Le persone
riusciranno sempre a riconoscere la bellezza del cuore,
da
quella degli occhi.
Anche nelle epoche
più buie e feroci;
anche
quando la speranza muore ad ogni respiro affannato di vita.
Before your hands
Capitolo I – Unforgettable eyes
Il
mio corpo, martoriato dagli insulti, fremeva nel vecchio giaccone invernale.
Altre cattiverie, altre ingiurie ed altri giudizi.
Quel circolo vizioso di cattiveria gratuita non
avrebbe mai avuto fine.
Non
bastavano i miei occhi verdi, i capelli castano chiari e una carnagione
candida: sarei sempre rimasta quella grassa, brutta ed
insignificante.
Quella
da indicare tra una risatina e l’altra.
Quella
da giudicare per le forme abbondanti e appariscenti: quella da distruggere
pezzo per pezzo perché, solo guardandola, riusciva a
ricordare all’uomo la sua continua imperfezione.
Ero
un peso per tutti: per i miei
genitori, gli amici, i ragazzi, me stessa.
Ero
un peso per la società che mi ricordava di continuo quanto fossi fuori da ogni
canone di bellezza da lei stessa creato e pubblicizzato in tutte le forme
possibili ed immaginabili. Non avrei mai portato una 42; non avrei mai scaturito tenerezza dal mio 1,75 di
altezza e non avrei mai trovato un ragazzo che mi avrebbe accettata facilmente,
senza scaturirgli pietà o semplice tenerezza.
Ero Alice Amore : 25 anni, donna e grassa.
Guardai
i miei vecchi stivali e risentendo il vociare dietro di me, ricominciai a
correre come una forsennata.
Non
ce l’avrei fatta un’altra volta.
Tutti
sono convinti che, un giorno lontano - quando finalmente diventi grande - il
mondo possa risparmiarti il dolore e le insicurezze adolescenziali.
Che grande cazzata.
Io
stessa avevo pensato che, dopo tutto il dolore e il sentirmi perennemente
inadeguata, finito il liceo avrei potuto finalmente
essere considerata una persona e non un fenomeno da baraccone.
Ma
non fu così; la vita non è una dolce commedia romantica con il lieto fine scontato e stucchevole che noi ragazze amiamo
iniettarci per endovena durante gran parte della nostra giovinezza. La vita fa
male; i lieto fine tardano ad arrivare e il principe
azzurro ha smesso di cercarti da tempo per dedicarsi ad una partita
interminabile a Fifa 2013 con gli amici.
Il
male è soggettivo e molto spesso amiamo cercarlo e scovarlo di proposito, per dimostrare
al mondo che siamo più forti di quello che mostriamo agli altri.
Non
è così; le paure sono sempre le stesse che trascini stancamente con te da
quando hai tre anni. Non ci sarà più il mostro sotto il letto o l’uomo nero
nell’armadio, ma non diventerai mai grande abbastanza per
affrontare i tuoi demoni interiori da sola e a mani nude. Nessuno può
sconfiggere i propri pensieri intrisi di ansia e frustrazione, se non trova delle
mani pronte ad afferrarlo e a rimetterlo nel proprio cammino dettato dal destino,
ogni volta che barcolla verso l’argine sdrucciolevole della vita.
Quel
pomeriggio di marzo, uno dei miei tanti demoni interiori era simpaticamente
personificato da un gruppo di adolescenti annoiati dall’inverno e dai compiti
pomeridiani. E pensare che avevo semplicemente ordinato
una seconda crêpe
alla nutella da quel camioncino in piazza. Non avevo certamente considerato che
le risatine sommerse di quei ragazzi, con tanto di commenti più
o meno silenziosi, avrebbero avuto la forza necessaria per riportarmi
indietro nel tempo.
Ricordavo
ancora la voce di Riccardo Genovesi che, in un pomeriggio di aprile, aveva
iniziato a deridermi con il suo gruppetto di amici : Alice Amore. Ma dai,
l’unico amore per lei è il cibo e l’aumento continuo di massa grassa sui suoi fianconi da balena. Nessuno la vorrà mai. Potrebbe
soffocare il poveretto con quella ciccia. Ma dici che troverà qualcuno a cui gli si drizzerà, pensandola? Avrà ancora qualcosa di
femminile sotto tutto quel
grasso?
Sì,
Riccardo; avevo molto di più.
Dopo
il liceo ero dimagrita, avevo perso 30 chili, ma non
l’insicurezza e la malsana voglia di screditarmi continuamente. Avevo amato,
ero stata ricambiata; ma era come se qualcosa mi mancasse incessantemente.
Continuavo a girovagare per le strade della desolazione e del malessere
emotivo, perché non avrei mai superato il mio status di grassa, obesa, informe.
Correvo,
inciampavo e ritornavo a correre.
Seguii
i contorni del Lago, finché non lo raggiunsi e cominciai a correre sulla
passeggiata circostante. Vedevo piccioni che impauriti mi facevano
strada; passanti stranieri rapiti dalla bellezza del Lago, del tutto incuranti
di una furia che correva al loro fianco, e vecchiette imbacuccate in pellicce
costose che credevano di essere ancora belle e giovani e non semplicemente
ridicole ed odiose.
La
primavera era vicina – l’aria era diventata frizzante - ma io mi sentivo nel
centro esatto dell’inverno. Faceva dannatamente freddo.
Le
cicatrici bruciavano, le smagliature erano ancora i segni di una vita che non
sarebbe mai passata. Ed io ero una donna che correva in lacrime sul sentiero
pericolante della vita.
Tolsi
il giaccone, le scarpe e oltrepassai il nuovo recinto di metallo che non era
ancora stato completato, dopo anni di lavori e rinnovamenti del Lago.
Scossi
la testa e lasciai che l’aria uscisse dai miei polmoni in piccole nuvolette di
bianco candido.
Mi
sedetti sul ciglio della passerella di legno pericolante e decisamente
provvisoria, che non sarebbe dovuta essere lasciata così in vista. Poteva
esserci un bambino lì; ma in fondo c’ero solo io.
“Vorrei
avere il coraggio di farlo.” Mormorai a me stessa, mentre lasciai le mie calze
di lana al mio fianco, contro il bordo del maglioncino largo.
Lasciai
che la carne fredda dei miei piedi si congiungesse con l’acqua gelata e dolce
di quella pozza blu scura.
Vorrei poter congelare anche
il cuore definitivamente.
“Non
credo sia un buona idea.”
Mi
voltai di scatto, lasciando che le lacrime bagnassero il mio maglioncino grigio
slavato.
“Scusami,
ma non ho altro da fare che osservare la gente. Forza, esci
da lì.”
Lo
guardai confusamente, troppo spaventata dallo sfarfallio del mio cuore
impaurito ed allarmato.
“Non
sono affari tuoi; tanto non ho mai il coraggio di farlo davvero.”
Lo
sconosciuto scosse la testa e mi si avvicinò, togliendosi le scarpe.
Fisico
asciutto, longilineo, avvolto in un giaccone lungo e largo – probabilmente era
stato un bel capo di abbigliamento una volta; di un bel beige tenue – con tasche enormi e
piene. I capelli castani erano lunghi quasi fino alle spalle, la barba velata e
pungente mentre gli occhi magnetici riflettevano il blu scuro del lago
invernale.
“Bene,
allora non avrai nulla in contrario se sto qui a farti compagnia.”
Mi
asciugai le lacrime, che schizzarono via sul legno della passerella e contro il
nero lucido dei miei leggings stretti.
Quell’uomo
mi stava privando del mio unico e prezioso momento di urla silenziose contro
l’universo.
“In
realtà, preferirei rimanere sola.”
“No.”
Mi si affiancò e si distese con i piedi nudi accanto ai miei, nell’acqua
glaciale. “ Orma- accidenti se è fredda! E pensare che
credevo di aver affrontato di tutto dopo questo
inverno.” Scosse la testa e si voltò verso l’orizzonte, immergendo quel blu
acceso dei suoi occhi, nel verde della natura che delimitava le colline intorno
al Lago.
Era
tutto così surreale.
Che
diamine voleva questo tizio trasandato dalla mia vita?
Un
brivido di freddo mi avvolse, facendomi tornare in mente la solita sensazione
pungente e vibrante che partiva dalle mie dita e finiva nella mia gola secca.
Quanto vorrei lasciarmi andare
sul suo fondo e…
“Senti
non è che avresti da accendere? Visto
che come minimo domani avrò una polmonite, tanto vale che mi rilassi con
della nicotina.”
Lo
guardai malissimo, mentre i miei denti battevano con forza.
“N-no-non f-f-fum-o.”
“Ah.”
Si grattò il mento con fare pensieroso. “Per essere una che vuole farla finita,
direi che lo stai facendo nel modo sbagliato. Mai
provato con della droga pensate? Per lo meno verresti ricordata con una certa pena e un po’ di lieto
melodramma. Oh, aspetta! Nei tg ora vanno di moda i
drammi famigliari. Chiedi a qualche tua cugina di buttarti di sotto, almeno
farai fare un po’ di audience a qualche programma trash… Insomma, non essere
così egoista.”
Mi
fece l’occhiolino, trovando nel suo giaccone due sigarette e un fiammifero.
Si
portò una di esse sopra l’orecchio e l’altra tra le
labbra, senza interrompere il contatto visivo. Dopo aver usato la passerella
come superficie per far accendere l’accendino, si rilassò fra una boccata e
l’altra.
“Ora
si che ci siamo… Come ti chiami, scusa?”
Portai
le mie mani sulle ginocchia, stringendole per il dolore causato dal freddo.
Stava
penetrando lentamente.
“C-cav-cavol-i m-m-miei.”
Fece
spallucce, porgendomi la mano. “Io sono Michele, piacere.”
Guardai
quella mano a lungo; dita sottili ed eleganti che contrastavano con l’aspetto
sbarazzino e disordinato dettato dalla sua persona. Che tipo strano, pensai.
“Alice.”
Sorrise,
stringendo la mia mano. Nonostante avesse anche lui i
piedi nell’acqua, le sue mani erano calde e ruvide. Era così gentile con me,
mentre io non riuscivo a sciogliermi ed essere socievole e simpatica come al solito. Proprio no; ero nella mia giornata nera per
eccellenza e dovevo essere acida e
scontrosa con il globo intero.
Michele
però sorrideva di continuo, come se stessimo chiacchierando in un bar del
centro come vecchi amici.
Avevo
il sospetto che la mia indifferenza lo intenerisse.
“Che
nome carino. In inglese è ancora più bello, sai? Che fai
nella vita cara, Elis ?”
Il suo inglese era proprio
affascinante.
Valeva
davvero la pena perdersi in chiacchiere così futili? Lo guardai e lui ricambiò
il mio sguardo senza imbarazzo. Beh, sì; potevo lasciarmi andare con quel sconosciuto gentile. Tanto non avevo niente da perdere.
“Faccio
la guida in un museo. Te?”
“Mi
definisco un artista scapestrato, ma ormai va di moda usare il termine
‘clochard’. Sì, in effetti vivo qui, esattamente sulla
terza panchina qualche metro più in là. Vedi?”
Mi indicò con le mani un punto indefinito alla nostra sinistra, ma
non gli diedi molta retta, ancora shockata dalla sua rivelazione. “Clochard?”
“Oui, oui, Madame: vivo per strada. Paura? Ora possiamo togliere i
piedi dall’acqua e prendere ognuno la propria strada? Sì, teoricamente era una
battuta. Anche se forse avrei dovuto usare il termine ‘cartone’ o ‘ panchina’, sorry.”
Scossi la testa, completamente frastornata
dal suo accento affascinante, la voce roca e il continuo gesticolare come un
forsennato.
Tolsi
però i piedi dall’acqua incrociandoli sotto di me e lui mi seguì sollevato.
Cavolo,
non ero riuscita nemmeno quella volta a lasciarmi avvolgere dalla
gelide acque del Lago.
“Scusami,
teoricamente sono sempre sola quando decido di…”
Lui
mi posò una mano sulla spalla, scuotendo la testa. “Non ti preoccupare, in
realtà ti osservo sempre da lontano quando lo fai. Giuro, non volevo
impicciarmi nemmeno questa volta, ma era giusto che qualcuno ti
istruisse a dovere. La prossima volta potresti
provare con una corda, opp-“
Portai
una mano davanti al suo volto, senza sfiorarlo. “Ok, ho capito la tua tattica.
Non sei divertente e nemmeno simpatico. Attento, potresti trovare la tua terza
panchina bruciata, un giorno di questi.”
Michele
scoppiò a ridere, dandomi continuamente pacche sulle spalle, come se, la
distanza tra i corpi di due estranei, fosse una cosa inesistente nella sua
mente. “Sei uno spasso, Elis. Davvero! Perché stavi piangendo come una
bambina?”
Mi
voltai con il corpo verso di lui, che continuava a fumare, ridacchiare ed osservarmi come nulla fosse.
Quanto
valeva per lui la vita di una sconosciuta?
“Mi
hanno ucciso il cane.”
Si
mordicchiò il labbro superiore, aggrottando le sopracciglia. “Un cane
importante, non c’è che dire. Mai pensato di studiare recitazione? Fai schifo a
raccontare, how do I say… cazzate? Stronzate? Balle? Miss Elis, lei ha un problema e mettere i piedi nell’acqua
gelida non mi sembra una bella soluzione.”
Sorrisi,
per la sua foga che mi sembrava quasi dolce. Non era certamente una persona
facile da capire, anche se io non ero mai stata brava a decifrare le persone.
Per quello c’era Morgana, la mia migliore amica/coinquilina/spina nel fianco.
“Lo
so, non c’è bisogno che uno sconosciuto qualsiasi mi psicanalizzi per strada.”
“Allora
me lo offri un caffè da qualche parte? Almeno lo faccio comodo e al caldo.”
Spalancai
la bocca, esterrefatta. “Hey! Hai fatto tutto sta
pantomima per scroccarmi un caffè?”
Sicuramente
lo avevo offeso, ci giuravo. Invece lui mi si avvicino
quasi a sfiorar il mio naso con il suo e sorrise a denti stretti, sfottendomi.
“Ovvio che sì! Sono un povero barbone che mangia dalla stessa ciotola del suo
cane…”
“Hai
un cane?”
Si
alzò in piedi, infilandosi velocemente le calze. “Seguendo il cliché per
eccellenza, dovrei. Me lo regali magari per il mio compleanno?”
Continuava
a sorridere e a scuotere al testa, come se fossi una
persona completamente assurda.
Questa
poi! Era lui quello dalle personalità criptica e ambivalente.
“Sei
un tipo bizzarro.” Seguii i suoi movimenti e mi infilai
sia le calze che gli stivali.
Quando
lui mi porse la sua mano di nuovo, quasi mi venne da ridere forte e
rumorosamente.
“Di
certo non ero io quello che aveva i piedi a mollo nell’acqua gelida. Dai, adesso però andiamo a riscaldarci.”
Mi
rintanai nella mia grande sciarpa di lana bianca e cominciai a sbattere i piedi
contro il legno della passerella per rimettere in circolo il sangue. Ero
leggermente intorpidita, con il viso sporco di trucco colato e il naso rosso
stile Rudolf.
Però, a dirla tutta, Michele non mi stava nemmeno guardando.
Intento a fumare e a guardare le nuvole grigiastre, era perso nel suo personale
labirinto di pensieri.
Guardandolo
molto più da vicino e soprattutto in posizione stante, notai la sua altezza non
indifferente. Essendo una donna alta e certamente poco tenera e minuta, mi
sembrava strano trovare ancora ragazzi molto più alti di me. D’altronde, la materia prima scarseggiava un po’ come il denaro.
Alto,
pensieroso ed incline all’ironia: Michele sembrava uno
di quegli artisti bohémien di un’antica Parigi ormai perduta.
“So
di essere immensamente bello anche senza il mio frac, Miss, ma tendo ad imbarazzarmi se una bella ragazza mi fissa a lungo.”
Abbassò lo sguardo, strappandomi un sorriso e un rossore leggero sulle guance.
In
fondo, ero stata davvero un po’ maleducata – oppure molto stupida – a farmi
beccare clamorosamente. Scuotendo la testa iniziai a camminare, mentre Michele
si posizionò al mio fianco con naturalezza.
“Non
sono di certo una top model che ha l’innaturale
potere di abbagliare gli uomini solo con lo sguardo. Ma, parlando d’altro, che
fai veramente nella
vita? Non credo che bighellonare nei pressi della terza panchina, ti garantisca
tre pasti al giorno.”
Gli
lanciai uno sguardo di traverso, di pseudo sfida, che lui colse con finta
indifferenza. “Non sono l’uomo giusto. Quello pronto ad aiutarti con
complimenti congeniati per innalzare la tua latente autostima, Elis.
Diciamo che disegno, ma principalmente sopravvivo. Te? Tenti il suicidio tutti
i giorni per sport o è il tuo vero lavoro?”
Pungente.
Il suo modo di parlare e interagire con me aveva qualcosa di pungente, ma non
fastidioso. Sorrisi, tornando a guardare il semaforo rosso davanti a noi.
“Faccio
la guida a Brera. Che tipi di disegni fai?”
Scattò
il verde e proseguimmo il nostro cammino. Lasciai che lui mi guidasse e rimasi
sorpresa quando ci fermammo davanti al bar di fronte alla passeggiata. Piccolo, chic e con gli interni di legno il tutto arricchito da
bianche luci raffinate e sontuose tende avorio.
“Entriamo
e poi te ne parlo. Sto morendo di freddo e fame.”
Mi
fece un finto inchino e mi aprì la porta, facendomi sorridere.
“Hey, Mich!”
Il
mio accompagnatore si voltò verso la voce del cameriere e, dopo qualche scambio
in codice di sguardi, si abbracciarono calorosamente. “Ciao, Raf! Solito tavolo e posto per me e Miss Elis.”
Il
biondo mi guardo allibito, sorpreso ed infine
divertito, porgendomi poi la sua mano. “Raffaele, amico di bevute di Mich. Prego,
prendete pure posto che vi raggiungo.” Mentre ci liquidò, incominciai a
fantasticare sulla prestanza fisica del suddetto cameriere. Constatai,
con molto entusiasmo, che ero ben contenta di aver conosciuto Michele. Aveva
buon gusto a scegliersi amici. Molto buono, sottolineerei.
“E
non mangiartelo con gli occhi; solitamente opta per la
‘toccata e fuga’.”
Ci
sedemmo in un tavolino accanto al muro, lontano un po’ dalla calca e il vociare
tipico dei locali nelle ore pomeridiane.
Mi
tolsi il giaccone, sistemandomi meglio il maglione e strappando un’occhiata
fugace al mio accompagnatore. La mia occhiata fu forse meno fugace perché, sotto
quel giaccone, Michele era davvero carino.
Un
maglione largo e blu scuro, dei jeans rattoppati
malamente e delle vecchie scarpe da ginnastiche che avevano decisamente passato
anni migliori: non era certamente l’identikit dell’uomo dei miei sogni, però su
di lui tutti quegli aggettivi e connotati avevano il loro perché.
Forse
erano i suoi occhi blu elettrici o le grandi mani che giocavano con i suoi
capelli, ma era riuscito a distrarmi dai miei pensieri da quando si era rivolto
a me su quelle passerella malandata.
“Scommetto
che ti stai pentendo di essere entrata con me in un così bel posto.”
Smise
di giocherellare da solo per tornare a guardarmi negli occhi. Erano così
diretti e sinceri, che, sotto al suo sguardo, avrei
potuto sentirmi la peccatrice più infingarda e malevola della terra.
“Non
sminuire il mio gusto negli uomini.” Sorrisi, ricordando un vecchio dialogo con
la mia migliore amica.
Lui
colse quel mio cambiamento di umore e si sporse curioso verso di me. “Sotto
tutte quelle stupide lacrime, i tuoi sorrisi sono bellissimi. Mi ricordi una
vecchia amica, sai? Avevate proprio gli stessi occhi e le stesse labbra.”
Si
perse in quelle parole, seguendo con lo sguardo i volti delle persone sedute
intorno a noi.
C’era
passato e dolore in quella rivelazione, ma decisi di non badarci per
alleggerire l’atmosfera.
Qualunque
cosa fosse avevo imparato da tempo che, il passato
degli uomini, è forse l’arma a doppio taglio più precisa e letale che
possediamo.
“Prima
ho visto che hai abbracciato il cameriere… Ha detto che siete amici di bevute.
In che senso?”
Michele
appoggiò la testa sulla mano, ritornando di nuovo al presente. “Beh siamo amici
di drink, schiamazzi e litigi: amici; semplicemente
grandi amici. Praticamente è forse l’unica persona che
mi conosce davvero e da più tempo. Ogni sera vengo qui
a dare una mano per la chiusura: lavo, pulisco, butto l’immondizia... Insomma
faccio qualcosa e Maurizio, suo padre, mi da qualche spicciolo. Raf, invece -
quel bel ragazzone che hai fissato con la bava alla
bocca per tre minuti buoni - mi invita da lui ogni giorno per una doccia e,
quando fa più freddo, riesce anche a farmi dormire sul suo divano. Sì, direi
che siamo amici nel vero senso della parola.”
Piegai
la testa di lato, pronta per bombardarlo di domande, ma il sopracitato
Raf venne al nostro tavolo per le ordinazioni.
“Eccomi,
ragazzi. Mich, solito cappuccio?”
Il
ragazzo annuii, senza perdermi di vista. “Te, Elis?”
Mi posai un dito sulle labbra, sfogliando in
fretta il menù.
“Io…” Cavolo,
ma quanto era lungo quel diavolo di coso? “Una cioccolata alla nocciola con panna e
cacao.” E addio dieta. Era una
giornata nera; la cioccolata mia avrebbe salvata.
Raffaele mi sorrise, congedandosi con una spinta contro la testa dell’amico. “Ti vuole bene.” Aggiunsi
sorridendo dietro la manica lunga del mio maglione.
Mich fece
spallucce, ma non riuscì a dissimulare l’affetto che traspariva dai suoi occhi
ogni volta che l’amico si avvicinava a noi.
“Alice posso essere
sincero e leggermente brutale?”
Rimasi bloccata nella mia posizione, perché non
mi aspettavo quel cambio di setting. Il sorriso era
svanito e lo sguardo si era congelato per far spazio ad
una serietà che mi mise in soggezione.
“È inutile chiedermi il permesso. Sono più che
sicura che me lo dirai comunque.”
Sorrisi per cercare di sciogliermi, ma incrociai
le gambe sotto il tavolo in forma di difesa.
Non ero di certo pronta ad
essere giudicata da qualcuno che in fondo se la passava anche peggio di me.
“Qualunque fosse il motivo di quel gesto, non ne
vale la pena. Accettalo come consiglio da uno che non ti conosce e non può
giudicarti.”
Abbassai lo sguardo, scuotendo la testa.
“Proprio quando non si conosce qualcuno, si riesce a ferirlo in profondità. È
quando non conosci una persona che dai il peggio di te. La inondi di giudizi
solo per il gusto di farlo; per il brivido di uno scontro che non avverrà mai.
Di solito amiamo attaccare chi difficilmente risponderà alle nostre
provocazioni, sai?”
L’arrivo della nostra ordinazione riportò brevi
attimi di ironia che finirono con la dipartita di
Raffaele.
Consumammo così, nella più fredda solitudine, le
nostre ordinazioni. Non riuscimmo più a interagire con la stessa leggerezza
precedente e mi colpevolizzavo mentalmente per il mio solito poco tatto.
In fondo eravamo
semplici sconosciuti che si erano incontrati in un ordinario pomeriggio di fine
inverno. Che fosse stato il fato o qualcosa di premeditato, l’incontro con
Michele era riuscito a farmi desistere da un gesto che sapevo fosse folle, ma
non avevo il coraggio di smetterla di compiere all’infinito. Mi facevo del male
da sola, ma ero troppo codarda per analizzare il mio
comportamento. Mi lasciavo trascinare delle emozioni più barbare ed infime, aspettando che sopraggiungesse il peggio.
Scoccarono le sei e mi ritrovai magicamente di
fronte alla stazione. Mich era alle mie spalle intento a
contemplare i passanti che correndo, spintonando, parlando al telefono o
leggendo libri cartacei e virtuali, compivano le ultime fatiche della giornata.
Ognuno aveva qualcuno a
casa ad aspettarlo o almeno una lista di cose da fare prima di andare a letto e
chiudere definitivamente un’altra lunga e ordinaria routine.
Ma Michele cosa
avrebbe fatto?
Sarebbe andato da Raffaele a dormire? O avrebbe
passato la notte sulla terza panchina?
Mi resi conto, in quel momento, che non erano
proprio fatti miei.
“Eccolo! Il mio treno
sta arrivando.” Indicai il mezzo che sfrecciava sui binari sempre più vicino
alla mia vista. La tipica folata di vento che preannuncia
l’arrivo di un treno, mi fece stringere forte il cappotto e la sciarpa intorno
al collo. “Sei stato gentile oggi per… Beh, per quello.” Gli sorrisi, porgendoli
la mia mano per salutarlo.
“Grazie a te per il caffè, Elis.”
Mi passò una mano sopra la testa come se fossi
stata una bambina capricciosa e non una donna che, tra l’altro, non conosceva
neppure.
Rimisi la mano nel cappotto, imbarazzata da quel
gesto. “Alla prossima.”
Lo vidi sorridere di nuovo di sbieco prima di
scomparire progressivamente tra la folla e la leggera pioggia che stava
iniziando a scendere al di là della tettoia del
binario.
Quando presi finalmente
posto accanto al finestrino nel primo vagone e sbottonai la mia giacca, mi resi
conto che Michele mi aveva donato un sorriso inaspettato; forse uno dei gesti
più belli che uno sconosciuto possa compiere con disinteresse nei confronti di
un’altra persona. Non era stato indifferente come la maggior parte delle
persone. Ogni giorno vedo vecchiette sole che sollevano valige più pesanti di
loro con determinazione; uomini che svengono in metro per il troppo caldo o
senza tetto che chiedono spiccioli per comprarsi un panino. A volte riesco
ancora stupirmi nel trovare persone come Michele: che aiutano il prossimo senza
tornaconti o ricambi. Che cambiano percorso e perdono coincidenze per fare del
semplice, ma così essenziale bene.
Mentre il treno cominciò a lasciarsi Como alla spalle, non potei fare a meno di sorridere di nuovo.
Grazie
Michele per non essermi passato accanto con indifferenza. Grazie di cuore.
__________________________
Buonasera a tutti! Per chi non mi
conosce, posso solamente dire che sono una grande piantagrane che si diverte a
postare mille mila storia in contemporanea, perché è
molto pigra e ha bisogno di stimoli per finire dei progetti. Quindi
abbiate pazienza e pian piano ce la farò anche con questa storia!
Per chi mi conosce e pensa “Aridaje!”, non posso che dargli ragione: sono una
rompiballe!
Questa storia, però, è un tantino diversa dal solito. Vi ho fregato! *ride maleficamente*
Penso si intraveda già da questo primo capitolo. In
realtà volevo solo scrivere un’OS, lo giuro, ma poi mi sono lasciata prendere
la mano e Mich e Elis sono nati da soli. L’unica precisazione che posso fare
è sul nome di Michele: quando viene abbreviato bisogna
leggerlo come se fosse scritto Mitch. Un po’ come il
bagnino di Baywatch che si chiamava, appunto, Mitch. Capirete anche il motivo di questo diminutivo… Non
che sia questo gran mistero; purtroppo non sono brava né come la Zia Christie,
né tantomeno come il nonnino Doyle ;)
Per il resto, vi saluto.
Mi farebbe piacere leggere i
vostri pareri e vedere se questa pazzia ha un senso anche per qualcun altro
oltre al mio cervello un po’ rincitrullito. (Sì, solo un pochino…)
Big Kisses <3