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Autore: WhiteLight Girl    10/03/2013    8 recensioni
In seguito ad un grande rilascio di energia Raven perde i sensi e si ritrova in una situazione un po' particolare. Intrappolata senza via di fuga solo una cosa riesce a salvarla.
Ispirata ad una scan del fumetto originale trovata su internet tempo fa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Beast Boy, Raven
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DENTRO LA MENTE


Nonostante la solitudine ed il suo continuo incedere, nonostante le decine di centinaia di passi compiuti, non sembrava affatto che il tempo fosse trascorso, dacché si era resa conto di stare camminando in quel luogo che non riconosceva, sola sotto un cielo privo di stelle che forse non era neanche un cielo.
Il vuoto la circondava silenzioso, sul fondo di quella singola lastra di roccia sospesa che pareva infinita. E ad ogni passo che facesse nulla sembrava cambiare nello spazio attorno a lei. L’orizzonte restava scuro e lo strapiombo era silenzioso. Non provava stanchezza, senza neanche sapere che avrebbe dovuto sentirla, dopo tutto quel camminare.
Non ricordava chi fosse, non ricordava neanche cosa fosse un nome o cosa ci facesse in quel posto, ovunque esso fosse. Non riusciva a pensare, perché non ricordava le parole e nulla di ciò che c’era stato prima.
Camminava come se esistesse solo per fare quello, forse alla ricerca di una via di fuga che non sapeva neanche di dover cercare. La sua coscienza era annebbiata, tanto da offuscarle i pensieri che andavano riordinandosi lentamente in testa.
Le sembrava di essere lì da una vita ed allo stesso tempo di essere appena arrivata. Lo spazio non aveva senso; nulla aveva senso, neppure il lieve gorgogliare che le arrivava alle orecchie. Ci volle un po’ di tempo perché riuscisse a ricordare cosa fossero le parole, altro tempo per riuscire a distinguerle le une dalle altre. Non riusciva a capire cosa la maggior parte di loro significassero, né ad individuarne la provenienza.
Le voci si accavallavano e le parole si confondevano, divenendo un borbottio indistinto che le feriva le orecchie. Portò le mani alla testa, ma non riuscì a calmare il rumore che si faceva sempre più forte, come interferenze provenienti da una radio rotta accostata ad un orecchio.
Non c’era nessuno in quel non posto che avrebbe potuto pronunciare né quelle né altre parole, perché lei non ricordava come si facesse a parlare.
Nella completa impossibilità di ricordare chi fosse l’unico suono che riusciva a superare quelle che ormai erano divenute grida era il battito d’ali di un uccello nero di cui non ricordava il nome, impresso nella mente come il ricordo di un indizio che le sfuggiva. Pensava per immagini, odori, sensazioni. Non riusciva a dare un nome a nulla di ciò che sentiva.
Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni, fino a sentire la gola in fiamme, ancora incapace di parlare.
Non sapeva cosa fossero le lacrime fino a quando non le sentì scorrere libere sulle guance pallide. Cadde in ginocchio, senza provare il dolore dell’urto, rendendosi conto di non sentire nulla che non fosse direttamente legato alla sua essenza. Sentiva la pressione delle mani premute contro il cranio, ma non la terra sotto i piedi ed i ciottoli sotto le ginocchia. Sentiva la morsa della disperazione bloccarle la gola, ma non il sollievo dell’aria riempirle i polmoni dopo un respiro profondo.
Era come esserci ed allo stesso tempo non esistere affatto. Era tutto ovattato, confuso. Concentrarsi sull’ambiente metteva in secondo piano i sensi, concentrarsi sulla sensazione della propria pelle sotto le dita finiva per causare una semicecità momentanea. Sembrava essere in un incubo offuscato.
Il battito d’ali continuò, lei si concentrò su quello. Fu l’immagine più vivida che riuscì a formare in mente; un maestoso uccello bruno che la fissava da lontano con i suoi penetranti occhi scuri, unica nota di luce nel buio di quella che ora era la sua mente. Cercò a tentoni il nome del volatile, non riuscendo neanche ad inquadrarne il verso.
Si lasciò cogliere dallo sconforto, ed assieme a quello percepì ogni altra emozione. Arrivarono tutte contemporaneamente, rimbalzando da una parte all’altra del cranio, trapassandole il cervello. Non ricordava i loro nomi ma le sentì tutte con la stessa dolorosa intensità. Si accavallarono rincorrendosi, si sopraffarono l’un l’altra e nel momento in cui riuscì a definirle iniziarono ad alternarsi con la rapidità di un battito di ciglia, impedendole anche solo di respirare. Perse la presa sui vari sensi e rimase da sola, intrappolata, priva di corpo ed incapace di ribellarsi o chiedere aiuto. Per quella che sembrava un’eternità non riuscì a sentire nient’altro che caos, poi provò a catalogare le sensazioni. Alcune spiccavano più di altre, sommergendola e soffocandola come se giocassero a rincorrersi e non lasciassero spazio a nient’altro. Si sentiva in trappola dentro se stessa e riconobbe la Paura nel comprendere che forse, sicuramente, era così. Nessuno poteva raggiungerla o salvarla, Disperazione scacciò tutto il resto attorcigliandosi attorno alla sua gola ed impedendole di respirare. Non c’era nulla che potesse aiutarla a resistere. Speranza, Saggezza, Dolcezza, Timidezza… Nulla era abbastanza forte da riportarla in superficie. Stava lentamente affogando in sé stessa. E l’uccello continuava a battere le sue ali coperte di lucide piume nere.
Non c’era niente a cui aggrapparsi in quel vortice confuso che era diventata la sua anima, nessuna emozione che fosse stabile abbastanza a lungo da permetterle di usarla come trampolino di lancio per fuggire via. Non c’era scampo dalle tenebre che ferocemente divoravano la sua mente.
Non c’era nulla che potesse fare, quindi accantonò i pensieri e provò a concentrarsi sui suoi polpastrelli. Cercò di muovere le mani ma non riuscì a trovarle, tentò di aprire le palpebre ma non riuscì a sentirle. Non aveva più un corpo, né piedi, né occhi. Non poteva che fluttuare da sola nel nulla.
Seppe che doveva trovare la speranza in quella poltiglia confusa che stavano diventando le sue emozioni, che le serviva qualcosa per non andare a fondo.
Si concentrò sull’unica cosa che si distingueva dal resto, cercò il nome di quell’uccello all’infinito, pensando solo ai suoi occhi, alle sue ali, alle sue piume. Lo seguì, o almeno immaginò di seguirlo sperando che alla fine l’avrebbe portata da qualche parte. Si protese in avanti con tutta la coscienza, quasi perdendo l’equilibrio e ritrovandosi con una mano tesa verso il corvo.
Ecco cos’era, pensò trattenendo il fiato nei polmoni appena ritrovati. Lui era un corvo, il suo animale, il suo spirito.
Raven era il suo nome, ma questo non rispondeva alle mille altre domande che ora era capace di porsi. Dove si trovava? Come era arrivata lì? Cosa le era successo?
Tutto ciò che riusciva a ricordare erano sangue, dolore, rabbia.
E fu proprio Rabbia a prendere il sopravvento, adesso. Il corvo mutò, gracchiò forte, ma dal suo becco non uscì che un grido di furia. Raven coprì il volto con le mani, per proteggersi quando lui le si lanciò addosso, aggredendola. Si gettò a terra per evitarlo, ma prima che la toccasse l’uccello esplose in un grumo di piume insanguinate e lei si trovò sommersa da pezzi di carne putrida.
Si rannicchiò su sé stessa, lasciando ancora che Disperazione riprendesse il sopravvento, ma questa venne subito sostituita da Rassegnazione, che la strinse forte nella sua morsa costringendola a rinunciare a combattere. Stremata, Raven, capì che non era in grado di fare nulla. Quella era la trappola più infida in cui un’anima avrebbe potuto cadere, preda di sé stessa a divorarsi da sola. Abbandonata da sola su un ammasso di vuoto incombente non poteva fare altro che starsene ferma ad aspettare la follia. Il tentare di non pensare a nulla le permise di sentire ancora le voci.
Grida di una battaglia, imprecazioni, ordini lanciati con impeto e minacce a vuoto. Ora riusciva a distinguerle, a capirle. Ora poteva comprendere e pensare a cosa avrebbe risposto se avesse potuto. Ma non c’era modo, per lei, di tornare indietro. Aveva smarrito la strada ed ormai non aveva scampo.
Azarath, Metrion, Zinthos.
Prese fiato. «Azarath, Metrion, Zinthos» disse.
Le urla continuavano, le imprecazioni erano sempre più pesanti, i tonfi più forti.
Azarath, Metrion, Zinthos.
Ma c’era una cosa che si distingueva dal resto, infondendole un assurdo inaspettato calore. Il suo mantra ripetuto all’infinito la riportò a galla, e non era lei a pronunciarlo. Una nuova emozione non sua la raggiunse, ricacciando indietro tutte le altre. Non c’era luce, non c’era tempo, ma quell’emozione era ciò che di più rassicurante potesse esserci in quel luogo, e probabilmente anche in mille altri, e sembrava poterla aiutare a resistere. Tanto intensa da spaventarla non le lasciava via di fuga, ma in un modo diverso e assai più dolce della trappola della sua mente.
Azarath, Metrion, Zinthos.
«Azarath, Metrion, Zinthos»
Azarath, Metrion, Zinthos.
Spalancò gli occhi spaurita, riconobbe le voci della battaglia, ricordò il colpo che l’aveva atterrata, lo sforzo dell’energia che aveva rilasciato, che l’aveva portata a scivolare nell’incoscienza.
Sentì una mano che le sfiorava la guancia e sollevò lo sguardo per cercare il suo proprietario.
BeastBoy, in ginocchio sull’asfalto, immobile accanto a lei, ripeteva il mantra imperterrito.
«Azarat, Metrion, Zinthos. Azarath, Metrion, Zinthos»
L’emozione che l’aveva riportata a galla era ancora lì, sospesa nell’aria tra i suoi occhi appannati e quelli umidi dell’eroe verde. Il volto del ragazzo s’illuminò un istante, nel vedere che era sveglia, la sua mente emanò un’ondata di sollievo e lui si guardò attorno, per assicurarsi che nulla rischiasse di colpirli adesso. «Va tutto bene, Rae. Gli altri gliele stanno dando di santa ragione»
Ma Raven non badava allo scontro; era ancora troppo concentrata ad interpretare ciò che aveva sentito provenire da lui, ciò che l’aveva salvata, incerta di cosa farne e di come potesse influire sul futuro. Due profondi occhi verdi di la scrutarono preoccupati, notando il suo silenzio. «Rae, è tutto ok?»
«Si, BeastBoy. Sono solo stanca, ho usato troppe energie in una sola volta» gli rispose lei flebilmente, sollevandosi e massaggiandosi la testa.
Rivelargli quanto vicina era stata a perdersi non aveva senso, adesso. Fargli sapere quanto fondamentale fosse stato il suo amore innocente era troppo spaventoso.
Decise di non dirgli ciò che la sua empatia aveva percepito, di non lasciar trapelare che sapeva, che aveva invaso l’intimità del suo animo. Gli lasciò la libertà di scegliere se confessare o no e si limitò ad alzarsi in piedi, barcollando.
BeastBoy fu subito dietro di lei, pronto a sorreggerla in caso di bisogno. Poco distante Cyborg, Starfire e Robin avevano neutralizzato il nemico e lo stavano consegnando alla polizia.
   
 
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