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Autore: noriko    28/09/2007    8 recensioni
Lo sentii trattenere il fiato, quasi stesse per urlarmi di muovermi ma sapesse quanto avessi bisogno di tutte quelle parole prima di arrivare al punto. Iniziai ad accarezzargli distrattamente i capelli morbidi, perdendomi nei miei pensieri. Ma la pazienza ha un ben noto limite. - Ehi. – mi richiamò, scocciato. –Mi vuoi dire cosa non andava? Sbuffai. - Cosa non andava? Tante, troppe cose. Avevo troppi problemi, mi sembrava che il mondo mi schiacciasse lentamente ma inesorabilmente. Il vero problema erano i miei genitori. Non fare quella faccia, ti avevo detto che era una storia vittimista. Song-fic GenzoxKarl
Genere: Romantico, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji, Karl Heinz Schneider
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Nobody’s Home

 

Questa fic è una yaoi, quindi se non vi piace il genere e avete qualche problema, affari vostri. Non leggete. A tutti gli altri auguro una buona lettura e confido in un qualsivoglia commento. Questa fic la scrissi un bel po’ di tempo fa, ma le sono molto affezionata.

I personaggi non sono miei, ma di Yoichi Takahashi, che ne detiene tutti i diritti. Questa fic non è a scopo di lucro, altrimenti sarei tranquillamente su un’isola delle Bahamas.

La canzone appartiene ad Avril Lavigne, ed è intitolata “Nobody’s home”. Se ne avete la possibilità, vi consiglio di ascoltarla, mentre leggete la fic ^_^

E ora buona lettura…

 

Non seppi mai perchè mi avesse rivolto quella domanda. Semplicemente, una sera, me la fece.

Ero sul letto matrimoniale e stavo leggendo una rivista di sport. Lui uscì dal bagno e con un salto si sedette vicino a me.

Prepotente come al solito, mi tolse la rivista di mano, gettandola da qualche parte sul pavimento.

Ignorò la mia occhiataccia e me lo chiese.

- Com’era la tua vita prima, Genzo?

Trasalii.

- Perchè me lo chiedi?- domandai a mia volta alzandomi per raccogliere la rivista.

… o meglio, per nascondere il mio volto dai suoi occhi inquisitori.

Ma, neanche a pensarlo, lui non si fece ingannare. Mi guardò quietamente mentre prendevo la rivista e l’appoggiavo sul comodino per poi risiedermi vicino a lui.

Sospirai.

- E’ una storia lunga, deprimente e vittimista. – rivelai. – Non voglio raccontartela.

Non credetti neanche per un attimo che lui lasciasse perdere così facilmente.

- Io voglio che tu lo faccia.

Lo guardai stancamente. Mi stava fissando, negli occhi una luce decisa seppur curiosa.

- Da dove comincio? – mi arresi, un lieve sorriso sulle labbra nel vedere la sua espressione vittoriosa mentre si appoggiava a me.

- Dall’inizio, no?

- E’ iniziato tutto quando ero ancora un bambino.

 

I couldn't tell you why she felt that way,
She felt it everyday.

 

Non so esattamente da quando mi sentissi in quel modo. Solo che mi sentivo male, male e male.

E soprattutto era sempre così.

Mi alzavo la mattina e sapevo come mi sarei sentito.

Mi coricavo la sera e ripensavo a come mi ero sentito.

Male.


And I couldn't help her,
I just watched her make the same mistakes again.


Alla fine per non soffrire, mi isolai in me stesso.

Era come se mi vedessi da un corpo esterno.

E non potessi fare nulla per fermarmi.

Era comodo, così.

Vedevo tutti gli errori che facevo.

Ma almeno non stavo così male.

Andava bene così, mi dicevo.-

 

What's wrong, what's wrong now?
Too many, too many problems.

 

Lo sentii trattenere il fiato, quasi stesse per urlarmi di muovermi ma sapesse quanto avessi bisogno di tutte quelle parole prima di arrivare al punto. Iniziai ad accarezzargli distrattamente i capelli morbidi, perdendomi nei miei pensieri.

Ma la pazienza ha un ben noto limite

- Ehi. – mi richiamò, scocciato. –Mi vuoi dire cosa  non andava?

Sbuffai.

- Cosa non andava? Tante, troppe cose. Avevo troppi problemi, mi sembrava che il mondo mi schiacciasse lentamente ma inesorabilmente.

Il vero problema erano i miei genitori. Non fare quella faccia, ti avevo detto che era una storia vittimista.

 

Don't know where she belongs, where she belongs.
She wants to go home, but nobody's home.

 

Mio padre era un uomo d’affari davvero brillante, aveva un sacco di contatti e commerci.

Per questo lo vedevo pochissimo.

Mia madre invece era una bellissima donna che veniva dall’aristocrazia giapponese, aveva un sacco di amiche ed eventi mondani a cui partecipare.

Per questo la vedevo pochissimo.

Non che mi mancasse nulla, anzi.

Ero circondato da un sacco di cianfrusaglie.

Bastava un mio capriccio e subito ottenevo quello che volevo.

Non ero mai solo, per quello. I miei mi avevano messo alle calcagna un mucchio di camerieri ed insegnanti. Mi fecero anche partecipare a qualche festa dell’alta società, per farmi socializzare con qualche rampollo della mia età.

Ma… ehi! – mi interruppi, per guardarlo male mentre ridacchiava. – Potresti evitare?

- Scusa… - mi rispose, per nulla convincente. – Vai avanti, su.

- Ma, come puoi facilmente intuire… non funzionò. Ci provai, ma erano troppo diversi da me.

Eppure io volevo un posto a cui appartenere. Una… una casa.

E alla fine c’ero anche arrivato.

Però era la casa di Nessuno.

Era la casa di nessuno e dentro non c’era Nessuno.

Tranne me, ovviamente.


It's where she lies, broken inside.
With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.

 

E così mi ritiravo sempre di più in me stesso.

Era l’unico posto dove mi sentissi veramente accettato e dove accettavo tutto. Mi piaceva stare lì. Era come se all’infuori di me stesso, tutto, tutto, ma proprio tutto, mi nauseasse e mi infastidisse indicibilmente.

Eppure talvolta mi assaliva un forte senso di malinconia e mi bruciavano gli occhi….ma non sapevo dove andare per consolarmi, per smetterla di piangere pensando ai miei e alla mia tristezza… dove parlare, dove rifugiarmi. Dove ci fosse qualcuno che mi asciugasse le lacrime e mi abbracciasse. Così mi rintanavo ancora di più dentro di me. – Feci un pausa lasciando vagare il mio sguardo al soffitto, sentendomi male. Fu come se tutta la tristezza che avevo provato in quel periodo si fosse riversata nuovamente su di me, attanagliandomi la gola. Eppure scomparve tutto quando percepii una breve ma forte e calda stretta, la sua mano che afferrava la mia. Era un gesto piccolo, ma bastò, bastò davvero. Mi feci coraggio, cercando di continuare. – Piano ma inesorabilmente mi ruppi. Mi lacerai, stavo male. Mi sentivo davvero rotto dentro. Rotto, inutile e da buttare. Era orribile.

Open your eyes and look outside, find a reasons why.
You've been rejected, and now you can't find what you left behind.

 

Poi mi riscossi. Decisi che era inutile stare lì a piangersi addosso.  Che era ora di reagire. Dovevo capire cosa c’era che non andava in me, perché mamma e papà non mi volevano. Scoprire i lati di me che li disgustavano e correggerli. Oppure abbandonarli completamente. E poi, soprattutto, dovevo render i miei genitori fieri di me. Era il mio chiodo fisso, era la mia ragione di vita.  Pensavo solo a quello, oramai.

Mi impegnai negli studi.

Divenni il migliore dell’istituto Shutetsu, che frequentavo.

Mi impegnai negli sport.

Vinsi nelle gare di atletica e di giochi individuali.

Mi impegnai nel galateo.

Diventai un perfetto gentiluomo.


Be strong, be strong now.

Too many, too many problems.
Don't know where she belongs, where she belongs.

 

Era difficile, ma dovevo farcela, capisci?

Era ancora un mocciosetto, ma mi sentivo un adulto, ormai.

Poi al mio compleanno mia madre e mio padre vennero da me insieme ad uno strano signore che non avevo mai visto. Mi si avvicinò sorridendo e… - mi interruppi ridacchiando mentre ci ripensavo. – Oddio, ti sembrerà una cosa stupidissima, ma… mi scompiglio i capelli. Con affetto. Mi piacque, quel gesto. Nessuno lo aveva mai fatto. Pensai fosse il contatto più bello del mondo.

- Non è stupido. – disse, quasi con disappunto. Gli sorrisi: ero felice che avesse capito quanto quel contatto fosse stato importante per me.

- Comunque, quell’uomo mi chiese se mi sarebbe andato di giocare a calcio. Io risposi di sì: il calcio mi piaceva, anche se non impazzivo per i giochi di squadra. E soprattutto ero molto bravo come portiere. Scoprii che quell’uomo sarebbe diventato il mio allenatore personale e che si chiamava Mikami. Mi affidai completamente a lui, sicuro che mi avrebbe aiutato a trovare il mio posto.

Tutti i pomeriggi, dopo la scuola, il mister mi allenava per diventare un grande portiere.

Divenni giocatore titolare e poi capitano della Shutetsu. Ero rispettato, osannato.

Sentivo di avere davvero un posto, uno tutto mio.

Capii che non avrei mai potuto giocare in attacco, al centrocampo in qualsiasi altro ruolo che non fosse il portiere.

Mi piaceva quella posizione e piano piano capii perché, capii ciò che mi aveva attratto fin da subito in quel ruolo: il portiere era solo, alla fine. Era forte, non aveva bisogno di cross, di passaggi. Era la fine del campo, era da solo e poteva contare solo sulle proprie forze.

E poi tutti si fidavano di lui.

Tutti si fidavano di me, ero l’ultima occasione di fermare l’attacco degli avversari… ero felice, soddisfatto.

Però compresi che alla fine ero sempre solo comunque. Ero in quella squadra, ma non ci appartenevo, dopotutto.

Mi ritornarono i dubbi.

Ritornai a chiedermi a cosa appartenessi.

She wants to go home, but nobody's home.
It's where she lies, broken inside.
With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.

Riprecipitai nel baratro. Di nuovo.

Solo che non lo facevo vedere a Nessuno.

A nessuno, a nessuno.

Continuavo ad allenarmi col Mister, a studiare, a giocare nelle partite della Shutetsu.

A fare finta di nulla, insomma.

Perché alla fine…-

- …non sapevi dove andare? – mi interruppe, appoggiando stranamente docile la testa alla mia spalla. Strusciò la guancia contro la stoffa nera della maglietta; mi incantai a vedere la sua pelle bianca così vicina al tessuto nero. Era un contrasto piacevole.

Sorrisi, annuendo. – Esatto. Esattamente come qualche tempo prima non avevo alcun luogo dove andare, nessuno che mi rallegrasse. Nessun posto poteva asciugare i miei occhi.

Non sapevo dove andare, cosa fare. Continuai nella mia esistenza monotona.

Ogni giorno, tutti giorni.

Passavano le ore, passavano i giorni, passavano le settimane, passavano i mesi… passavano gli anni.

Mi ritrovavo a stupirmi guardando il calendario, perdevo davvero la cognizione del tempo.

Ritornai a rompermi.

Dentro di me ero davvero spezzato.

Sentivo il me stesso che ognuno vedeva.

Sentivo il me stesso che nessuno conosceva.

E in mezzo un vuoto nero e profondo.

Un vuoto nel quale sarei caduto senza possibilità.


Her feelings she hides.
Her dreams she can't find.

 

Nonostante ciò, tuttavia, continuavo a nascondere i miei sentimenti, i miei dolori. Nessuno doveva, nessuno poteva vederli.

Cercavo un sogno, una ragione per vivere.

Cercai, cercai, cercai.

Non la trovai.


She's losing her mind.
She's fallen behind.

 

Piano piano impazzii. Non me ne accorsi neanche.

Semplicemente avvertivo quel vuoto avvolgermi.

Cadevo, cadevo.

Precipitavo.

Ma non era spiacevole, anzi. Abbandonavo quel mondo di dolore per rintanarmi in un confortevole torpore. Si ripeté la situazione di tempo prima. Ripresi a guardare la mia vita dall’esterno del mio corpo, indifferente.

Fate di me quel che volete, pensavo.


She can't find her place.
She's losing her faith.

 

Continuai a seguire gli insegnamenti del Mister, ma, nonostante provassi per lui, avevo perso qualsiasi speranza. Non avrei mai trovato un posto. – Scossi la testa, avevo mal di gola a furia di parlare, le lacrime agli occhi a furia di ricordare, e qualcosa che mi attanagliava lo stomaco a furia della nausea che mi prendeva sentendo un racconto carico di tanto vittimismo e autocommiserazione. Ma oramai ero quasi alla fine della storia. Avvertivo il suo sguardo criptico che fissava il mio volto dal basso, mentre giocherellava con un filo della mia maglietta. Sospirai, cercando di riprendermi per continuare. – Diciamo che me ne feci una ragione. Era inutile continuare a cullare la speranza che qualcosa sarebbe cambiato. Non avevo più alcuna fede nelle persone in generale, in me stesso in particolare.


She's fallen from grace.
She's all over the place.

Però alla fine non resistetti più. Impazzii, credo.

Urlai di tutto ai miei genitori, al mister Mikami, ai miei compagni di squadra.

Fu per questo che i miei acconsentirono a mandarmi in Germania per migliorare nel gioco. Non mi sopportavano a casa: le uniche volte che acconsentivo ad andare con loro a un qualche evento li facevo vergognare. Urlavo, picchiavo qualcuno.

Mi affidarono completamente al Mister, che ci pensasse lui. Se ne lavarono le mani, come si usa dire. Per loro, nonostante quanto dicessero, non esistevo più.

Io, d’altra parte, ero felice così.


She wants to go home, but nobody's home.
It's where she lies, broken inside.

With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.

Finalmente avevo un posto nuovo; potevo ricominciare, diventare il ragazzo che avevo sempre sognato di essere.  Però, nonostante fossi in un nuovo stato, in Germania, la situazione non cambiò. Diciamo che non stavo molto simpatico ai miei compagni di squadra.- dissi, con un sorrisetto, mentre la mia mano scompigliava i suoi capelli morbidi. Sbuffò. – Ripresi la mia vita di prima, alla fine. Non avevo dei veri amici, delle persone che mi asciugassero gli occhi quando piangevo. Di nuovo, mi stavo lacerando. Rompendo rigorosamente. Come sempre.


She's lost inside, lost inside...
She's lost inside, lost inside...

 

Ero perso. Perso davvero. Stavo male, e l’unica cosa che mi tirasse avanti era il calcio.

Mi smarrii nel vuoto che avevo dentro, che si era riaperto in una voragine senza fondo.

Perso, perso, perso.

Perso dentro. Dentro di me. Non mi trovavo più.

E sotto sotto avevo paura che non ci sarei più riuscito.

Era triste, solo, abbandonato.

Di nuovo nella Casa di Nessuno, senza Nessuno.

Tranne me, ovviamente.

 

 

Oh oh yeah.

 

- Però…- disse titubante, staccandosi da me e guardandomi con occhi forse impauriti, spaventati. Cercò il mio sguardo, serio. – Però, Genzo… adesso… nella Casa… adesso… nella Casa adesso c’è qualcuno, vero?-

Sorrisi, accarezzandogli i capelli lisci e morbidi, percorrendo i suoi lineamenti con gli occhi. Sentendo tutto l’amore che provavo per lui invadermi.

- Certo che sì. – risposi, chinandomi fino a sfiorare le sue labbra, percependo il suo sollievo quasi palpabile, ammirando il suo sorriso poco meno che impercettibile. – Ci sei tu, Karl.

 

  
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