Carry
on
Avete
presente quelle volte in cui le parole escono dalla bocca senza nemmeno
passare
dal cervello? Ecco, detesto con tutto il cuore quelle volte.
Perché è come una sbronza, quando torni in te ti
rendi conto di aver detto cose
che normalmente non ti sogneresti nemmeno di pensare. E ti odi, ti odi
da
morire, perché sei riuscito a incasinare tutto.
Well I
woke up to the sound of silence
The cars were cutting like knives in a fist fight
Avevamo
litigato di nuovo.
Non so nemmeno perché. Per una stupidaggine sicuramente,
come al solito. La
discussione era finita sul personale, un po’ troppo sul
personale, come al
solito. Su quella dannata guerra, sulla mia dannata Indipendenza, come
al
solito.
E ci eravamo feriti a vicenda senza nemmeno un motivo valido. Come al
solito.
“Sei
ossessivo! Non puoi portare rancore per una cosa successa tre secoli
fa. Tre
secoli fa, capisci?!”
Si stava
sforzando di non piangere. Me ne rendevo perfettamente conto.
“No,
sei tu
che non capisci. E sai perché? Perché non sei
altro che…”
“Lasciami
indovinare”, lo avevo interrotto, con tono sarcastico,
“Un ragazzino egoista.
Giusto?”
Aveva
boccheggiato un paio di volte, forse alla ricerca di qualcosa,
qualsiasi cosa,
con cui ribattere. Poi, in un lampo di frustrazione, si era morso il
labbro e
aveva abbassato il capo, trattenendo nuovamente quel singhiozzo che non
arrivava.
Era strano vederlo così. Proprio lui, che sfoderava sempre
una risposta pronta,
che non era soddisfatto se non poteva avere l’ultima parola.
Avrei dovuto capire che qualcosa non andava.
“Lo
vedi?”,
aveva mormorato, “E’ solo colpa tua. E’
sempre colpa tua.”
E alla fine
la sua voce si era davvero spezzata. Avevo intravisto una lacrima
scendergli
sul viso.
A quel punto mi aveva dato le spalle ed era corso via, senza nemmeno
guardarmi
negli occhi.
And I
found you with a bottle of wine
Your head in the curtains
And heart like the fourth of July
New York
è
una grande città, questo è vero. Ma io lo
conoscevo, e sapevo esattamente dove
trovarlo.
C’era un piccolo bar a Manhattan. Troppo piccolo e troppo
buio per essere
frequentato dagli impiegati snob della Grande Mela che frequentavano il
distretto, ricordava vagamente uno di quei fumosi pub irlandesi pieni
di loschi
figuri.
Un luogo perfetto, insomma, per un inglese desideroso solo di bersi
anche
l’anima e con quella il suo dolore.
Lo vidi
subito, quando entrai.
Era seduto in un angolo. Teneva la testa tra le braccia, appoggiate sul
piccolo
tavolino scuro. Davanti a lui, una bottiglia mezza vuota di quello che
sembrava
rum, e un bicchiere perfettamente pulito. Questo non era un buon segno:
se
aveva preso a bere a collo sin dall’inizio, se non aveva
cercato di darsi quel
minimo di contegno da gentleman, la situazione era più grave
del previsto.
“Ti
ho trovato.”
You
swore and said
We are not
We are not shining stars
This I know
I never said we are
I suoi
occhi verdi si alzarono di scatto verso di me. Erano arrossati e umidi,
così
come le sue guance.
Quel barlume di stupore che avevo letto sul suo viso si
trasformò velocemente
in un tagliente odio; ma riuscivo comunque a vedere un’ombra
di profonda tristezza,
in quelle due schegge di smeraldo.
“Perché
sei
qui? Voglio stare da solo.”, sibilò a denti
stretti, passandosi una mano sul
volto.
Presi un
profondo respiro: “Ascolta, mi dispiace per prima. E so che
anche a te
dispiace, perciò possiamo metterci una pietra sopra come al
solito e andare
avanti con la nostra vita?”
Non feci
nemmeno in tempo a finire la frase, che lui scoppiò a
ridere. Sembrava
sinceramente divertito, ma poteva benissimo essere per via
dell’alcol.
“Sei
solo
uno stupido, sai?”, disse, “Davvero credi che basti
chiedermi scusa? Davvero
pensi che un ‘mi dispiace’ cancelli tutto? Non
siamo bambini, non più.”
Alzai gli
occhi al cielo, e mi decisi a sedermi di fronte a lui: la cosa sarebbe
andata
per le lunghe evidentemente.
“Cosa
dovrei
fare allora? Prostrarmi ai tuoi piedi? Chiedere il tuo perdono in
lacrime? Sai
che non lo farò mai.”
Lui
annuì,
e il suo viso si aprì in un sorriso amaro.
“Oh,
lo so
perfettamente. Ma, vedi, è proprio questo il problema: non
c’è nulla che tu
possa fare. Nessuno di noi può fare qualcosa per cambiare
tutto questo.”
Corrugai la
fronte. Non capivo più di cosa stessimo effettivamente
parlando. Sapevo
solamente che quell’espressione sul suo viso, e i suoi occhi
che stavano
ricominciando a riempirsi di lacrime, non mi piacevano per niente.
“Arthur,
dimmi qual è il problema.”
“Il
problema sei tu, Alfred. Il problema siamo noi.”,
sbottò di scatto, lanciandomi uno sguardo di bruciante
disperazione, “E
speravo…avevo sperato che lo avresti capito da solo. Hai
solo reso le cose più
difficili, non avrei mai, mai, dovuto darti ascolto. Sono stato un
idiota.”
Detto
questo, si era alzato con foga ed era uscito dal locale con passo
svelto,
lasciandomi allibito mentre quel brutto presentimento diventava ormai
una
certezza.
Though
I've never been through hell like that
I've closed enough windows
To know you can never look back
Aveva
iniziato a piovere, fuori. Ma nessuno dei due sembrava curarsene.
I lampioni illuminavano quelle strade ormai deserte, con una luce
irreale sopra
la quale i grattacieli si stagliavano cupi e minacciosi contro un cielo
nero
come la pece.
“Arthur,
fermati dannazione! Non puoi pretendere che le persone capiscano quello
che
frulla nella tua testolina!”
Avevo
urlato, ma lui non aveva accennato a fermarsi. Stretto nel suo cappotto
nero,
procedeva spedito in una direzione in apparenza ben precisa, ma che di
fatto,
lo conoscevo, non portava da nessun’altra parte se non
semplicemente lontano da
me.
Iniziai a
correre, le gocce gelide si infrangevano contro il mio viso, si
infilavano
sotto la mia giacca facendomi rabbrividire.
Ma non mi importava. Non in quel momento.
Lo
raggiunsi con un ultimo scatto, e lo afferrai per le spalle, facendolo
girare
verso di me e costringendolo così a guardarmi negli occhi.
Sembrava solo molto
stanco, a quel punto.
“Arthur,
ti
prego…”, mormorai, supplicandolo con gli occhi.
Lui
abbassò
il capo, ma non si scostò. “Ti ricordi quando
dicesti di amarmi?”
Quella
domanda mi colse impreparato. Era completamente fuori luogo, talmente
tanto da
essere quasi coerente, pensandoci.
“Ovviamente.
Anche quella notte pioveva. Certo, eravamo dall’altra parte
dell’oceano, a
Londra. Però non era poi molto diverso da ora.”
Lo vidi
sorridere debolmente. “E’ qui che ti sbagli.
E’ tutto diverso, io sicuramente
lo sono. Perché quella notte, Alfred, siamo stati
così immaturi.”
Pendevo
dalle sue labbra. Perché sapevo che ogni parola che diceva
rivelava un piccolo
frammento dei suoi pensieri. E Dio, quanto desideravo conoscerli, e
quanto li
temevo allo stesso tempo.
If
you're lost and alone
Or you're sinking like a stone
Carry on
May your past be the sound
Of your feet upon the ground
Carry on
“Anche
tu
hai detto di amarmi. Che mi avevi amato sempre.”, risposi,
mentre i ricordi di
quella serata cominciavano a fluire nella mia mente.
“E
infatti
è così.”, disse con sicurezza,
nonostante la voce gli tremasse, “Ma non
possiamo cancellare il passato. Non possiamo sperare di ripartire da
zero.
Siamo immortali, ma non per questo dimentichiamo più in
fretta.”
Prese un
profondo respiro, sbattendo un paio di volte le palpebre.
“Guardaci, Alfred.
Non siamo felici. Non siamo mai d’accordo, litighiamo sempre,
continuiamo a
ferirci a vicenda. Credi che questo sia amore?”
Avvertii un
nodo formarsi all’altezza della mia gola. Perché
mi sentivo così
irrimediabilmente triste? Perché desideravo che quello fosse
un incubo, e non
la realtà.
“Ascoltami,
so che non siamo proprio una coppia perfetta, una di quelle che si
vedono nei
film. Ma non possiamo permettere che il rancore ci divida per sempre.
Sarebbe
stupido, Arthur, troppo stupido perderti così.”,
dissi cercando di mantenere la
calma, cercando di pensare con lucidità, nonostante tutto
quello che avrei
voluto fosse abbracciarlo, baciarlo fino a togliergli il respiro,
fargli capire
che era mio e che sarebbe andato tutto bene.
Lui scosse
il capo con rassegnazione, guardandomi con un mesto e tenero sorriso
sulle labbra.
Odiavo quello sguardo. Era quello che mi riservava quando ero ancora la
sua
colonia, quando si limitava a scompigliarmi i capelli e mormorare:
“Non puoi
capire, Alfred. Sei troppo piccolo.”. E io allora gonfiavo le
guance e chiedevo
quando sarei stato abbastanza grande. Ma lui non rispondeva mai.
Probabilmente, nemmeno se glielo avessi domandato in
quell’occasione, sotto
quella pioggia scrosciante, mi avrebbe dato risposta.
“Il
tuo
problema”, dissi dopo un lungo silenzio,
“E’ che non sai andare avanti.”
La sua
bocca si piegò in un sorriso amaro.
“E il
tuo è
che sei un imbecille.”
“No,
ascoltami.”, proseguii prendendogli il viso tra le mani,
“Tu sei fermo al
passato. Dici di essere stato stupido quella sera, quando hai deciso di
riprendermi nella tua vita, e che è stata una gran cazzata.
Ma sai cosa? Non è
vero. Quella volta hai semplicemente messo da parte
l’Indipendenza, il quattro
luglio e il Boston Tea Party e hai detto tra te e te: Ehi,
forse questo cretino di un americano mi ama davvero!”
Avevo
pronunciato
quelle ultime parole tentando di imitare la sua voce, e questo gli fece
storcere il naso: “Io non parlo così! Non ho
quella stupida voce nasale, il mio
accento non è così marcato, e-“
“E
credo di
aver capito”, continuai interrompendolo, “che la
verità è che ora come ora hai
fatto i tuoi stupidi e nevrotici calcoli e hai deciso, nella tua
piccola
testolina malata, che finirò con il farti soffrire ancora! E
l’eventualità che
possa succedere di nuovo ti terrorizza.”
“Ma-“
“Però
non
succederà, e non chiedermi come posso dimostrartelo,
perché la verità è che non
lo so. Ed è buffo, non trovi? Che una cosa così
semplice sia così complessa da
spiegare. Io ti amo, ecco tutto.”
Non
riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso, che stavo ancora
stringendo tra
le mani, dai suoi occhi verdi, così magnetici, che mi
terrorizzavano e mi
attraevano al tempo stesso, e che in quel momento mi guardavano
scintillanti di
rassegnazione e speranza.
Si
inumidì
le labbra, nonostante fossero già imperlate di gocce di
pioggia, e fissando un
punto imprecisato di fianco al mio volto mormorò, serio:
“Cosa ami di me?”
Cause we
are
We are shining stars
We are invincible
We are who we are
Mi scappò una mezza risata. Non erano da lui certe domande,
più adatte a una
fidanzatina del liceo piuttosto che a una nazione segnata dalle
cicatrici del
tempo. Tuttavia, gli accarezzai dolcemente la guancia bagnata con il
pollice, e
risposi così, senza pensare, certo che quello che dovevo
dire, e che lui
desiderava sentire, sarebbe uscito direttamente dal mio cuore.
“Amo
i tuoi
occhi, e i tuoi capelli perennemente incasinati. Amo le lentiggini che
ti
spuntano sul naso quando prendi un po’ di sole, anche se tu
le detesti, e sì,
anche quelle tue sopracciglia adorabilmente enormi. Amo il tuo profumo,
perché
sa di pioggia e di the. Amo la tua cucina terribile, e la tua
fissazione per
quelle creaturine fatate. Amo guardarti quando non te ne accorgi,
quando sei
assorto durante i meeting, quando leggi, o quando dormi e mi rubi tutte
le
coperte. Amo quando arrossisci, amo quando ti arrabbi ma non fai sul
serio, e
amo quando non riesci a tenermi il broncio e ti sfugge quel sorriso
sull’angolo
della bocca. Amo da morire anche la tua bocca, pensandoci, ma non credo
sia il
momento più adatto per dilungarmi sulle motivazioni,
perché penso che potresti
schiaffeggiarmi. Amo la tua camminata, e amo la fierezza che hai negli
occhi.
Ma sai”, dissi infine, come se mi fosse venuto in mente solo
in quel momento,
“credo che la cosa che amo di più di te sia il
modo in cui tu ami me.”
Era
colpito, Arthur. Non riuscivo a indovinare se in bene o in male; ma
glielo
leggevo in faccia, mentre avvertivo il calore che gli era salito alle
guance
contro i palmi delle mie mani.
A un
tratto, prese un profondo e lento respiro.
“Sei
un
idiota. Un grosso, grossissimo idiota a cui io non dovrei dare ascolto
nemmeno
per sbaglio. La cosa più intelligente che potrei fare
sarebbe andarmene, ecco.
Lo so già, mi pentirei amaramente di qualsiasi altra
decisione. Però”, la sua
voce tremò appena quando incatenò il suo sguardo
al mio, “Non posso tollerare
che mi si dia del nevrotico che non riesce ad andare avanti.”
Detto
questo, in un attimo, annullò la distanza che separava i
nostri visi e
immediatamente avvertii le sue labbra bagnate contro le mie, le sue
braccia
intorno al mio collo.
Fu un bacio prepotente, provocatorio, ma di una dolcezza infinita: le
sue
labbra, a tratti violente e affamate, in alcuni istanti diventavano
invece
carezzevoli e delicate come non erano mai state prima. Voleva farmi
capire che
dopotutto era sempre lui ad avere il controllo della situazione, voleva
accertarsi che rimanessi davvero accanto a lui per sempre come gli
avevo
promesso, in una sorta di implicito monito e silenziosa preghiera. E io
mi
sentivo così stupidamente felice che ricambiai con tanto
entusiasmo da togliere
il respiro a entrambi.
Quando si
allontanò da me, mi lanciò un sorrisetto
soddisfatto. Dopodichè sciolse
definitivamente l’abbraccio in cui ci eravamo stretti
inconsapevolmente, e si
allontanò nuovamente dandomi le spalle, non senza avermi
prima invitato a
seguirlo con lo sguardo. Io lo affiancai all’istante.
Le nostre mani si cercarono per poi intrecciarsi con una
spontaneità
incredibile.
“Siamo
fradici, ed è solo colpa tua.”, disse lui
fingendosi scontroso, ma venendo
smentito dall’espressione divertita che aveva sul volto.
Non riuscii
a trattenere un sorriso: “Non so in base a cosa la colpa sia
mia, ma comunque
ne è decisamente valsa la pena.”
Alzò
gli
occhi al cielo: “Ora non montarti la testa. Rimani comunque
un idiota,
megalomane, esaltato, insensibile-“
“Ehi,
ehi,
frena!”, lo interruppi, “Ti ricordo che tu lo ami
questo idiota-megalomane-esaltato-insensibile-eccetera
eccetera!”
Arthur mi
lanciò un sorrisetto sornione: “Mh,
forse.”
“C-Come
sarebbe…?!”
“Stavo
solo
scherzando!” esclamò lui prima che riuscissi a
concludere la frase, “Lo vedi
che sei un idiota?”
“Dopotutto”,
mormorò, mentre avvertivo la sua presa sulla mia mano farsi
impercettibilmente
più stretta, “Se ti ho permesso di farmi cambiare
idea, un motivo c’è.”
Mi
avvicinai di più a lui, arrivando a far sfiorare le nostre
spalle.
Sapevo perfettamente quale fosse il motivo di cui stava parlando. Ma
non feci
domande, non dissi nient’altro e lo stesso fece lui.
Perché andava già bene
così, perché eravamo lì, sotto quella
pioggia battente, nessuno dei due sentiva
il bisogno di correre al riparo, di chiamare il primo taxi disponibile,
e c’era
quell’elettrica ed euforica felicità che vibrava
nell’aria ogniqualvolta i nostri
sguardi si incrociavano.
C’era, insomma, quel piccolo momento, un presente che
sembrava valere tutto il nostro
passato e, ora ne ero certo, tutto il nostro
futuro.
On our
darkest day
When we're miles away
So we'll come
We will find our way home
Angolino
dell’Autrice:
No, non so cosa ho appena scritto nè perchè.
E’ solo che mi sembrava carino
farvi sapere che sono viva e che non ho rinunciato al mio intento di
rompervi
le scatole su EFP. Quindi ecco, tanto per cambiare una song fic su
questi due. Perché
la canzone è veramente bella, e i FUN sono davvero bravi (a
differenza della
fanfiction e di quella nullafacente della sua autrice, coff coff).
Perciò sì,
andate a sentirvela, da bravi. E magari se siete in vena lasciatemi
anche un
commentino, o una critica costruttiva, o il vostro codice di avviamento
postale,
a voi la scelta (?).
E oh, quasi dimenticavo: vorrei ringraziare la mia Cucchiaia, che di
recente mi
ha dedicato una fic bellissima e che ha aspettato pazientemente che io
finissi
questa cosa. Grazie mille, donnaH :’)
Con questo, passo e chiudo.
See ya
soon, people!