Nobody’s Home
Questa fic è una yaoi, quindi se
non vi piace il genere e avete qualche problema, affari vostri. Non leggete. A
tutti gli altri auguro una buona lettura e confido in un qualsivoglia commento.
Questa fic la scrissi un bel po’ di tempo fa, ma le sono molto affezionata.
I personaggi non sono miei, ma di
Yoichi Takahashi, che ne detiene tutti i diritti. Questa fic non è a scopo di
lucro, altrimenti sarei tranquillamente su un’isola delle Bahamas.
La canzone appartiene ad Avril
Lavigne, ed è intitolata “Nobody’s home”. Se ne avete la possibilità, vi
consiglio di ascoltarla, mentre leggete la fic ^_^
E ora buona lettura…
Non seppi
mai perchè mi avesse rivolto quella domanda. Semplicemente, una sera, me la
fece.
Ero sul
letto matrimoniale e stavo leggendo una rivista di sport. Lui uscì dal bagno e
con un salto si sedette vicino a me.
Prepotente
come al solito, mi tolse la rivista di mano,
gettandola da qualche parte sul pavimento.
Ignorò la
mia occhiataccia e me lo chiese.
- Com’era
la tua vita prima, Genzo?
Trasalii.
- Perchè
me lo chiedi?- domandai a mia volta alzandomi per raccogliere la rivista.
… o
meglio, per nascondere il mio volto dai suoi occhi inquisitori.
Ma,
neanche a pensarlo, lui non si fece ingannare. Mi guardò quietamente
mentre prendevo la rivista e l’appoggiavo sul comodino per poi
risiedermi vicino a lui.
Sospirai.
- E’ una
storia lunga, deprimente e vittimista. – rivelai. – Non voglio raccontartela.
Non
credetti neanche per un attimo che lui lasciasse perdere così facilmente.
- Io
voglio che tu lo faccia.
Lo guardai
stancamente. Mi stava fissando, negli occhi una luce decisa seppur curiosa.
- Da dove
comincio? – mi arresi, un lieve sorriso sulle labbra nel vedere la sua
espressione vittoriosa mentre si appoggiava a me.
-
Dall’inizio, no?
- E’
iniziato tutto quando ero ancora un bambino.
I couldn't
tell you why she felt that way,
She felt it everyday.
Non so
esattamente da quando mi sentissi in quel modo. Solo
che mi sentivo male, male e male.
E
soprattutto era sempre così.
Mi alzavo
la mattina e sapevo come mi sarei sentito.
Mi
coricavo la sera e ripensavo a come mi ero sentito.
Male.
And I couldn't help her,
I just watched her make the same mistakes again.
Alla fine
per non soffrire, mi isolai in me stesso.
Era come
se mi vedessi da un corpo esterno.
E non potessi fare nulla per fermarmi.
Era
comodo, così.
Vedevo tutti
gli errori che facevo.
Ma almeno
non stavo così male.
Andava
bene così, mi dicevo.-
What's
wrong, what's wrong now?
Too many, too many problems.
Lo sentii
trattenere il fiato, quasi stesse per urlarmi di muovermi ma
sapesse quanto avessi bisogno di tutte quelle parole
prima di arrivare al punto. Iniziai ad accarezzargli distrattamente i capelli
morbidi, perdendomi nei miei pensieri.
Ma la
pazienza ha un ben noto limite
- Ehi. –
mi richiamò, scocciato. –Mi vuoi dire cosa non andava?
Sbuffai.
- Cosa non
andava? Tante, troppe cose. Avevo troppi problemi, mi sembrava che il mondo mi
schiacciasse lentamente ma inesorabilmente.
Il vero
problema erano i miei genitori. Non fare quella faccia, ti avevo detto che era
una storia vittimista.
Don't know
where she belongs, where she belongs.
She wants to go home, but nobody's home.
Mio padre
era un uomo d’affari davvero brillante, aveva un sacco di contatti e commerci.
Per questo
lo vedevo pochissimo.
Mia madre
invece era una bellissima donna che veniva dall’aristocrazia giapponese, aveva
un sacco di amiche ed eventi mondani a cui
partecipare.
Per questo
la vedevo pochissimo.
Non che mi
mancasse nulla, anzi.
Ero
circondato da un sacco di cianfrusaglie.
Bastava un
mio capriccio e subito ottenevo quello che volevo.
Non ero
mai solo, per quello. I miei mi avevano messo alle calcagna un mucchio di
camerieri ed insegnanti. Mi fecero anche partecipare a qualche festa dell’alta
società, per farmi socializzare con qualche rampollo della mia età.
Ma… ehi! –
mi interruppi, per guardarlo male mentre ridacchiava.
– Potresti evitare?
- Scusa… -
mi rispose, per nulla convincente. – Vai avanti, su.
- Ma, come
puoi facilmente intuire… non funzionò. Ci provai, ma
erano troppo diversi da me.
Eppure io
volevo un posto a cui appartenere. Una… una casa.
E alla
fine c’ero anche arrivato.
Però era
la casa di Nessuno.
Era la
casa di nessuno e dentro non c’era Nessuno.
Tranne me, ovviamente.
It's where she lies, broken inside.
With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.
E così mi
ritiravo sempre di più in me stesso.
Era
l’unico posto dove mi sentissi veramente accettato e
dove accettavo tutto. Mi piaceva stare lì. Era come se all’infuori di me
stesso, tutto, tutto, ma proprio tutto, mi nauseasse e mi infastidisse
indicibilmente.
Eppure
talvolta mi assaliva un forte senso di malinconia e mi bruciavano gli occhi….ma
non sapevo dove andare per consolarmi, per smetterla di piangere pensando ai
miei e alla mia tristezza… dove parlare, dove rifugiarmi. Dove ci fosse
qualcuno che mi asciugasse le lacrime e mi abbracciasse. Così mi rintanavo
ancora di più dentro di me. – Feci un pausa lasciando
vagare il mio sguardo al soffitto, sentendomi male. Fu come se tutta la
tristezza che avevo provato in quel periodo si fosse riversata nuovamente su di
me, attanagliandomi la gola. Eppure scomparve tutto quando
percepii una breve ma forte e calda stretta, la sua mano che afferrava la mia. Era
un gesto piccolo, ma bastò, bastò davvero. Mi feci coraggio, cercando di
continuare. – Piano ma inesorabilmente mi ruppi. Mi lacerai, stavo male. Mi
sentivo davvero rotto dentro. Rotto, inutile e da buttare. Era orribile.
Open your eyes and look outside, find a reasons why.
You've been rejected, and now you can't find what you left behind.
Poi mi
riscossi. Decisi che era inutile stare lì a piangersi addosso. Che era ora di reagire. Dovevo capire cosa
c’era che non andava in me, perché mamma e papà non mi volevano. Scoprire i
lati di me che li disgustavano e correggerli. Oppure abbandonarli
completamente. E poi, soprattutto, dovevo render i miei genitori fieri di me.
Era il mio chiodo fisso, era la mia ragione di vita. Pensavo solo a quello, oramai.
Mi
impegnai negli studi.
Divenni il
migliore dell’istituto Shutetsu, che frequentavo.
Mi
impegnai negli sport.
Vinsi
nelle gare di atletica e di giochi individuali.
Mi
impegnai nel galateo.
Diventai
un perfetto gentiluomo.
Be strong, be strong now.
Too
many, too many problems.
Don't know where she belongs, where she belongs.
Era difficile,
ma dovevo farcela, capisci?
Era ancora
un mocciosetto, ma mi sentivo un adulto, ormai.
Poi al mio
compleanno mia madre e mio padre vennero da me insieme ad
uno strano signore che non avevo mai visto. Mi si avvicinò sorridendo e… - mi
interruppi ridacchiando mentre ci ripensavo. – Oddio,
ti sembrerà una cosa stupidissima, ma… mi scompiglio i capelli. Con affetto. Mi
piacque, quel gesto. Nessuno lo aveva mai fatto. Pensai fosse il contatto più
bello del mondo.
- Non è
stupido. – disse, quasi con disappunto. Gli sorrisi: ero felice che avesse
capito quanto quel contatto fosse stato importante per me.
-
Comunque, quell’uomo mi chiese se mi sarebbe andato di giocare a calcio. Io
risposi di sì: il calcio mi piaceva, anche se non impazzivo per i giochi di squadra.
E soprattutto ero molto bravo come portiere. Scoprii che quell’uomo sarebbe
diventato il mio allenatore personale e che si chiamava Mikami. Mi affidai
completamente a lui, sicuro che mi avrebbe aiutato a trovare il mio posto.
Tutti i
pomeriggi, dopo la scuola, il mister mi allenava per diventare un grande
portiere.
Divenni
giocatore titolare e poi capitano della Shutetsu. Ero rispettato, osannato.
Sentivo di
avere davvero un posto, uno tutto mio.
Capii che
non avrei mai potuto giocare in attacco, al centrocampo in qualsiasi altro
ruolo che non fosse il portiere.
Mi piaceva
quella posizione e piano piano capii perché, capii
ciò che mi aveva attratto fin da subito in quel ruolo: il portiere era solo,
alla fine. Era forte, non aveva bisogno di cross, di passaggi. Era la fine del
campo, era da solo e poteva contare solo sulle proprie forze.
E poi
tutti si fidavano di lui.
Tutti si
fidavano di me, ero l’ultima occasione di fermare l’attacco degli avversari…
ero felice, soddisfatto.
Però
compresi che alla fine ero sempre solo comunque. Ero in quella squadra, ma non
ci appartenevo, dopotutto.
Mi
ritornarono i dubbi.
Ritornai a
chiedermi a cosa appartenessi.
She wants
to go home, but nobody's home.
It's where she lies, broken inside.
With no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.
Riprecipitai
nel baratro. Di nuovo.
Solo che
non lo facevo vedere a Nessuno.
A nessuno,
a nessuno.
Continuavo
ad allenarmi col Mister, a studiare, a giocare nelle partite della Shutetsu.
A fare
finta di nulla, insomma.
Perché
alla fine…-
- …non
sapevi dove andare? – mi interruppe, appoggiando stranamente docile la
testa alla mia spalla. Strusciò la guancia contro la stoffa nera della
maglietta; mi incantai a vedere la sua pelle bianca così vicina al tessuto
nero. Era un contrasto piacevole.
Sorrisi,
annuendo. – Esatto. Esattamente come qualche tempo prima
non avevo alcun luogo dove andare, nessuno che mi rallegrasse. Nessun posto
poteva asciugare i miei occhi.
Non sapevo
dove andare, cosa fare. Continuai nella mia esistenza monotona.
Ogni
giorno, tutti giorni.
Passavano
le ore, passavano i giorni, passavano le settimane, passavano i mesi… passavano
gli anni.
Mi
ritrovavo a stupirmi guardando il calendario, perdevo davvero la cognizione del
tempo.
Ritornai a
rompermi.
Dentro di
me ero davvero spezzato.
Sentivo il
me stesso che ognuno vedeva.
Sentivo il
me stesso che nessuno conosceva.
E in mezzo
un vuoto nero e profondo.
Un vuoto
nel quale sarei caduto senza possibilità.
Her feelings she hides.
Her dreams she can't find.
Nonostante
ciò, tuttavia, continuavo a nascondere i miei sentimenti, i miei dolori.
Nessuno doveva, nessuno poteva vederli.
Cercavo un
sogno, una ragione per vivere.
Cercai,
cercai, cercai.
Non la
trovai.
She's losing her mind.
She's fallen behind.
Piano piano impazzii. Non me ne accorsi neanche.
Semplicemente
avvertivo quel vuoto avvolgermi.
Cadevo,
cadevo.
Precipitavo.
Ma non era
spiacevole, anzi. Abbandonavo quel mondo di dolore per rintanarmi in un confortevole
torpore. Si ripeté la situazione di tempo prima. Ripresi a guardare la mia vita
dall’esterno del mio corpo, indifferente.
Fate di me
quel che volete, pensavo.
She can't find her place.
She's losing her faith.
Continuai
a seguire gli insegnamenti del Mister, ma, nonostante provassi per lui, avevo
perso qualsiasi speranza. Non avrei mai trovato un posto. – Scossi la testa,
avevo mal di gola a furia di parlare, le lacrime agli occhi a furia di
ricordare, e qualcosa che mi attanagliava lo stomaco a furia della nausea che
mi prendeva sentendo un racconto carico di tanto vittimismo e
autocommiserazione. Ma oramai ero quasi alla fine della storia. Avvertivo il
suo sguardo criptico che fissava il mio volto dal basso, mentre giocherellava
con un filo della mia maglietta. Sospirai, cercando di riprendermi per
continuare. – Diciamo che me ne feci una ragione. Era inutile continuare a
cullare la speranza che qualcosa sarebbe cambiato. Non avevo più alcuna fede
nelle persone in generale, in me stesso in particolare.
She's fallen from grace.
She's all over the place.
Però alla
fine non resistetti più. Impazzii, credo.
Urlai di
tutto ai miei genitori, al mister Mikami, ai miei compagni di squadra.
Fu per
questo che i miei acconsentirono a mandarmi in Germania per migliorare nel
gioco. Non mi sopportavano a casa: le uniche volte che acconsentivo ad andare
con loro a un qualche evento li facevo vergognare. Urlavo, picchiavo qualcuno.
Mi
affidarono completamente al Mister, che ci pensasse
lui. Se ne lavarono le mani, come si usa dire. Per
loro, nonostante quanto dicessero, non esistevo più.
Io,
d’altra parte, ero felice così.
She wants to go home, but nobody's home.
It's where she lies, broken inside.
With
no place to go, no place to go to dry her eyes.
Broken inside.
Finalmente
avevo un posto nuovo; potevo ricominciare, diventare il ragazzo che avevo
sempre sognato di essere. Però,
nonostante fossi in un nuovo stato, in Germania, la situazione non cambiò.
Diciamo che non stavo molto simpatico ai miei compagni di squadra.- dissi, con
un sorrisetto, mentre la mia mano scompigliava i suoi capelli morbidi. Sbuffò.
– Ripresi la mia vita di prima, alla fine. Non avevo dei veri amici, delle
persone che mi asciugassero gli occhi quando piangevo.
Di nuovo, mi stavo lacerando. Rompendo rigorosamente. Come sempre.
She's lost inside, lost inside...
She's lost
inside, lost inside...
Ero perso.
Perso davvero. Stavo male, e l’unica cosa che mi tirasse
avanti era il calcio.
Mi smarrii
nel vuoto che avevo dentro, che si era riaperto in una voragine senza fondo.
Perso,
perso, perso.
Perso
dentro. Dentro di me. Non mi trovavo più.
E sotto sotto avevo paura che non ci sarei più riuscito.
Era
triste, solo, abbandonato.
Di nuovo
nella Casa di Nessuno, senza Nessuno.
Tranne me,
ovviamente.
Oh oh yeah.
- Però…-
disse titubante, staccandosi da me e guardandomi con occhi forse impauriti,
spaventati. Cercò il mio sguardo, serio. – Però, Genzo… adesso… nella Casa…
adesso… nella Casa adesso c’è qualcuno, vero?-
Sorrisi, accarezzandogli
i capelli lisci e morbidi, percorrendo i suoi lineamenti con gli occhi.
Sentendo tutto l’amore che provavo per lui invadermi.
- Certo
che sì. – risposi, chinandomi fino a sfiorare le sue labbra, percependo il suo
sollievo quasi palpabile, ammirando il suo sorriso poco meno che
impercettibile. – Ci sei tu, Karl.