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Autore: The_Silent_Wave    09/03/2013    1 recensioni
I pensieri di Chris ripercorrono gli eventi salienti del “PaleyFest Icon Award to honor Ryan Murphy.”
CrissColfer angst-introspettiva con happy ending.
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Odiava la sua bocca troppo grande, troppo larga, che sembrava far perdere quei minuscoli denti nella sua imponenza; glielo ricordavano sempre quei bulli al liceo con quelle continue offese e minacce, che lo costrinsero a ritirarsi in una clausura necessaria, ma triste per un adolescente, che voleva solamente andare a scuola, trascorrere le ore scolastiche con i suoi pochi amici, che voleva in fin dei conti solo sopravvivere.
Malgrado lui lo odiasse, odiasse il suo sorriso bizzarro e sdentato, qualcun altro lo amava.
Qualcuno amava quelle fossette, che si creavano ai lati della bocca, amava quella potente luce che emanava in volto, amava quell’espressione bizzarra e sdentata.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chris Colfer, Darren Criss
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'CrissColfer: between fiction and reality '
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Now eccomi con una OS CrissColfer, un po’ angst, okay un po’ tanto angst, ma più introspettiva e stavolta, rispetto alla precedente, c’è l’happy ending. * esulta  *
Spiegazioni, ispirazione e quant’altro alla fine!
Enjoy it.
 
 
 

I don’t look good when I smile
 

 
I flash delle macchine fotografiche, che abbagliano e accecano d’improvviso lo sguardo; il click incessante dei tasti premuti, segnale che il momento è appena stato immortalato; le urla dei fotografi che si accavallano, si mischiano diventando un unico suono, terribile, dispotico, ordinano sorrisi, belle facce, espressioni da copertina, devi stare là calcando quel tappeto e devi compiacerli.

È questo che comporta la fama, pensò Chris tornato dall’ultimo evento di turno.

Stava là raggomitolato sulla poltrona -mentre il timido chiarore della luna filtrava tra le tende trasparenti rompendo il buio- scomposto, con un braccio sulla spalliera, una gamba incrociata accanto al cuscinetto e l’altra per terra a lambire inconsciamente la coperta caduta; fissò smarrito un punto indefinito nel buio per riflettere.

E, riflettendo appunto, capii che era proprio quello ciò che odiava di più della fama: l’essere impeccabile, perfetti, essere sereni e tranquilli, anche quando invece eri l’esatto opposto, essere alla stregua di un misero oggetto usato solo per quell’istantanea e transitoria composizione.
Come può una persona essere un oggetto? Un essere inanimato con delle emozione meccaniche, giostrate sapientemente dai quei burattinai, di cui devi seguire gli ordini senza fiatare ?
Tuttavia lui era un attore, vincitore di un Golden Globe, doveva saper recitare bene, meglio di tutti (aveva incarnato molti ruoli: -tra i più celebri- dal saccente e modaiolo Kurt Hummel, allo sprezzante e determinato Carsons Phillips) ma ciononostante fuori dal set, fuori da quelle battute già scritte e ordinate con rigore, dalle telecamere puntate addosso non ci riusciva. E per quanto provasse di continuo a impersonificare quell’oggetto costruito ad hoc, tornava puntualmente ad essere una persona, ritornava inesorabilmente ad essere umano.
«Non ho un bell’aspetto quando sorrido. » disse dopo che un fotografo insistette per troppo tempo con voce tenorile non smettendo di richiamarlo al suo dovere, come un maestro che sprona con violenza il suo discolo alunno.
«Lasciami in pace. » Lo mise a tacere con quel tono, scudo mistificatore, che non permetteva di capire da dove nasceva quel sarcasmo insito tra quelle parole: se dalla semplice irritazione o da qualcosa radicato più a fondo, risvegliato ora bruscamente come una belva feroce dal suo mite torpore.
Del resto era vero: non aveva un bell’aspetto quando sorrideva.
Odiava i suoi denti, troppo piccoli e insignificanti, a cui neanche un apparecchio correttivo aveva potuto porre rimedio.
Odiava la sua bocca troppo grande, troppo larga, che sembrava far perdere quei minuscoli denti nella sua imponenza; glielo ricordavano sempre quei bulli al liceo con quelle continue offese e minacce, che lo costrinsero a ritirarsi in una clausura necessaria, ma triste per un adolescente che voleva solamente andare a scuola, trascorrere le ore scolastiche con i suoi pochi amici, che voleva in fin dei conti solo sopravvivere.
Malgrado lui lo odiasse, odiasse il suo sorriso bizzarro e sdentato, qualcun altro lo amava.
Qualcuno amava quelle fossette, che si creavano ai lati della bocca, amava quella potente luce che emanava in volto, amava quell’espressione bizzarra e sdentata.
Ricacciò quelle considerazioni, quella persona da esse; raccolse a fatica la coperta da terra, stava incominciando a sentire freddo, benché i termosifoni fossero già accessi e caldi.
Si coprì interamente, incrociando le mani sul ventre, sollevò una gamba all’altezza del petto e portò l’altra, scattatasi da terra, sulla seduta della poltrona.
Alzò lo sguardo per osservare la stanza- stanza da letto per la precisione -, il buio spezzato dalla luce della luna, le tende, il letto sfatto e sgualcito -non era riuscito a dormire, l’insonnia, che brutta bestia-, il quadro sopra di esso, i comodini ritti come fusi.
I suoi occhi si posarono su ognuna di queste cose, le scrutava cercandone qualche cosa di remoto, qualche cosa che a lui fosse sfuggito di soppiatto e che forse si fosse perso, -troppo concetrato su se stesso- poi si piantarono sulla mensola, sui regali dei fan.
Impiegavano tante energie quei ragazzi, quelle ragazze, a migliaia studiavano i suoi gusti, attenti a ogni parola che li riconducessero a ciò che gli piaceva, a ciò che avrebbe voluto ricevere e quelle energie, quelli sforzi avevano sempre successo; adorava tutti quei ninnolini, tutti quei lama di peluche –li trova esilaranti, i lama, con la bocca sghemba e i loro sputi inaspettati che coglievano di sorpresa-, quei gadget con le Diet Coke-la sua bevanda preferita, ne beveva almeno quattro al giorno- o tutta la chincagliera a forma di fulmini –Struck by Lighting, il suo secondo libro, il suo primo film- in qualsiasi declinazione: portachiavi, spille, suppellettili.
E d’improvviso, per quale strana, inspiegabile motivazione, la sua mente catturò uno ad uno quel branco di pensieri scacciati in precedenza: la fama-i fotografi-il suo odiato sorriso-la persona che lo amava.
Ecco che ci caschi di nuovo, disse una vocina interna, sprofondi in un labirinto a cui credi finalmente di scampato dopo aver percorso tante strade cieche e invece alla fine del sentiero c’è solo l’abisso.
Sebbene non volesse pensare a quella persona, non era in grado di non farlo per lungo tempo.
Non voleva pensarci, perché ogni volta che lo faceva, ritornava ad essere umano, con sentimenti reali, vividi, pulsanti, ritornava ad essere una persona che si strugge per un’altra.
E per quanto non ci pensasse a volte per pochissimi secondi, in cui riteneva di aver vinto sulla sua mente, invece quelle congetture astute, uscite da essa, si annidiavano sotto pelle per continuare a tormentarlo in maniera più subdola, manifestandosi inconsciamente in altri comportamenti: non poter fingere, non poter sorridere, non poter essere felice.
Perché mai non poteva essere felice? Non aveva tutto del resto?

Era abbastanza ricco, abbastanza famoso, stimato, in carriera, con una nuova relazione fresca, su cui buttarsi: Will –abbozzò una smorfia sorridente, quando l’identità di quel nome prese forma nel suo cervello, mentre la coperta sembrava non coprirlo più- il ragazzo biondo, che lavorava come coordinare di post produzione a Hollywood; il ragazzo che qualche volta era riuscito pure a farlo ridere col suo umorismo un po’ gretto; il ragazzo che lo distraeva per brevi e insulsi istanti dai suoi tormenti.
Eppure quel ridere, quel distrarsi non era un qualcosa di attecchito, un qualcosa di depositatosi e ancorato nel fondale della sua coscienza, ma era qualcosa di grattato nella superficie, che pian piano evaporava, non facendo rimanere nient’altro che quelle amare congetture che assumevano la forma di una bruciante e perenne insoddisfazione. 

Non era felice, lo sapeva bene, sapeva cosa significasse esserlo, gli mancava qualcosa, quella persona gli mancava, la persona che amava, che voleva aver accanto, ma che non poteva per qualche spregevole e beffarda punizione divina.
Non si può aver tutto Chris, si ripeteva, mentre attorcigliava un dito tra la punta della coperta. Eppure avrebbe dato indietro la fama, i soldi, la stima e persino la carriera per lui.
Era stato debole con lui, gli aveva permesso di squarciare la sua corazza che indossava, la corazza del ragazzo forte, inscalfibile.

Gli aveva permesso di baciarlo sopra quel palco –d’altronde stavano recitando là, no?- E lui aveva osato persino contaminare quella recitazione con la realtà.
Gli aveva permesso di toccare ogni angolo del suo corpo –dopo quel bacio, nei camerini-, di possederlo avidamente, di percepire i suoi fremiti al contatto col suo corpo– asciutto, tonico, dalla pelle olivastra, dai muscoli definiti.
E magari fosse stato solo una questione di sesso, di corpo, magari a quest’ora non si ritroverebbe in questo stato, non si ritroverebbe ad amarlo.
Ma come poteva resistere a quegli occhi, vicini alla pupilla d'un intenso color oro, e che poi si schiarivano da un grado di colore all’altro, senza intoppi, diventando un verde intenso, dalle mille sfumature?
Come poteva resistere a quella sua allegria, esuberanza che ogni giorno, ogni dannato giorno, sprizzava, come quando a un bambino viene donato qualcosa che desiderava con tutte le forze, un trenino, un peluche, forse una macchinetta telecomandata, che lui doveva custodire gelosamente. La semplice felicità di un bambino con il suo giocattolo nuovo, questo gli ricordava.
Lo vedeva saltellare di piede in piede sul set sempre gioioso, sempre radioso -cosa che quasi gli invidiava, invidiava quel suo essere tremendamente perfetto-, irradiava qualcosa di speciale, qualcosa d’innocente e fanciullesco, a tratti ingenuo. 

Come poteva non innamorarsi di lui?
Era impossibile, si consolava in tal modo, pronunciando questa frase come una litania.
Era impossibile non lasciargli aprire le porte del cuore, lasciarlo entrare dentro, frugarci per capirne i segreti, i timori, i desideri e fargli addirittura regolare i battiti.
Tutto era impossibile, come le possibilità che il loro rapporto fosse stabile ed ora era proprio in quei periodo neri, da dimenticare, quei periodi in cui sembrava assottigliarsi quasi scomparendo.
Si amavano, si amavano intensamente con ogni fibra della loro mente, del loro corpo, eppure c’era qualcosa, un imprevisto malevolo che ogni dì minacciava di intaccarli.
E qualora la superassero indenni –fuori-, c’era subito un’altra minaccia che, piombata in libertà, voleva distruggerli; una dietro l’altra, concatenate, l’una sempre più difficile da abbattere della precedente.
Questo minava la loro stabilità, li teneva sul chi va là, è proprio come i marinai, che intontiti da un’auspicata tempesta all’orizzonte, perdono di vista dapprima la rotta e poi il finale punto d’approdo, così loro stavano perdendo similmente la meta, la bussola del loro rapporto.
 
E ora era lì rannicchiato su se stesso a rimuginare sul passato, con la coperta, –ora arrivata alle ginocchia- la luce della luna più flebile, il buio meno rotto e gli oggetti attorno roteare vorticosamente.
Pure il mal di testa era sopraggiunto, ma lui rimase apatico, con le tempie pulsanti e doloranti: non c’era più nulla che lo potesse ferire quanto ciò che provava per quella persona, che potesse stroncare quel sacro rituale di supposizioni ideali. 

Quella sensazione che un tempo lo portava in estasi –come percepire il suo petto gonfiarsi a ritmo dei suoi respiri, le loro dita intrecciarsi, dormire con la testa appoggiata al suo sterno, sentirlo pulsare dentro di sè-, adesso lo faceva isolare in quell’angolo buio, pieno di rancore, dolore, gelosia; quella sensazione un tempo lo faceva sentire umano in vita, ora lo faceva sentire nell’altra eccezione dell’umano fragile, sbreccato irrimediabilmente.
Sentirsi così alla mercè di tutti; che pena che si faceva, quanta riprovevole commiserazione. Probabilmente è questo ciò che si paga per amore: spogliarsi di tutto per rimanere nudi, inermi, indifesi davanti a tutti, davanti a tutto; un graffio degenera in una ferita da rinsaldare con i punti, una parola ambigua sembra un esecrabile insulto, la sua inconscia disattenzione si trasforma in una fatale mancanza, la costrizione di un sorriso risuona come un involontario, ma sadico tentativo di metter il dito nella piaga della tua infelicità.
 
Era un’ora imprecisata della notte, quando la luce della luna alta in cielo cessa di splendere con intensità e sempre nel cielo comincia a sbiadirsi, le tenebre dopo lunghi scontri sottomettono incontrastate ogni entità al loro infausto regno, le stelle si dissolvono inghiottite da un immenso manto nero, il vento smette di strattonare le foglie sugli alberi; tutto era immobile, silenzioso, pressoché esanime.
 
A Chris non interessava conoscere con precisione l’ora; si sarebbe alzato a un certo punto appena la luce dell’alba, divenuta insopportabile, l’avrebbe ridestato dai suoi pensieri, salvato da se stesso, ricordandogli che sarebbe dovuto andare a lavoro, avrebbe dovuto interpretare il suo personaggio, recitare le sue battute e forse andare nello studio di registrazione per incidere la sua voce in qualche canzone dove avrebbe fatto da coro in sottofondo.
 
E inaspettatamente qualcosa si mosse; qualcosa osò rompere l’inerzia dell’oscurità.
Era il telefono che lampeggiava, vibrando leggermente. 
Poteva essere la batteria scarica? 
No, era certo di averlo messo in ricarica appena tornato a casa, difatti a confermare questa sua intuizione era in grado di vedere -a tratti, tramite la fioca luminosità- il cavo ancora attaccato al cellulare, che compiva efficiente il suo dovere.
Ah, la sveglia, sarà sicuramente la sveglia –si rammentò- ma la sveglia suona, non lampeggia, vibrando. 

E adesso aveva smesso di lampeggiare e vibrare, gradualmente la luce dello schermo si stava assopendo per poi esaurirsi del tutto. 
Fu come costretto ad alzarsi, non avrebbe voluto; sarebbe voluto invece rimanere là con la sua coperta, il suo cuscinetto, le braccia sul ventre e le gambe incrociate.
Ma suo malgrado, la curiosità giocò scatto matto persino al giochetto autodistruttivo dei suoi pensieri, qualcosa riuscì a fermarli, prima che avessero finito il loro lavoro.
Appoggiò le gambe sul parquet -che lo tenevano in piedi a stento- tremolanti, asteniche; la coperta cadde producendo un rumore impercettibile e ovattato.
Si sentiva colpevole ad aver interrotto il pellegrinare della sua psiche, che andava indietro al passato per poi tornare sui suoi passi, trattenendo a sé ciò che riteneva fosse utile; giri continui, circolari, statici, che portavano sempre allo stesso punto, un punto che s’insinuava a centro di essa, martellandolo fino al midollo.
Procedette passo dopo passo, ieratico.
Arrivato a destinazione, si sentì quasi ribollire: chi poteva essere a quell’ora imprecisata -ma sicuramente tarda, troppo tarda- della notte?
Si accese dentro in lui in un posto, che non poteva vedere, percepire, una lucina, una speranza, un’illusione.
Ma lui non poteva permettere a quella luce di espandersi, a quella speranza di fortificarsi, a quell’illusione di costruire enormi castelli, cittadelle, che una volta venuti a contatto con realtà, venuti a sapere l’identità del mittente, sarebbero crollati e avrebbero lasciato solo macerie pesanti e taglienti, che lui -solo lui- avrebbe dovuto raccogliere.
Prese violentemente quel maledetto cellulare -staccandolo dall’alimentare- quasi con rabbia tra le dita, che premevano sul display, a dispetto del fatto che le gambe continuassero a tremare. 
E finalmente il suo pollice si decise a premere il tasto centrale del suo Iphone per leggere il mittente, il contenuto di quel sms, l’anteprima.
 
« Darren
So che non stai bene, l’ho notato…»
 
Quella lucina, quella speranza, quell’illusione erano divampate dentro di lui, festose, gaie danzavano tenendosi per mano, essendo conscie di non essere inconsistenti e vane, ma concrete e reali, di essersi evolute in realtà.
Gli occhi s’inumidirono; ogni muscolo del suo corpo era scosso da impetuosi brividi–le gambe l’avevano contagiato interamente-; il respiro si fece veloce, spedito, ingestibile; il cuore -fermato per un istante, quello in cui aveva letto il messaggio- adesso aveva ricominciato a battere troppo forte per distinguere una palpitazione dall’altra; la mente si era annullata.
E proprio quest’ultima dopo l’interruzione, dopo il nulla, riprese il suo normale corso e comprese il significato di quelle parole impresse nere su quella porzione bianca di schermo che le incorniciava. Era riuscito a non far riaffiorare quell’immagine, a cavarsela brutalmente della testa, a non richiamarla alla memoria-forse solamente perché, interrotte prima del finale, le sue riflessioni la preservavano per ultima come degna conclusione, come un ripido crescendo, e quella scena era il picchio massimo che lui avrebbe potuto sopportare.
Si era accorto che Darren l’aveva fissato tutta la sera in incognito.
E poi la scena, quella scena, l’apice di quello stalking visivo, l’apice del loro amore: durante lo scatto di una foto di gruppo Darren, erettosi sulle punte, si era voltato verso di lui con lo sguardo, sicuro di non essere scoperto né da altri, né dal suo amato, poiché tutti erano intenti a posare impalati come statue, oggetti, senza battere ciglio.
E proprio come una madre, dopo aver lasciato il figlio libero di giocare al parco, di divertirsi senza la sua ingerenza, lo controlla da lontano con la coda dell’occhio affinché non cada dalla giostra, affinché non si faccia del male, difendendolo dai mille pericoli dei mondo, preservando la cosa più preziosa che possiede, così Darren, dopo aver posato il suo spettro visivo su Chris, si assicurò che stesse bene, che stesse almeno tentando un sorriso, cercava di ripararlo dai quel flash invadenti con il suo tenero sguardo.

Avrebbe voluto andare là ad abbracciarlo, incurante della gente, per lenire le sue pene, per proteggerlo dalla fama, dai fotografi, dal mondo, da se stesso.
Ma Chris si era accorto di quell’incombente presenza visiva e nonostante le tre persone che li dividessero tramite quello sguardo riusciva a sentirlo vicino –fisicamente e spiritualmente-, riusciva a sentirlo accanto a sé quasi come se lui fosse una sua appendice.  

« Non importa cosa succederà, non importa dove saremo, se saremo a chilometri distanza, non importa neanche se non staremo insieme, continueremo a sentirci vicini, a percepire questa profonda e inscindibile connessione. » Così gli aveva sussurrato dopo l’ennesima volta che avevano fatto l’amore. L’aveva letto in un biscotto della fortuna la sera prima al cinese -una teoria antica- e gli sembrò un segno da cielo, una manna divina, che calzasse a pennello con la relazione –inclassificabile in un’unica e sola etichetta- che aveva con Chris.
Effettivamente aveva ragione: proprio nei momenti più impensati, quelli in cui non erano vicini-materialmente ed emotivamente-, lui percepiva quel legame sempre presente –magari a volta assopito o invece altre volte asfissiante-, ricordo che era collegato misteriosamente ad un’altra persona nel bene e nel male e né lui, né nessun altro poteva reciderlo.
Per questo aveva accennato un ghigno allegro nello scatto di gruppo, perché la persona che lo amava lo stava guardando, perché gli era accanto in modo che non comprendeva, ma avvertiva.
 
Ecco che quelle supposizioni si stanno facendo potenti, che stanno raggiungendo infine il loro gran compimento.

Non riusciva a vedere niente, le lacrime gli avevano appannato la visuale: le lettere del messaggio erano un ammasso informe, il telefono stesso era un ammasso informe.
Si asciugò le lacrime –quelle della commozione- quelle che non scendono incontenibili sulle guance a flotte, ma che si collocano sull’orlo dell’occhio e traboccano, in seguito, piano piano, una alla volta. Sbatté le palpebre e notò con sorpresa che quel messaggio non era finito.
 
« Sto arrivando. »
 
Secco, deciso, immediato.
C’era Darren in quella frase: la sua dirompenza, la sua impulsività, la sua semplicità.
Ma come poteva arrivare da lui?

Avrebbe svegliato di sicuro Joey –era sempre impacciato e rumoroso quando andava di fretta: sarebbe inciampato in una scarpa, mentre si vestiva, cadendo e facendo un fragoroso baccano- era così maldestro in ogni azione quotidiana, eppure quando era insieme a letto, quando lo sfiorava, quando lo possedeva era così delicato, cauto, attento a ogni sua voglia, a ogni suo desiderio, a ogni suo bisogno come se sapesse leggere attraverso suoi occhi.
Avrebbe dovuto guidare la macchina proprio in quell’ora-e che ora era?- così tarda e buia, era pericoloso; avrebbe dovuto posteggiarla in un posto sicuro -la sua macchina non poteva graffiarsi era nuovissima, di poche settimane-, e se avesse svegliato pure la vicina, quella vecchia acida zitella con venti gatti? O la famiglia di fronte?
Ma dopotutto gli importavano tutte queste sciocchezze?
No, affatto.
L’unica cosa di cui ora si curava, che ora era diventava di primaria importanza, ancora di più di sé stesso, del suo stato mentale, della sua sanità, dei suoi pensieri era Darren, che stava arrivando da lui.
Scosse la testa, si accarezzò la fronte con la mano libera; adesso le tempie non pulsavano più: il mal di testa era sparito.
Abbassò con dolcezza il telefono, il cui riflesso colpì lo specchietto -che avrebbe dovuto essere sulla toletta- facendolo sobbalzare.
L’avrà messo la signora delle pulizie qua, sbaglia sempre la disposizione degli oggetti, rimuginò. Lo prese allungandosi con busto e, già che c’era, controllò che le lacrime e l’insonnia non gli avessero reso il volto troppo inguardabile, anche se per Darren era sempre perfetto.
Si esaminò ben bene, osservando ogni piccolo poro del suo viso, il brufolo che ci stava crescendo vicino al confine col collo, la barba che sta spuntando ineluttabile e che non aveva voglia di radersi. E notò per ultimo, come se fosse superfluo, non necessario, scontato, che sorrideva, sorrideva per davvero.
 
Forse non è vero che non vengo bene quando sorrido, pensò, mentre udì infilarsi una chiave nella serratura della porta.
 
 
 
 
 
N/A
L’idea per questa OS mi è venuta sentendo la frase che ha detto Chris -che dà il titolo alla storia- all’evento “PaleyFest Icon Award to honor Ryan Murphy”, in cui hanno partecipato parecchi del cast tra cui Darren. (qui il video http://www.youtube.com/watch?v=uONyx7eJ7Ss )
La scena, che ho descritto tra i CrissColfer, non l’ho inventata di sana pianta è questa: http://sphotos-g.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc7/480867_516589891726101_2070758909_n.jpg
Ognuno ovviamente ci vede quello che vuole, io l’ho interpretata così, esattamente come la frase di Chris, mia pura e semplice fantasia da shipper * coff coff *
Mi farebbe un immenso e infinito piacere un vostro parere * Blaine’s puppy eyes *
 
Gaybye! <3
   
 
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