo della vasca di ceramica in bagno, mentre cantava una canzone in inglese a bassa voce, calcando sugli acuti.
- Spero tu lo sciacqui quando finisci.
- Certo, non sono mica un’incivile come te.
- Io sono civilissimo!
- Ma se non ti cambi i calzini da cinque giorni!
- Bugiarda! Soltanto tre giorni e solo perché tu non mi hai ancora fatto la lavatrice e quella di nonna è rotta.
- Vai in una lavanderia a gettoni. Ne hanno aperto una in Viale Boccaccio qualche settimana fa.
- Ma sei matta? Vuoi mandarmi in quel covo di pazzi che ti guardano come se avessi quattro occhi solo perché giri per la strada con il pigiama e le ciabatte?!
- Leo, sei di nuovo uscito di casa in pigiama?
- Solo per andare a comprare il latte alla Coop! Giuro che avevo sia la giacca che i pantaloni!
- Fai schifo. Mi passi quella crema?
Leo scese dal tappo del water dove si era appollaiato per osservare meglio Agata seduta sulla vasca e si avvicinò allo scompartimento sopra il lavandino dove ci stavano le medicine, alcuni trucchi che Agata lasciava a casa sua in caso di emergenza, le pillole per la memoria che Leo prendeva ogni mattina, una confezione di tè deteinato e il menù di un ristorante cinese.
Il ragazzo prese la vaschetta di una crema rassodante e la passò alla ragazza che aspettava che l'acqua diventasse tiepida per lavare il rasoio che teneva ancora tra le mani.
- Nocciolina, perché c'è il menù di un cinese nell' armadietto dei medicinali?
- La scorsa settimana in frigo ho trovato la tua pompetta per l'asma e ti lamenti di questo?
- Sì perché ero sicuro di averlo messo dentro al forno a microonde. Lì perlomeno sono sicuro di trovarlo.
- Cambiando discorso cosa hai intenzione di portare al picnic di domani?
Leo saltellò accanto ad Agata con un sorriso che gli arrivava da orecchio ad orecchio e che mostrava quasi i denti del giudizio. La ragazza, oltre al neo, gli invidiava anche quel sorrisone aperto e perfetto. Quel sorriso che la faceva sentire tanto leggera.
- Amore ho avuto un'ideona stanotte, mentre guardavo le repliche dei Griffin che danno alle due di notte!
- Spara.
- Ho pensato di preparare le lasagne di mare che mi riescono tanto bene, un’insalatina fresca fresca per secondo, insieme a dei totani fritti che oggi andiamo a prendere alla pescheria vicino al Corso e pure il tiramisù al caffè se mi ci s’incastra. Lo sai che stasera ci sono i nuovi episodi di Dr.House e non posso perdermeli.
- Io porto il termos con il caffè.
- E Aldo la Sambuca. Secondo me finiremo a giocare a Strip Canasta come l'ultima volta che abbiamo fatto un picnic tutti insieme.
- Guarda di non farti venire il raffreddore che non ho voglia da farti da infermiera.
- Ma dai! Avevo già in mente il costume pornissimo da farti indossare!




La sera prima si erano riuniti tutti a casa di Manik e Giovanni per guardarsi il dvd dell'Esorcista che Leo aveva preso in noleggio la mattina stessa.
Si erano sistemati nel salotto dalle pareti dai colori caldi e i tappeti egiziani morbidissimi, dove c'era sempre un forte aroma di incenso; Leo si era spaparanzato sul divano insieme ad Aldo e Bogdana che quella sera aveva parlato ininterrottamente per un'ora della presunta omosessualità del calzolaio di Via del Campo che si era da poco separato dalla moglie. Agata se ne stava in piedi vicino alla finestra aperta, accendendosi una sigaretta ogni cinque minuti affermando che fosse a corto di ossigeno.
In realtà, se ne stava leggermente in disparte perché si sentiva ancora in imbarazzo con quella che considerava a tutti gli effetti la sua famiglia.
La confessione urlata a denti stretti da Leo qualche settimana prima sembrava ancora aleggiare sulle teste dei presenti come una presenza impalpabile, ma che pesava come cemento sullo stomaco e nella memoria di Agata. Nessuno però, la trattava in modo diverso o la guardava negli occhi con pietà o addirittura repulsione.
Tutti, quando quella sera l'avevano vista entrare nella stanza al fianco di un Leo più ciarlone del solito, le avevano sorriso con affetto, tantissimo affetto. Manik l'aveva abbracciata con discrezione, gentile come al solito, e Costanza le aveva offerto una fetta del dolce allo yogurt che aveva preparato quel pomeriggio, bruciacchiato ai bordi.
Nessuno la trattava come una drogata e lei aveva scordato di esserlo per delle intere ore.
Quando il film era finito, e Aldo era ancora in bagno dove si era rinchiuso dopo la prima scena di paura, avevano iniziato a ideare il piano per un pomeriggio da passare tutti insieme fuori casa, fuori da Via del Campo, fuori dalla quotidianità che prima o poi avrebbe soffocato qualcuno. Magari in campagna, sul mare o in collina.
Avevano concordato per un picnic fuori città per la domenica seguente, visto che era festa e nessuno doveva andare a lavoro.
Aldo, quando era riuscito ad uscire dal bagno cantando Mina quasi per farsi coraggio ed allontanare dalla sua mente i brutti pensieri, aveva detto che avrebbe portato la Sambuca soltanto se avessero bruciato il dvd di quel film definito “di merda” davanti ai suoi occhi.




Quel sabato pomeriggio Agata e Leo camminavano in silenzio fianco a fianco per la via del Corso. Erano usciti di casa per andare a comprare i totani che avrebbero cucinato fritti la mattina dopo e già che c'era, il ragazzo aveva deciso di fare la spesa settimanale alla sua Luciana che avrebbe visto la sera del giorno dopo.
Intorno a loro c'era un via vai di persone indaffarate che uscivano ed entravano dai negozi, alcuni a cavallo di una bicicletta rossa che sembrava quasi sfiorare il marciapiedi occupato completamente da passanti in corsa; motorini che suonavano il clacson per minuti interi a causa di un autobus che intasava la via e un vecchietto che per poco non era stato arrotato sulle strisce pedonali da un auto al cui volante c'era una ragazza che si stava truccando allo specchietto retrovisore; bambini che senza freni si buttavano in mezzo alla strada facendo su e giù dal marciapiede e madri che li sgridavano a voce talmente alta da superare il rumore dei clacson impazziti e di quel mendicante all'angolo della strada che stava suonando una chitarra accordata male.
Leo ed Agata osservavano tutta quella vita come se fossero stati al cinema. Loro se ne stavano immobili e in silenzio mentre delle scene confuse e delle volte terrificanti passavano davanti ai loro occhi ad una velocità esorbitante. Il ragazzo era davvero spaventato e continuava a ripetere a voce alta di rinchiudersi nel primo ristorante giapponese che avrebbero trovato per la strada. Nei suoi occhi c'era la paura per quella realtà a cui non era abituato. In Via del Campo nessuno correva, tutti sorridevano e le poche parolacce che si sentivano provenivano dalla sua bocca. E, soprattutto, c'era odore di pane appena sfornato su ogni muro, in ogni crepa e persiana aperta.
- Agata…
- Mhm?
- Ho paura, tesoro. Ho seriamente paura di queste… come si chiamano?
- Persone?
- No, mostri! Oddio, guarda quello, sta parlando con il suo cane. Guardalo.
- Tu parli al frigorifero giallo, non so chi sia messo peggio.
- No, ci sono pure gli adolescenti allupati attaccati a quel muro, li vedi? Era da anni che non ne vedevo uno.
- Smettila di fissarli.
- Ma guarda quel porcone dove ha la mano!
- Guarda se trovi un tabaccaio, ho finito le sigarette.
- Oh mio Dio quella bambina ha appena sputato della roba verde dalla bocca!
Trovarono un tabaccaio a qualche metro di distanza dalla bambina impossessata. Quando entrarono dentro il negozio dall'insegna illuminata di rosa, i loro occhi si posarono sulla figura della ragazza seduta alla piccola alla cassa che stava leggendo un libro di non molte pagine. Aveva dei lunghi capelli scuri legati in tante piccole treccine elaborate, le labbra di un forte rosso e i polsi pieni di braccialetti tintinnanti. Era magrissima.
Quando si accorse di Leo ed Agata sorrise loro gentilmente, come se fossero stati due clienti abituali, ma quel sorriso sparì nel momento in cui i suoi occhi chiari -quasi grigi alla luce forte della stanza- si posarono sulla figura della ragazza appena entrata. Abbassò per un attimo lo sguardo e quando rialzò di nuovo gli occhi, rivolse un sorriso nuovo soltanto ad Agata che non si era mossa dalla sua posizione vicino alla porta d'entrata ancora aperta.
I suoi occhi sembravano due pozzi di acqua chiarissima. Leo quasi non si rese conto di quando quella piccolissima ragazza si alzò dallo sgabello dove era seduta e corse ad abbracciare Agata che la strinse a sua volta, aggrappandosi a lei, ai suoi vestiti con le braccia e forse anche con le unghie. Sul polso destro, aveva due lettere maiuscole tatuate.
Avevano entrambe gli occhi chiusi, ma il ragazzo poté giurare che quelli della sua ragazza, sotto le palpebre che tremavano appena, fossero emozionati come poche volte li aveva visti. Quando slegarono il loro intreccio, nonostante le loro braccia fossero ancora vicine, si sorrisero con talmente tanto affetto che Leo si sentì quasi geloso.
Agata si schiarì la voce e si girò verso di lui con le sue labbra rosse socchiuse. Quando gli chiese se poteva lasciarle sole, anche solo per un attimo, le sue labbra tremavano e la voce era solo un debole e fioco sussurro.
Leo uscì dal negozio, camminò sul marciapiede di quella via ancora trafficata in silenzio, sentendosi spingere da una parte all'altra da gente con poco rispetto. In quella bolgia, senza Agata che in quel momento stava probabilmente piangendo insieme a quella sconosciuta di cui sapeva solo il colore degli occhi, si sentì ancora più terrorizzato.
Era sicuro che Agata non avrebbe risposto a nessuna delle domande che le avrebbe posto quando fosse uscita da quella porta chiusa. Sarebbero rimasti degli interrogativi di parole vuote.
Delle volte -e Leo l'aveva imparato dopo tanto tempo- con lei era meglio non chiedere e limitarsi al silenzio, quel silenzio in cui anche la ragazza viveva.
Agata era un silenzio che solo lui poteva riempire di parole.





Quella domenica di fine aprile, gli abitanti di quel palazzo dai muri gialli di Via del Campo, si ritrovarono alle otto in punto davanti alla panetteria Pasolini, chiusa durante quel giorno feriale. Bogdana, in piedi accanto al negozio con il cellulare in mano, indossava un cappellino rosa con la visiera e una tuta dello stesso colore che attirava l'attenzione di tutti i passanti mattinieri che passeggiavano lentamente per la via e si ritrovavano gli occhi catturati dal colore dei suoi indumenti.

I suoi due figli, Eze e Rabah, correvano senza sosta intorno a lei con i loro cestini da picnic in mano, offendendosi in russo e tirandosi i capelli. Qualche ciocca scura dei capelli di Rabah rimase nelle mani del fratello sorridente e la bambina si attaccò disperata alle gambe della madre.
Aldo stava caricando alcune borse e due teli da mare nel bagagliaio della sua macchina, un vecchia Ford blu scuro, che qualche mese dopo sarebbe stata rottamata. Costanza era già seduta in macchina, sul sedile anteriore, che ascoltava Radio Maria a volume basso.
Manik e Davide, con Leo accanto che cercava di aprire il termos del caffè caldo e zuccherato, controllavano la strada che avrebbero dovuto fare per raggiungere una collinetta fuori città, abbastanza conosciuta da tutti, che nel 2005 aveva ospitato il loro ultimo picnic.
Agata uscì dal portone del loro palazzo mentre si stava legando i capelli lunghi in una coda alta. Sulle spalle teneva un grande zaino da viaggio al cui interno c'era tutto quello che aveva cucinato Leo quella mattina, che per l'occasione si era alzato alle sei del mattino e si era cambiato i calzini. Il ragazzo indossava un paio di pantaloni con le bretelle e una maglietta a maniche corte dei Nirvana che Aldo sosteneva aver visto ad un concerto nel paese di Santa Luce, in Toscana, nel 2005.
Leo ed Agata salirono in macchina insieme a Manik e Davide mentre Bogdana e i suoi figli nella macchina di Aldo che aveva già inserito il cd con tutti i successi di Mina nel lettore cd, nonostante il brontolare di dissenso di sua moglie.
Nella macchina in cui c'era Leo, Manik decise di accendere la radio mentre stava trasmettendo una canzone famosa degli anni '80 di un cantante inglese.
I due ragazzi seduti sui sedili anteriori, che tenevano le mani intrecciate sul cambio, iniziarono a cantarla a bassa voce, sorridendo senza volersi far notare.
- Sono i Duran Duran? - Chiese Leo ricevendo un'occhiataccia da parte di Agata, seduta scompostamente accanto a lui, che osservava il panorama fuori dal finestrino un poco abbassato.
- Leo, vergognati.
- Sono i Led Zeppelin. - Gli rispose Davide, alzando il volume della radio.
- Questa è la canzone mia e di Manik. Ci siamo incontrati grazie a lei.
Anche Leo ed Agata avevano una loro canzone. Chissà se la ragazza seduta al suo fianco se la ricordava ancora…





Erano dentro un ristorante giapponese quando Leo la sentì per la prima volta.
Entrambi si chiesero il perché di quella canzone italiana, quando fino a qualche momento prima avevano ascoltato solo litanie straniere, cantate in una lingua sconosciuta e impossibile da decifrare.
Leo stava mangiando un gambero alla piastra quando Agata si era messa a cantarla a voce bassa, come spesso l'aveva sentita cantare.
D'altronde, la voce del cantautore che si stava diffondendo in tutto il locale completamente vuoto, vista l'ora tarda, era la voce dell'uomo di cui aveva l’iniziale del nome tatuata sul dito medio.
Leo si ricorda che forse, per la prima volta, l'aveva vista emozionata davvero. No, forse quella era la seconda volta. Quando si erano baciati nella cucina di sua nonna Paola, Agata aveva sulle labbra un sorriso dolcissimo. Impossibile da dimenticare.
- Ma questo Fabrizio, come lo hai conosciuto?
- Me lo fece ascoltare la mia migliore amica in prima superiore. Per lei era come un padre, gli voleva bene come un padre. Quando morì Fabrizio De Andrè morì anche un pezzo di lei. Lei era così carina, così piccola e quando ti parlava di lui si illuminava tutta. Me lo fece amare anche a me. Anche lei ha un tatuaggio in suo onore: ha una F e una D sul polso destro. Ce lo facemmo insieme quando compimmo diciotto anni.
Leo le sorrise, mentre le note di Dolcenera risuonavano tra di loro.











   
 
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