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Autore: cartacciabianca    14/03/2013    4 recensioni
Quella parte era sempre la più difficile: la caccia poteva durare per giorni senza sosta, senza respiro, perché un solo sopravvissuto avrebbe potuto fare la differenza tra la vittoria definitiva e una nuova sconfitta.
E il suo Maestro era decisamente quel genere d'uomo che non ammetteva la sconfitta.
Genere: Azione, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Charles Lee, Haytham Kenway
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Hunting Cats'
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L'ARTISTA

I parte

.: * :.

A pelo bagnato

 

 

 

 

 

 

 

 

Settembre 1757

 

New York li accolse come Boston li aveva salutati.

Con la pioggia.

Una pioggia scrosciante, grassa che in poco tempo aveva riempito le strade di pozze e annerito le divise dei soldati costretti alla ronda. La gente che non poteva permettersi di girare in carrozza si spostava di tettoia in tettoia, o correva diritto, senza sosta, come inseguita da uno sciame d'api, allungando troppo il passo già lungo e rovinando inevitabilmente in qualche pozza. Gruppi di orfanelli e vagabondi potevano trovare rifugio sotto ai portici dei mercati vuoti, che i venditori avevano sbaraccato in pochi minuti dopo la prima goccia e con l'urgenza di una fuga dall'esattore. Massaie e prostitute si tiravano i foulard o le cuffiette intorno al volto come turbanti; avvocati e dottori nascondevano la testa in un'ala della giacca come fanno le anatre in cerca di parassiti nel piumaggio; mentre, beati, i randagi si rotolavano nelle pozzanghere.

— Ve la siete portata dietro come una moglie viziata, questa pioggia, ma la gente di qui lo apprezzerà senz'altro: erano settimane che non si respirava dal caldo. Benvenuti alla Black Horse. —

Il locandiere aggirò il bancone e i due ospiti lo seguirono senza una parola su per le scale, abbandonando il salone semi vuoto in uno scampanellio di chiavi, scricchiolio di assi e gocciolio di vestiti. Dopo aver mostrato loro le stanze l'uomo si presentò ufficialmente, dicendo di chiamarsi Damion Dane e che a gestire la locanda erano lui e sua figlia Margaret. Dopodiché prese con signorile anticipo le ordinazioni per la cena e poi un cortese congedo.

— Confesso che ho già nostalgia, Sir, — borbottò Charles finendo di stendere per bene i pantaloni sulla sedia di fronte al camino, dove si stava asciugando anche il resto degli abiti con cui avevano dovuto attraversare mezza città, prima di trovare una locanda decente. La stanza del suo Maestro era l'unica a possedere un focolare, acceso per l'evenienza, e il giovane Lee vi era temporaneamente approdato per usufruirne a sua volta.

— A fine mese Johnson ci raggiungerà e potremo stabilirci nella sua residenza a Kingsborought, se sarà necessario, — disse Haytham con distrazione. Lo sguardo perso fuori dalla finestra, le braccia conserte. Addosso un rapido cambio d'abiti asciutti e informali, mentre anche i suoi, come quelli di Lee, oziavano davanti alle fiamme.

— Allora la compagnia non ci mancherà, — ridacchiò Charles.

— Se ti riferisci ai suoi familiari, non sono in città. —

— È un peccato…  — mormorò il ragazzo con una smorfia, e finito di sfilarsi gli stivali poté metterli accanto a quelli dell'altro. — Ho avuto l'onore di conoscere il piccolo John all'inizio del mio mandato di servizio, a Boston: una copia di suo padre ma senza la barba! Lo stesso forse non posso dire di sua sorella Nancy… — rise. — Ciononostante vi avrebbe fatto piacere conosc...—

— Non siamo qui per una visita di gradimento, Charles. —

Lee batté le palpebre più volte, fissando la sagoma del suo Maestro stagliata contro la pioggia, mentre lentamente il sorriso gli moriva sotto ai baffi. Poi dopo un tempo infinito si alzò dal bordo del letto e, in religioso silenzio, tornò nell'altra stanza.

Rimasto solo, Haytham sospirò e lentamente sciolse le braccia lungo i fianchi. Quindi andò al camino e si assicurò che reggesse il necessario per asciugare i loro abiti e non abbastanza da ridurli in cenere. Dopodiché si allacciò anche l'ultimo bottone del panciotto e uscì.

Le loro camere erano al terzo piano di un edificio alto quattro, situato in un quartiere marginale e benestante della cittadella storica di New York. Prima di raggiungere la locanda Black Horse, la cui insegna peccava di fantasia, avevano vagato come fantasmi per delle lunghe ore sotto la pioggia. Questo perché la mercantile bi—alberata che li aveva scaricati sulla Long First Ferry, di fronte al Fly Market, la comandava un inglese (con tutto il rispetto per la madrepatria) che non aveva saputo indicar loro nient'altro che bordelli e stalle, in confronto al luogo in cui si trovavano adesso. Il tutto aveva fatto da lieto fine a quasi due settimane di crociera, inseguiti da una burrasca maestrale che era partita con loro da Boston e non gli aveva dato tregua neanche un giorno, durante la traversata, col rischio di schiaffarli a largo nell'Oceano Atlantico. Di conseguenza, appena sbarcati, placare il mal di terra era stata la sfida più difficile, ancor prima di trovare un posto dove passare la notte, perché non soddisfatti dei ritrovi pirateschi che costeggiavano le banchine avevano preferito continuare a cercare, spingendosi quasi fuori città e rischiando di ammalarsi.

— Questo ed altro per stare tra gentiluomini, — terminò Haytham mentre Damion gli versava del tè fumante in una tazza di porcellana.

— Quindi siete in città per affari, — constatò il locandiere.

— In un certo senso, — rispose.

— Quanto intendete trattenervi? —

— Domani fissiamo un incontro col Governatore, dopo il quale saremo in grado di stabilire una, seppur vaga, data di rientro a Boston. —

L'uomo si accigliò. — Vi riferite al Governatore Belcher? —

— Ho una lettera di raccomandazione che lo nomina: sì, dev'essere lui, — disse Haytham con un sorriso portandosi la tazza alle labbra.

Damion Dane poggiò la teiera sul bancone senza rumore e incrociò le braccia al petto. — Allora non avete saputo. —

Haytham gli lanciò un'occhiata attraverso i fumi del tè mentre inghiottiva un piccolo sorso.

— È morto, — disse il locandiere, — nella sua casa ad Elizabethtown, martedì scorso. —

— Come? —

— Ma si trascinava da mesi come se lo fosse già. Era molto anziano. I funerali si terranno venerdì questo. —

— Com'è morto? — insisté Haytham.

Il locandiere tirò indietro la testa, sorpreso, incassandola tra le spalle.

— Di vecchiaia, immagino. —

Haytham continuò a fissarlo come poco convinto delle sue parole, ma in quel momento Charles comparve sulle scale, guardandosi attorno. Il locale era completamente vuoto, tranne per due soldati con gli stivali ancora sporchi di fango e la divisa bagnata che sorseggiavano brandy in un angolo della stanza, perciò non fu difficile riconoscere il suo Maestro seduto al bancone. Non appena si avvicinò il locandiere si offrì di versare del tè anche a lui e Charles lo ringraziò con un sorriso, ma mentre Damion Dane gli domandava se preferisse latte o limone, Haytham si alzò, e portando la tazza con sé andò a sistemarsi senza una parola al tavolo più infondo alla sala, vicino alla finestra. Poco dopo Lee lo raggiunse e soffiando sul suo tè bollente gli sedette di fronte, con le spalle al bancone.

— Jonathan Belcher è morto, — cominciò Haytham cercando il suo sguardo.

Lee alzò il naso dalla tazza e in un attimo le sopracciglia gli schizzarono sulla fronte. — Il nostro Governatore? —

Ora capiva il perché di quel tavolo alla fine del Mondo.

Haytham annuì e abbandonandosi sullo schienale prese a giocare col manico della tazza.

— È successo mentre eravamo in viaggio, non c'era modo di saperlo, — disse. — Avevamo solo un pezzo di carta e adesso non abbiamo più neanche quello. —

— L'Assemblea eleggerà qualcuno che potrà esserci altrettanto utile. —

— Ma non lo farà molto in fretta. —

— Allora questo non dipende da noi e voi non dovete darvi colpe, Sir. —

Non seppe dire con precisione cosa nella sua frase gli avesse scatenato quel gesto, ma all'improvviso Haytham Kenway ritirò le mani dal tavolo e le abbandonò in grembo, abbassando lo sguardo. Con uno strano sorriso mormorò qualcosa a fior di labbra, ma probabilmente solo a se stesso, e poi ricominciò a guardare fuori dalla finestra, dove la pioggia continuava a schiaffeggiare le strade. Quindi per un po' e in cerca di una distrazione si concentrò sullo spettacolo urbano, ancora una volta, come se potesse bastare quello a svelargli tutti i segreti di cui era a caccia…

Charles tornò al suo tè non senza lanciare un'occhiata alla tazza del suo Maestro: aveva già smesso di fumare e Haytham, probabilmente, perso la voglia di berlo. Infatti non appena Charles ebbe inghiottito l'ultimo sorso lo vide alzarsi, di nuovo.

— Credo che andrò a stendermi un po', — disse. — Ti prego di non disturbarmi fino all'ora di cena. —

L'altro annuì, si girò sulla sedia e lo guardò imboccare le scale dopo aver ammiccato al locandiere, che subito dopo raggiunse il loro tavolo per togliergli le tazze da sotto ai baffi, mettendole su un vassoio.

— Mi ha detto che il viaggio non è stato esattamente piacevole, — cominciò Damion. — Via terra sareste stati più fortunati e questo tempo orribile vi avrebbe preceduti, perciò la sua stanchezza è più che giustificata, dico bene? —

— L'organizzazione del viaggio stesso è stata piuttosto… agitata. Penso sia stato questo, più che altro, ad affaticarci entrambi, —  rispose Lee.

All'improvviso nella locanda entrò un uomo, completamente zuppo, che con un gran frastuono agguantò una sedia dal tavolo più vicino per posarvi una serie di bagagli dall'aspetto pesante. Damion si voltò di colpo con l'imprecazione sulle labbra, ma un attimo dopo aveva abbandonato il vassoio ed era volato in direzione dell'ingresso, offrendo il suo aiuto al nuovo arrivato. I due sembravano conoscersi e perciò Charles ne approfittò per sparire dalla scena, puntando verso le scale. Una volta in corridoio superò la porta chiusa del suo Maestro e varcò quella della propria stanza, più piccola e spartana con una sola finestra che dava sulla facciata interna del palazzo. Si sdraiò sul letto a pancia in su e fissando il soffitto, molto basso perché si trovavano al terzo piano, prese a rigirarsi al dito l'anello dell'Ordine come sempre quando qualcosa lo turbava. Il suo bagaglio disfatto solo per metà, appoggiato di fortuna sulla sedia davanti alla zona della toeletta, gli ricordava che avrebbe potuto impiegare quel tempo in ben altro modo, ma i pensieri scottavano più di qualunque altra cosa.

Da quando avevano lasciato Boston il suo Maestro si comportava in modo strano, reagiva in modo inspiegabile; mormorando a se stesso, fissando i vuoti e preferendo troppo spesso rimanere da solo. Era diventato cupo, riflessivo, imprevedibile…

Più del solito, s'intende…

Ma in un attimo, inevitabilmente, Charles si addormentò, mentre nella stanza accanto qualcuno tentava di fare altrettanto forse già da un'ora, ma senza successo.

Ed era colpa di quella lista.

Quella lista che cominciava col nome di Joy Millar, garzone in una delle un-numero-imprecisato stamperie della sola provincia di New York, mentre l'unica possibilità di restringere il campo per le ricerche probabilmente riposava già venti metri sotto terra.

Dunque era ufficiale: era andato da Pownall, quella sera, per niente.

NIENTE.

E dopo aver tolto la vita ad un vigliacco nella maniera più vigliacca e immorale mai possibile, comportandosi da suo pari, uccidendolo con la sua stessa arma, quell'ulteriore inciampo metteva ancora una volta in luce i suoi errori.

Era stato avventato.

Precipitoso.

Crudele.

Ingiustificatamente crudele.

Cédric Dumas non meritava di morire così. Tantomeno il Maestro Brigham, che prima di andarsene aveva avuto il buon cuore di lanciargli il malocchio.

E aveva funzionato.

Perché Haytham si odiava.

Si odiava per ciò che aveva fatto e per come l'aveva fatto.

Ma il problema più grave era che…

…avrebbe dovuto farlo ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

Questa volta non mi dilungo in chiacchiere e vado dritta al dunque.

Vi è piaciuto il capitolo?

Sì/no.

E' semplicissimo, non dovete scrivere un poema, bastano due righe, ma vi prego… recensite.

Seguite la storia in tantissimi, il primo capitolo ha già totalizzato quasi 300 visite.

Se sono pallosa ditemelo, non mi offendo.

Se il mio Haytham vi fa schifo pure, tanto è a lui che vi state riferendo…

Per quanto riguarda Charles, bhé… nella fretta di passare ai pensieri di Haytham ho dovuto staccargli la spina. Non trovavo una scusa migliore e l'ho ucciso di sonno. Capitemi, manco di immaginazione.

Comunque mi ha contattata una lettrice anonima con una proposta interessante.

Oddio, interessante.

Forse non per tutti quelli che seguono questa storia, dalla quale non si aspetterebbero certi temi.

Mi ha chiesto di farle da beta nel suo progettino che dice di averle ispirato la mia storia.

Sinceramente, anche se la questione mi fa un po' senso, è riuscita ad incuriosirmi.

Mi ha anche autorizzata a fare un sondaggio.

Perciò, ecco la domanda:

"Credete che il fandom possa tollerare una Charles/Haytham senza ( come dire?) dimenarsi? E anzi, ci sarebbe qualche supporter anche solo vagamente interessato?"

Non serve rispondere nella recensione, potete contattarmi anche via messaggio privato. Oppure addirittura ignorare la faccenda e dimenticarvi quest'intervento.

Sperando che il suddetto intervento non vi abbia fatto passare la voglia di continuare a seguire la mia storia.

Perché in quel caso sareste dei bigotti omofobi senza cervello.

E allora, semplicemente, non ne sareste degni.

Scusate la schietta sincerità, ma oggi ho avuto una giornata orrenda e anche quella cosa che hanno le signore una volta al mese.

Chi è autore come la sottoscritta capirà benissimo perché è in momenti come questi che si riempiono, logorroicamente, le pagine più significative del proprio lavoro.

E infatti il capitolo è orrendo, ma mi ha molto soddisfatta e, soprattutto, svuotata.

Perciò ora basta.

A voi la parola.

 

cartaccia

 

 

 

   
 
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