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Autore: Aniel_    08/03/2013    6 recensioni
Chicago 1940.
A Dean Winchester, poliziotto di ventotto anni, viene tolto il caso della vita, a cui lavorava ormai da anni. Ma ha una nuova pista che lo condurrà nel luogo più blues di tutta la città.
Incontrare un certo sassofonista e trovarlo "vagamente interessante" non era di certo nei suoi piani.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Fandom: Supernatural
Pairing/Personaggi: Dean/Castiel, Sam, John Winchester, Missouri, Joshua, vari.
Rating: NSFW
Chapter: 2/?
Beta: vampiredrug (mia luce e mio sostegno morale)
Genere: introspettivo, romantico, angst
Warning: AU, slash, OOC (un po' sì, dai.)
Words: 4450/?
Disclaimer: nessuno mi appartiene, ed è così triste, non è vero?



Castiel conosceva una donna diversa ogni sera e ogni sera finiva per farci l'amore. Una volta era persino finito tra le braccia di un marine dagli occhi scuri come la notte e il sorriso dolce di chi aveva visto troppo e non si sarebbe mai più fatto sfuggire una sola sfumatura della vita.
Succedeva sempre, anche se non nella realtà. Ma nella testa di Castiel accadeva e questo bastava per renderlo reale, almeno per lui.
Soffiò forte dentro il proprio strumento, stupendosi come al solito del nulla che diventava suono, dell'aria che diventava musica. Gli piaceva comunicare così, con una nota bassa e vibrante che faceva tremare il suo piccolo pubblico, un pubblico che non era lì per lui e che nonostante tutto, ogni notte, se ne andava portandosi via un pezzo di sé, senza nemmeno accorgersene.
Quella sera Castiel si concentrò su una donna elegante dai capelli rossi e le labbra carnose. Il vestito nero sembrava risaltare sulla sua pelle pallida, macchiata di tanto in tanto da qualche neo dispettoso.
Lei si chiama Sara, decise.
Suonò per lei una musica graffiante perché sembrava proprio averne bisogno: sul viso aveva l'espressione di chi stesse cercando un'avventura di una notte prima di iniziare una nuova vita.
Sta per sposarsi. Domani. Indosserà un vestito bianco e piangerà una lacrima prima di arrivare all'altare, fingendo un sorriso, sapendo di finire in trappola.
E Castiel poteva strapparla dalla sua futura monotonia, quindi poteva avvicinarsi e chiederle il suo nome. Dopo qualche secondo di incertezza lei avrebbe risposto e Castiel le avrebbe raccontato di sé, della sua passione e della musica. Le avrebbe accarezzato il polso e poi lei lo avrebbe condotto a casa sua a fine serata.
Forse alla fine Sara avrebbe deciso di non sposarsi e scappare via con lui, ma Castiel aveva già puntato gli occhi sulla ragazzina bionda lontana dal palco, di diciotto anni o poco più, ancora un fiore delicato e pieno di speranze. Le aveva parlato a lungo e quando l'aveva baciata l'aveva sentita sorridere sulle sue labbra e spingere le proprie contro di lui, con beata innocenza. Sapevano di pesche mature.
Nella sua testa era così facile avvicinare quelle donne e conquistarle, era così semplice schiudere le labbra e parlare. Ma la verità era che Castiel non aveva mai rivolto la parola a nessuna di loro, fatta eccezione per Joanna: bellissima, dolce, con un sorriso capace di illuminare il mondo intero. Non aveva saputo resistere la prima volta che l'aveva scorta in fondo al locale, più sola di chiunque altro lì dentro, e le si era avvicinato, le aveva chiesto il suo nome - che presto lui avrebbe trasformato in musica, una musica tutta per lei- e lei era stata così gentile e premurosa, così interessata a lui e alla sua vita da fargli credere che forse, con un po' di buona volontà, sarebbe anche potuto uscire dal Garden e andare oltre il parco. Ma Joanna era una cosa bella e tutte le cose belle non duravano mai a lungo nella sua vita. Capitavano, certo, ma il tempo di una canzone e il tempo di un drink e poi volavano via, in luoghi che lui non avrebbe potuto raggiungere.
Joanna in particolare. Joanna aveva le ali e nel giro di due settimane era volata via, oltre l'oceano, chissà dove in Europa.
Joshua diceva sempre a Castiel che i musicisti scrivono storie mentre i cantanti le raccontano, e lui, nonostante non parlasse, riusciva egualmente a scrivere e raccontare storie e, al tempo stesso, a farsi ascoltare da tutti. Era un dono di Dio, Castiel, quindi la sua musica doveva essere benedetta. Lì dentro lo pensavano in molti.
E di tutte le storie che aveva scritto e raccontato, quella di Joanna era ancora la sua preferita: la sua musica era lenta e calda, morbida come i suoi capelli, dolce come le sue labbra tinteggiate di rosso. Non l'aveva mai baciata Castiel, ma poteva immaginarlo.
Gli piaceva immaginare. A immaginare lui era il migliore.
Pensando di nuovo a Joanna la musica cambiò, senza che se ne rendesse conto, e divenne una melodia rilassata, una ninnananna, che avvolgeva Joshua e lo accompagnava mentre la sua voce vibrava ovunque, tra i tavoli, dietro i muri, dentro il petto.
Castiel guardò due tavoli più in là di Sara e appurò che lui aveva mantenuto la promessa, era tornato davvero per sentirlo suonare.
Aveva detto di chiamarsi Dean.
Quel nome gli piacque subito perché aveva un bel suono: lo ripeté più volte nell'arco della giornata, sorridendo come un perfetto idiota, ma era fatto così, andava a orecchio persino con le persone. Tutti non facevano che ripetergli che per capire una persona bisogna scavare a fondo e ci vuole tempo per farlo, ma Castiel non era mai stato d'accordo.
Lui non parlava e quindi riusciva a lasciarsi indietro dettagli e parole irrilevanti, e con un primo sguardo sapeva vedere dentro le persone. E se c'era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni era che nessuno riusciva sul serio a nascondersi, mascherando se stesso con un nuovo taglio di capelli, o con un vestito nuovo, o con un luccicante gioiello attorno al collo. No, le persone che entravano al Garden erano così semplici da leggere che Castiel non aveva nemmeno bisogno di sforzarsi.
Eppure c'era qualcosa in quel Dean, nel suo modo di strizzare la palpebre e ammiccare verso una bella donna prima di tornare totalmente serio - così falso, così strano- e nel movimento della mano che, di tanto in tanto, si sfregava sulle labbra. Aveva l'aria di chi aveva perso tutto o gran parte delle cose o persone a cui teneva ma non era così chiaro: c'era dell'altro, qualcosa che Castiel non riuscì a cogliere. Dean era una lettura complicata e forse avrebbe dovuto lavorarci, avrebbe dovuto studiarlo per venirne a capo perché non aveva senso, perché Dean poteva essere un fantasma, mancava di consistenza e di parole e lui non poteva proprio leggerlo in quelle condizioni.
Staccò le labbra dal sax, lasciando la melodia a metà quasi bruscamente, e chiuse gli occhi per pochi istanti. Non poteva suonare se non conosceva la musica e Dean al momento non era musica; era solo un uomo dallo sguardo spento e con un bicchiere pieno di whisky vicino alle labbra.
«Ehi» lo richiamò alla realtà Joshua, posandogli una mano sulla spalla. «Andiamo ragazzo, prendiamoci una pausa.»
Castiel annuì, sentendosi dannatamente in colpa del silenzio che era calato nel locale, e lasciò che l'altro lo guidasse nel suo ufficio, l'unico posto tranquillo in cui non sarebbero stati disturbati.
Joshua sospirò stancamente e si fece cadere sul divano.
«M dispiace» si scusò Castiel, chiudendosi la porta alle spalle.
«Cosa è successo?» domandò l'uomo e il ragazzo non voleva proprio farlo preoccupare con le sue stronzate ma se lui era capace di leggere dentro le persone, Joshua era praticamente il miglior lettore che avesse mai conosciuto.
«Un tizio del pubblico mi ha confuso... non sono riuscito a continuare.»
«Una folgorazione?» domandò l'uomo curioso e Castiel arrossì, guardando altrove.
«No, non direi. Forse solo un po' di curiosità.» rispose, neutro.
Joshua inclinò il capo ma non aggiunse nulla. Il suo viso si crucciò all'improvviso e Castiel lo vide portarsi una mano sul petto, massaggiandoselo con alcuni movimenti circolari.
Gli fu subito accanto, guardandolo con la solita apprensione. «Stai bene?» gli chiese, e l'altro poggiò una mano sulla sua, annuendo lentamente.
«Sto bene.»
Il ragazzo stirò le labbra e si guardò intorno, fin quando non individuò il flacone di medicine abbandonato sulla scrivania.
«Hai preso le tue pillole?»
«Perché fai domande stupide?» lo prese in giro Joshua, ridendo sommessamente.
Castiel lo detestava quando si comportava così e forse era questo il motivo per cui non rideva quasi mai: la risata lo indisponeva. Scherzare su qualcosa di così serio lo faceva infuriare e Joshua sembrava divertirsi, alle volte, quando dopo una piccola discussione finiva per perdere le staffe.
«Dovresti prenderle» gli consigliò, ad un passo così dall'afferrare il flacone e ficcargli le pillole in gola con la forza.
«Non ti ho chiesto di prenderti cura di me, Cas. Non sono vecchio e non ho bisogno che tu mi dica quello che devo o non devo fare.» replicò, teso, issandosi in piedi con un po' di fatica.
Castiel lo guardò avvicinarsi alla scrivania e afferrare il piccolo tubicino giallo per poi riporlo in uno dei cassetti.
«Peggiorerai. Non ti interessa?»
Joshua sospirò. «Oh sì che mi interessa, ma affronterò le conseguenze delle mie decisioni, come tutti.»
Più della sua risata, Castiel non sopportava quella calma. Era insopportabile perché nessuno avrebbe affrontato un fottuto tumore al fegato con una frase del tipo "vuol dire che doveva andare così". E Castiel lo odiava perché era l'unico a saperlo e Joshua sapeva che non l'avrebbe detto a nessuno visto il suo voto del silenzio.
Gran bella fregatura.
Si passò una mano sulla fronte e rise, senza gioia, ricacciando indietro lacrime amare. «Dio! Perché... voglio solo... Dio!» ringhiò, affondando la mano tra i propri capelli e tirandone alcune ciocche. Castiel dondolò sul posto prima di poggiare la testa sulle proprie ginocchia.
«Lascia stare Dio, sta facendo del suo meglio» sussurrò l'uomo, posandogli nuovamente una mano sulla spalla, e Castiel si sentì così piccolo, come la prima volta in cui aveva rovesciato uno dei vasi preferiti di Missouri ed era corso a nascondersi sotto il bancone dei liquori per non farsi trovare.
Ma non era un bambino e Joshua gli aveva appena lasciato sulle spalle un peso troppo grande da poter sostenere da solo e, per la prima volta in vita sua, si sentì uno sciocco perché non era vero che non poteva chiedere aiuto, semplicemente non voleva.
«Da tutte le cose brutte arriva sempre qualcosa di buono.» continuò Joshua, passandogli una mano sulla schiena, nel vano tentativo di calmarlo.
«Buono?» chiese Castiel, ironico. Tornò a sedere e guardò l'altro negli occhi, trovandovi quella calma che gli fece solo ribollire il sangue nelle vene. «Finirai in una bara, sotto terra, tra quanto esattamente? Sei mesi? Forse meno?»
Joshua sorrise dolcemente e allargò le braccia, sondando con lo sguardo ogni centimetro della stanza. «Questo, tutto questo, sarà tuo. E io non avrò rimpianti. Vedi... le medicine non fanno che rimandare quello che succederà comunque trasformandomi in un vecchio, debole uomo malato e non voglio andarmene così, ragazzo mio. Non posso cambiare quello che accadrà, ma posso decidere come arrivare alla fine e voglio che tu finisca questa corsa con me.»
Castiel non avrebbe saputo dire quando avesse iniziato a piangere, se ne accorse quando vide alcune lacrime cadere sui pantaloni dal taglio classico che indossava e sparire nel tessuto.
«Perché non vuoi dirlo a nessuno?» gli chiese, con la voce spezzata.
«Perché tu non vuoi dirlo a nessuno?»
«No» sbottò Cas, scattando in piedi. «Non manipolarmi, non farlo.»
«Non ti sto-»
«Vuoi farmi sentire in colpa, non è così?» gridò, interrompendolo, tutto il dolore e la rabbia che galleggiavano uniformi all'altezza del petto. «Non puoi farlo, maledizione! Non lo merito e...» fece una pausa, scacciando le lacrime dal proprio viso con il dorso della mano. «Non giocare a fare Dio con me.» concluse, lasciandolo lì, sul divano, con un'espressione confusa sul volto.
Raggiunse in fretta l'uscita di servizio, veloce e invisibile come solo lui sapeva essere, e l'aria frizzante della sera sul volto lo fece calmare. Inspirò lentamente, ad occhi chiusi, e si passò la lingua sulle labbra secche. Trovò quasi immediatamente il pacchetto di sigarette, semivuoto, nella tasca della giacca e si incamminò, i piedi che spontaneamente gli permettevano di muoversi senza che avesse la più pallida idea di dove andare.
Non comprendeva perché Joshua gli volesse fare questo, perché il mondo avesse stabilito di schiacciarlo o perché il destino avesse deciso di rincarare la dose, come se la sua sofferenza non fosse ancora abbastanza. Si sforzava, ma non lo capiva.
E Joshua gli diceva sempre di avere fede, che ogni cosa accade per una ragione e - la sua preferita- che il Signore opera in modo imperscrutabile. Parlava sempre del disegno di Dio anche se a Castiel sembrava più una partita a domino con le tessere della loro vita.
Dio si divertiva solo a buttarle giù, una dietro l'altra, e Castiel era così stanco di subire quello che la vita aveva fissato per lui che immaginare un Dio che non faceva nulla per aiutarlo lo faceva sentire più smarrito e incazzato di quanto riuscisse a sopportare.
Perdere Joshua sarebbe stata l'ultima tessera, e poi cosa sarebbe rimasto di lui? Solo un uomo senza parole, con un sax e un locale da gestire e non era certo di volere quella vita.
Sussultò quando sentì due dita della mano scottarsi a contatto con quel che restava della sigaretta accesa pochi minuti prima. Il fastidio lo riportò alla realtà e fece per guardarsi intorno: non conosceva quel vicolo buio, non aveva idea di come vi fosse arrivato, né di chi fossero quegli uomini che lo fissavano con uno strano ghigno sul volto che gli fece accapponare la pelle.
«Qualcosa non va, ragazzo?» domandò uno dei tre uomini, poggiato al muro.
Castiel lo osservò per qualche istante, trovandolo estremamente familiare anche se l'oscurità rendeva difficile individuarne i dettagli, prima di chinare lo sguardo e scuotere il capo. Avrebbe voluto indietreggiare, ma sentiva le gambe pesanti, i piedi incollati al terreno.
«Certo che qualcosa non va» mormorò il secondo uomo, incrociando le braccia. «Sta ficcanasando. Dovrebbe saperlo che non si gira in questi vicoli a quest'ora di notte.»
Il terzo uomo rise e scosse il capo, avvicinandosi a lui, la luce dell'unico lampione che ne illuminava il viso. Castiel alzò lo sguardo quasi riluttante e cercò di imprimere nella memoria quei particolari: gli occhi di un grigio innaturale, la dentatura perfetta, la lunga cicatrice che segnava gran parte del viso, da una tempia alla guancia sinistra. Sorrideva quell'uomo, eppure Castiel lo trovò comunque terrificante, forse il più pericoloso dei tre.
«Andiamo signori, non spaventate il ragazzo» li ammonì, senza guardarli. Adesso era così vicino che Castiel riuscì a percepire fastidiosamente l'odore acre del dopobarba che l'altro aveva addosso. «Come ti chiami?»
Il ragazzo riuscì ad indietreggiare, incapace però di staccare gli occhi dall'uomo. Un secondo più tardi si ritrovò con le spalle al muro. Letteralmente.
L'uomo gli accarezzò il viso e gli prese il mento tra le dita. «Non rispondi? Non sai parlare?»
Castiel aprì le labbra ma non vi uscì fuori alcun suono: aveva la mente vuota e la bizzarra sensazione di osservare quella scena senza però farne realmente parte. Forse per questo non aveva paura; non riusciva a muoversi né a parlare, ma non aveva paura.
«Se non parli allora non sei una minaccia, non è così?» domandò ancora l'uomo, stirando le labbra, soppesando la questione. «Ma non posso correre il rischio che all'improvviso ti torni la parola e che tu dica alle autorità che siamo tornati, non posso proprio. È un vero peccato, però...» continuò, accarezzandogli il viso e le labbra con i polpastrelli. «Hai proprio un bel visetto, ragazzo.» aggiunse, prima di sferrare un pugno così bene assestato sulla sua mascella da farlo traballare e scivolare contro il muro.
Non riuscì a capire da dove arrivarono gli altri colpi, né chi li stesse sferrando, sapeva solo che quei tre uomini si erano appena coalizzati contro di lui e che l'avrebbero fatto fuori. E mentre sentiva il sapore metallico del sangue sulla lingua, paradossalmente gli venne da ridere perché tutta quella situazione era assurda e probabilmente lui quella sera ci sarebbe rimasto secco e non avrebbe più dovuto preoccuparsi dell'imminente morte di Joshua.
Forse non sarebbe stato poi così male. Forse morire poteva andar bene.
Quando Castiel sentì i pugni diminuire e la pressione sul petto sparire, aprì gli occhi, confuso. Le lacrime incastrate tra le ciglia non gli permettevano di focalizzare nulla se non una nuova ombra vicina alle altre. Qualche lamento giunse alle sue orecchie in maniera ovattata e poi due mani forti lo sollevarono da terra, spingendolo - questa volta con più riguardo - contro il muro. Vide due labbra muoversi ma non riuscì a cogliere cosa stessero dicendo e poi uno schiaffo in pieno viso e di nuovo quelle labbra che gli domandavano se stesse bene.
No, non stava affatto bene. Non c'era una parte di lui, in quel momento, che stesse bene.
Annuì distrattamente e notò del sangue anche sul viso dell'uomo che aveva di fronte - una spaccatura profonda sullo zigomo e il naso che iniziava ad assumere un colorito violaceo- e comprese che, per aiutarlo, le aveva prese anche lui di santa ragione e nonostante tutto era riuscito a vincere.
«Che cazzo stavi facendo qui? Si può sapere?»
Fu allora che Castiel lo riconobbe, forse solo un po' più malmenato di poche ore prima.
«Mi stavi seguendo?»
Le parole uscirono dalle sue labbra prima che riuscisse a rendersene conto.
Dean aggrottò la fronte - le mani ancora poggiate sulle sue spalle- e sbatté le palpebre diverse volte. Castiel si chiese come mai fosse così sorpreso.
«In realtà sì.» rispose, dopo un breve tentennamento. Probabilmente tutti quei pugni li avevano resi non particolarmente inclini a raccontare cazzate, per quella sera almeno.
Castiel gemette di dolore, la presa sulle sue spalle improvvisamente troppo ferrea. «Che cazzo sei, un maniaco?» sbottò, spingendolo via, ma le sue gambe cedettero senza quel sostegno e si ritrovò nuovamente con il culo per terra.
«Un ma-» L'altro si ficcò un pugno in bocca per non replicare, poi prese un respiro e cerco di calmarsi, nonostante i nervi tesi fossero visibili lontano un miglio. «Un semplice grazie sarebbe stato apprezzato, sai?»
«Grazie di cosa? Di avermi pedinato in un vicolo?»
«Di averti appena salvato il culo, amico.» ringhiò Dean, esasperato. «E non sono un fottuto maniaco, per la cronaca, sono un poliziotto. E poi- cazzo, ma tu non eri quello che non parlava? Tutto a un tratto ti è tornata la parola o cosa?»
Il fatto che quell'uomo lo conoscesse lo mise a disagio, solo per pochi secondi, prima di accendere in lui il dubbio perché, andiamo, anche quella storia era assurda! Non ci avrebbe creduto neanche un bambino.
«Un poliziotto?» domandò, stringendosi il labbro inferiore tra i denti per impedirsi di scoppiare a ridere. Un poliziotto. Sì certo. Come no.
«Sì. È strano?»
«No, non è strano. È solo che... è la cazzata più grossa che abbia mai sentito.» osservò, ridendo prima di venire attraversato da una stilettata di dolore al petto.
Sentì nuovamente le mani di Dean addosso e un secondo più tardi si ritrovò sorretto da lui, con un braccio attorno alla sua spalla e la sua mano sulla propria vita. E sì, era imbarazzante.
«Ogni scusa è buona per mettermi le mani addosso, eh?» ironizzò, troppo cocciuto per lasciar correre ma troppo debole per respingerlo un'altra volta.
Dean sbuffò e scosse il capo, esasperato. «Alla prossima insinuazione sessuale, giuro su Dio che ti sbatto dentro.»
«Sì, ti piacerebbe.»
«Sono un poliziotto.»
«E io sono una principessa.»
Castiel lo vide serrare la mascella: chissà quanto avrebbe ancora resistito prima di mollarlo sul marciapiede e continuare per la propria strada. Non lo avrebbe biasimato, ma provocarlo era l'unica cosa divertente che gli fosse capitata negli ultimi tempi.
Forse per questo non riusciva a tenere la bocca chiusa, nonostante fosse la sua specialità.
Aveva appena rischiato la pelle e non riusciva a tenere la bocca chiusa. Era la prima volta.
«Sai che c'è? Ti preferivo quando non parlavi» constatò l'altro, trascinandolo centimetro dopo centimetro.
«Non ho parlato più o meno per dieci secondi.» osservò Castiel e le labbra di Dean si piegarono in un sorriso.
«E sono stati i dieci secondi più appaganti e felici della mia vita.»
Castiel non replicò, piccato, e si lasciò trascinare verso il Garden in un silenzio quasi religioso. Quando vide le luci soffuse del locale in lontananza si fermò, facendo imprecare Dean a denti stretti.
«No, andiamo di qua» ordinò ferreo, indicando la piccola stradina sulla destra. «Saliamo da me.»
Dean sbuffò una risatina roca e lo accontentò, avanzando di pochi passi verso quella direzione. «Chi è il maniaco adesso?» chiese ironico, e l'altro si divincolò dalle sue braccia senza reale convinzione.
«Non voglio che mi vedano in queste condizioni.» spiegò, e non lo voleva davvero. Era già successo e rivedere quei visi che amava tingersi di preoccupazione avrebbe solo peggiorato una serata già abbastanza sconvolgente. No, grazie.
«E poi hai bisogno di darti una ripulita anche tu» aggiunse, ormai sul portico di casa, cercando la chiave nelle tasche della giacca. «Sarai anche un maniaco, ma non sono una persona senza cuore.»
«Certo, come no. Hai un gran cuore e anche una fottuta bocca larga.» si lamentò l'altro, aiutandolo a salire le scale.
La casa era buia e nessuno dei due si premurò di accendere le luci. Arrivarono in una delle camere e finalmente Castiel si abbandonò sul proprio letto, grugnendo a metà tra il soddisfatto e il dolorante.
«Il bagno è lì» informò l'altro, indicando alla propria sinistra. Si sfilò la giacca e la camicia insanguinate e strappate con un po' di fatica, troppo debole per sfilarsi anche i pantaloni e le scarpe.
«Bella cicatrice» mormorò Dean, indicando con un cenno la sua spalla. «Che cosa ti è successo?»
Castiel si coprì la spalla con una mano. «È personale.»
L'altro non insistette e lo vide semplicemente annuire ed entrare nella piccola stanza da lui indicatagli, tenendo la porta socchiusa. Il ragazzo voltò il capo sul cuscino, guardando piccoli sprazzi di Dean attraverso la fessura: lo osservò sfilarsi il cappotto lungo, poi la giacca e la camicia, sciacquarsi il viso e le nocche insanguinate,  e notò piccole mezzelune chiare all'altezza di un fianco: cicatrici rosee, numerose.
«Come mai hai tutte quelle cicatrici?» gli chiese, incapace di trattenersi.
«È personale» rispose provocandolo, uscendo dal bagno e Castiel non era arrossito, neanche un po'. O per lo meno, non era arrossito per Dean.
Era stanco, avrebbe voluto riposare, non poteva di certo mettersi a pensare a quel tizio a petto nudo di fronte al suo letto.
Dean si sfilò qualcosa dalla tasca e gliela lanciò sul petto: solo dopo alcuni secondi Castiel realizzò che si trattava di un distintivo.
«Porca puttana, allora non scherzavi!» sbottò, arrossendo davvero perché, dannazione!, si era comportato da perfetto idiota.
E Dean rise, una risata calda che accese il suo petto come legna sul fuoco. «Incredibile, vero?»
«Non hai la faccia da poliziotto.»
«Oh sì, è vero. Ho la faccia da maniaco, ho capito.»
Castiel addolcì il tono. «Sì, ma di un maniaco come si deve.» mormorò, nel più totale imbarazzo. «Allora... perché- perché mi stavi seguendo?» domandò incerto.
L'altro si accomodò sulla poltrona vicina alla porta, infilandosi nuovamente la camicia. «Volevo farti qualche domanda su Jack McDermott. Eravate amici, non è così?»
Il viso di Castiel si rabbuiò. Alzò il busto, gemendo a denti stretti, realizzando che era una discussione da affrontare in una posizione più consona. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e vagò con lo sguardo da una mattonella del pavimento all'altra.
«Sì, eravamo amici.» rispose, deglutendo. «Suppongo che adesso non lo siamo più.»
«Mi dispiace.» mormorò Dean e per quanto Castiel sapesse che un "mi dispiace" non era altro che una frase di routine per persone come lui, il poliziotto sembrava assolutamente sincero.
Annuì, grattandosi la nuca. «È stato un suicidio, no? Perché ti interessa tanto?»
Dean sospirò e scivolò in avanti sui cuscini della poltrona, poggiando la testa sulla spalliera. «Trovo strano che un uomo si sia tolto la vita per il tradimento di una donna.» osservò e Castiel sorrise amaramente.
«Strano? Perché? Se scoprissi che la persona più importante della tua vita ti tradisce come reagiresti?»
Dean fece spallucce. «Probabilmente mi incazzerei, non la prenderei bene, ma non arriverei fino a questo punto. Quindi no, non lo capisco.»
«Tu non hai mai amato nessuno altrimenti capiresti.»
«E tu non mi conosci.» obiettò Dean, ghignando.
Castiel scosse il capo, risoluto. «Sei più semplice di quello che pensavo. In superficie non riesci a nascondere molto.»
Dean assottigliò le palpebre e inclinò il capo. «In superficie non nascondo molto volontariamente. È perfetto per sviare le teorie di fottuti strizzacervelli.» sorrise compiaciuto. «E funziona.»
Castiel aprì le labbra e le richiuse dopo pochi secondi, non sapendo cosa ribattere.
«Cosa vuoi sapere di Jack?»
«Ti ha detto qualcosa prima di... sai, prima di farlo?»
Castiel scosse il capo. «Non era lucido, non lo era da settimane ormai. Abbiamo scambiato due parole tre giorni prima che accadesse. Continuava a dire che avrebbe sistemato tutto ma... era ubriaco, non potevo immaginare...»
«Hai idea a cosa si riferisse?»
«No, per niente. Ma so per certo che amava sua moglie e che sua moglie lo ricambiava. Non ha mai parlato di tradimenti, tutta questa storia è saltata fuori solo dopo la sua morte.»
«Credi che non si sia suicidato per colpa della moglie?»
Castiel strinse le labbra e alzò lo sguardo sull'altro. «Credo che l'abbia fatto per un motivo che non comprendiamo.»
Dean annuì distrattamente, alzandosi poi in piedi e raccogliendo il distintivo abbandonato accanto all'altro. «Nel caso dovesse venirti in mente qualcosa, qualsiasi cosa, fammelo sapere. Mi trovi quasi sempre in ufficio.»
Castiel annuì e lo guardò uscire dalla stanza. Indugiò per un attimo, troppo sfinito per alzarsi in piedi, ma il suo corpo prese l'iniziativa da sé e iniziò a muoversi verso l'esterno.
«Chi ti ha detto che non parlavo con nessuno?» urlò, senza volerlo, aggrappandosi alla ringhiera per non rotolare giù dalle scale.
Dean si voltò, abbottonandosi il cappotto. «Missouri.»
E Castiel annuì anche se non aveva idea del motivo, non aveva idea di cosa ci facesse quell'uomo in casa sua, né del perché gli stesse parlando e soprattutto perché non riusciva a sentirsi minimamente a disagio.
Quel Dean emanava una sorta di calma e, al tempo stesso, elettricità che lo spingevano ad aprire le labbra e parlare, fino a sentire la gola grattare.
Il poliziotto scese altri tre gradini per poi fermarsi e voltarsi verso l'altro. «Perché mi hai rivolto la parola?» gli domandò, probabilmente reprimendo quella domanda da quando lo aveva tirato fuori da quel vicolo.
«Credo... » gracchiò e subito dopo si schiarì la gola, riprovandoci. «Credo che io e te ci somigliamo.»
«Sarebbe a dire?»
Castiel si morse il labbro inferiore ed evitò il suo sguardo, imbarazzato. «Mi ritrovo sempre a parlare con persone che si sentono sole.»
Dean non rispose, ma Castiel riuscì comunque a leggere sul suo viso quella domanda sospesa, quel "anche tu ti senti solo?" che non uscì mai dalle sue labbra. Questi si limitò a voltarsi e dirigersi verso la porta mentre il padrone di casa mormorava qualcosa che sembrava «se dovessi scoprire qualcosa verrò a cercarti.» senza che l'altro se ne curasse più tanto.
Castiel rimase per un po' a fissare la porta chiusa, consapevole di aver toccato un tasto dolente in quel Dean di cui non sapeva niente.
Si sentiva solo, esattamente come lui e, a volte, la solitudine sa essere la più bella delle melodie.
Sì, la solitudine avrebbe potuto suonarla. Era bravo in questo.
 
Dean voltò l'angolo e poggiò le spalle al muro, sospirando pesantemente. Si passò una mano sul viso e la sfregò sulle labbra, ripetutamente.
Era la verità, Dean si sentiva solo, ma nessuno lo aveva mai notato prima e se la maschera che si era costruito non riusciva più a nascondere la verità allora aveva davvero un nuovo problema di cui occuparsi.

Continua...
 

Note dell'autrice: sì, ho aggiornato un po' prima del previsto. È solo che ci tenevo a farvi gli auguri mie meravigliose donne, siete grandiose e bellissime, non dimenticatelo mai. 
Non mi dilungo troppo questa volta perché devo fuggire, i libri ringhiano in lontananza. Passate una splendida giornata ♥
E.

   
 
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