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Autore: maynflow    13/03/2013    0 recensioni
Oneshot che ho creato un bel po' di tempo fa per un concorso. Ideale per chi ama la coppia Stefan/Katherine. Una rivisitazione, sotto il punto di vista di Stefan, dell'Italia del 1864, della sua depandance, mentre, i pensieri lo turbano, così come tutti i problemi che un giovane uomo può avere.
Genere: Fantasy, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katherine Pierce, Stefan Salvatore | Coppie: Katherine/Stefan
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era una di quelle giornate estive nelle quali il sole sembrava non voler andare via per lasciare il posto alla Luna, così aggrappato alle mie idee di grandezza in quel periodo, alla ricerca della felicità, continuavo a passeggiare per il viale di villa Veritas. Italia, 1864.

L’enorme dimora di mio padre –che inevitabilmente sarebbe finita nelle mie mani-  spiccava alla fine del vialetto come un traguardo, dopo una lunga corsa durata anni ed anni.

Passeggiare per quei viali alberati era sempre una grande impresa, i pensieri continuavano ad entrare nella mia mente, come se fosse del tutto normale, come se IO avessi dato il consenso.

Sembrava di essere all’ippodromo, quando stava per iniziare una gara, e tutti i cavalli iniziavano a fremere, per la voglia di correre, per la voglia di vincere. Così quel giorno i miei pensieri facevano a gara per chi arrivasse  prima alla mia mente, con il risultato che non ci capivo più nulla.

 

Avevo vent’anni, qualche mese in più non faceva differenza, eppure agli occhi di mio padre ero pronto a mantenere la tenuta di famiglia, “tramandata da generazione a generazione” come ripeteva sempre lui quando iniziava i lunghi monologhi sulla storia dei Salvatore, da sempre grandi guerrieri se si trattava di terre da conquistare.

Io annuivo, perché non potevo far altro che far finta di ascoltare l’ennesima storia che ormai sapevo già a memoria.

Si poteva parlare con mio padre, a periodi: c’erano i giorni in cui andava da una stanza all’altra sempre in fretta, firmando carte e parlando con un notaio dalla corporatura esile e minuta, in altri, invece, potevi discutere con lui come se stessi parlando con un tuo coetaneo.

Ma il problema maggiore ero io, c’era molta gente che volendo poteva tenermi compagnia, ma ogni interlocutore che mi si presentava, non era mai alla mia altezza.

Non erano idee egoiste, solo che  la maggior parte della servitù non era in vena di stare ad ascoltare un ragazzo con idee assurde, come per esempio quella di rendere il paese una federazione libera, senza leggi che vietavano a persone dei ceti minori di poter dire la propria volontà, le proprie idee.

I contadini lavoravano, mietevano il grano, per una pagnotta di pane e qualche spicciolo per mantenere la famiglia.

Ma ovviamente i miei erano solo pensieri, dovevo restare in silenzio quando volevo gridare, annuire quando volevo dissentire e restare fermo mentre il mondo intorno a noi cadeva a pezzi.

Soltanto quella mattina, il giornale parlava degli ennesimi ATTACCHI DI ANIMALI, un titolo di stampa in prima pagina, con caratteri grandi, per mettere in risalto una notizia che, a parer mio, era ancora da verificare.

Come si poteva parlare di attacchi di animali con certezza? Ma era il governo di Firenze, che preferiva mettere da parte i casi irrisolti, con una certa frequenza ambigua, che lasciava di stucco tutti.

Cinque mesi fa, cinque vittime, tre mesi, tre vittime, sembrava troppo calcolato come pensiero, che non poteva essere stato un animale, semplicemente perché gli animali non pensavano.

Chi si nascondeva nell’ombra inquietante di quella cittadina silenziosa?

Un altro ricordo pervase la mia mente come un lungo, terribile flashback, che assomigliava ai sogni che facevo spesso quelle notti afose di estate.

Quella stessa mattina, appena il sole era sorto, io mi trovavo nella mia camera, dopo essermi lavato e pettinato i capelli con cura –più di quanta ne servisse- e mio padre era entrato in camera senza troppe cerimonie annunciando ad alta voce che aveva trovato la donna perfetta per me.

Perfetta. Sì certo, di famiglia ricca, magari anche con territori  vasti. Per lui era quella la perfezione.

Avrei dovuto innamorarmi di una perfetta sconosciuta solo per fare un favore al mio caro padre? A quel punto avevo abbassato la testa al nome della famiglia della mia futura moglie, Cartwight, e avevo tentato di convincerlo.

“ Papà, non sarebbe qualcosa che mi renderebbe felice” avevo tentato di dire, ma lui come sempre non si era fatto problemi a punzecchiarmi con la sua solita frase “ Sono orgoglioso di te figliuolo, so che sceglierai ciò che è più giusto per la famiglia”

Invidiavo Damon, mio fratello, capelli neri e folti, con un grande spirito di avventura, nonostante fosse il figlio maggiore, aveva voluto arruolarsi nell’esercito, sotto lo sguardo contrariato di mio padre che, ovviamente, sperava che  l’unico figlio rimasto, non avrebbe fatto il grande sbaglio.

In quel momento avrei voluto essere la pecora nera della famiglia, quello che trasgrediva le regole, che si  concedeva lussi a volontà, magari anche tante donne, così tante da non dover scegliere con chi restare per tutta la vita.

Il contadino che gridava come un forsennato dal fienile, tutto sudato, e le grida dei bambini che giocavano nel cortile, mi fece tornare alla realtà, non era quello il momento di fantasticare su quello che sarebbe stato il mio futuro, avrei avuto modo di decidere, a prescindere da ciò che voleva mio padre: magari questa Rosalyn non era nemmeno tanto male.

Ma allora perché sul mio volto c’era un’espressione contrariata, di sdegno? E perché volevo in tutti i modi convincere mio padre che non saremmo comunque diventati più ricchi, che i soldi non facevano la felicità, che essere innamorato era più importante che sapere quante terre si era in possesso, e che, c’erano questioni ben più importanti a cui pensare, dalla più banale come l’attacco degli animali alla più importante.

Mi concentrai sui gigli in fiore che crescevano rigogliosi nei grandi vasi che fiancheggiavano il viale e lo specchio d’acqua del lago che luccicava in lontananza. Avevo passato lì molti pomeriggi, a scrivere sui fogli di carta che formavano quel mio modesto diario, in una posizione alquanto scomoda per scrivere, o anche solo per leggere.

Ma ero da solo, con dei fogli immacolati con cui sfogarmi, gettando parole anche senza senso ma che mi aiutavano a liberare pensieri tenuti nascosti nella mia coscienza.

Il mio cavallo Mezzanotte si avvicinò a me, come un cane si avvicina al proprio padrone, l’avevano lasciata libera di passeggiare per i giardini chiamati sarcasticamente da mio padre “ imperiali” e ora appena mi aveva notato con i suoi grandi occhi scuri, era venuta a salutarmi con i suoi modi gentili e dolci. Le accarezzai altrettanto dolcemente il muso per poi sentirla nitrire felice per le carezze ricevute.

 

-Lo so che vuoi essere cavalcata, non è il momento però. Il mio vecchio vuole vedermi sicuramente per parlare dei grandi affari nella villa, o magari di quante persone ci saranno alle mie nozze.

-Spiegai al mio cavallo sorridendo, per poi lasciarla andare via. NOZZE. Soltanto quella parola suscitava ribrezzo verso chiunque volesse farmi cambiare idea, mio padre compreso.

Ma non mi accorsi di essere arrivato davanti alle scalinate della grande abitazione, di marmo bianco e lucido. Il cielo era azzurro sopra di me, nemmeno una nuvola lo solcava, segno che quell’Agosto in Italia era uno dei più afosi, che io ricordi.

Mi fermai notando una grande carrozza a pochi metri da dove ero io, due cavalli bianchi scalpitavano irrequieti volendo ripartire, e un uomo sulla settantina, con capelli canuti e corporatura piuttosto robusta si accinse ad aprire lo sportello della carrozza. Le tende rosso cremisi di velluto si spostarono non facendomi intravedere, però, chi era venuto a farci visita.

Il pensiero che la mia futura moglie fosse arrivata per conoscermi dal vivo, mi inorridiva ma appena la nostra ospite fu scesa, trattenni il respiro per lo stupore.

Non poteva essere quella Rosalyn, mio padre aveva detto che era magra come il manico di una scopa, con folti capelli rossi.

La ragazza di fronte a me invece, era tutt’altro di come l’aveva descritta mio padre, per cui ero convinto che si trattasse o della mia immaginazione –cosa probabile visto il mio desiderio di amare- o un’altra ragazza venuta in visita a mio padre. Aprii leggermente la bocca, lei si accorse che la stavo fissando con troppa insistenza, così portò la mano al cammeo che portava in bella vista sulla sua pelle pallida e dolce.

Era bellissima, a dir poco, eterea, una Venere sì, poteva essere descritta come la Dea della bellezza per quanto mi aveva estasiato. Indossava un abito bianco a balze, non era come tutte le fanciulle che indossavano abiti del genere, aveva un portamento degno di nota e quell’abito sembrava essere stato tessuto apposta per lei.  Un nastro color pesca spezzava il colore uniforme del vestito e circondava la sua vita facendolo ricadere fino poco sotto le ginocchia. Una cascata di riccioli corvini le ricadevano sulle spalle e in testa aveva un cappellino dello stesso colore del nastro che le adombrava gli occhi.

La sua espressione però, si vedeva chiaramente, era divertita, sapeva di aver catturato la mia attenzione e… stava venendo verso di me.

Mi schiarii la voce e presi la sua mano delicata come si usava fare a quel tempo con delle ragazze o anche solo signore. Quando toccai la sua mano un brivido mi attraversò la schiena, un brivido che non avevo mai provato con nessuno ma che era piacevole. La sua pelle era fredda, nonostante fossimo in piena estate sembrava a suo agio così portai la sua mano alle mie labbra dandole un bacio gentile sul suo palmo, che poi lasciò ricadere lentamente lungo il suo fianco.

-Katherine, piacere di conoscervi signor Salvatore-

Mi disse con la sua voce scherzosa, e appena riuscì a respirare di nuovo sentì un profumo di zenzero e limone a dir poco meraviglioso. Come faceva a conoscere il mio nome? Mi meravigliai di quante cose sapeva eppure non lo diedi a vedere, continuando a guardarla nei suoi occhi castani e profondi, ma nello stesso tempo misteriosi.

- A quanto vedo sapete già il mio nome, Katherine.Il piacere è tutto mio.-

Ed era la verità. Era stato un piacere, era sublime, tanto da poter essere paragonata ad un angelo, così bella da sembrare introvabile. Chissà perché era qui, alcune idee mi passarono per la mente ma niente che potesse giustificare la presenza di una donna così bella nella nostra dependance.

- Vostro padre mi ha offerto ospitalità qui da voi, è stato molto gentile.-

Continuò a dirmi lei, e il mio sorriso si illuminò capendo immediatamente che l’avrei rivista anche il giorno dopo, se fossi stato fortunato. Katherine, capendo il mio pensiero sorrise e restammo lì a guardarci per alcuni minuti che a me parvero interminabili.

In quel momento capii, che nonostante tutto quello che mio padre aveva in serbo per il mio futuro, niente e nessuno avrebbe potuto decidere per me, su chi avrei dovuto amare, e capì anche che, non avrei potuto apprezzare qualcuno che non fosse stata Katherine.

   
 
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