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Autore: _MorgenStern    16/03/2013    2 recensioni
Una lunga riflessione sul perchè delle proprie azioni, quando sembrano senza motivo valido, quando la fiducia vacilla.
"Ama il silenzio, ma ora non riesce ad ascoltarlo."
| ATTENZIONE: Nazi!Germany
Accenno: Gilbert Beilschimdt/Prussia |
Genere: Guerra, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Una”
“Due”
“Tre”
“Quattro”
“Cinque”

E di nuovo, fino a cinque.
“Dieci”
Si fissa le dita, seduto, immobile. Scende con lo sguardo sui palmi, mantenendo il respiro controllato.
Guarda i calli e le cicatrici, muovendo appena gli occhi.
Sono mani abituate alla fatica e alle armi, le sue. Da anni, da secoli. Da sempre e per sempre.
Continua ad abbassare lo sguardo, fino ai polsi, dove ha delle sottili linee più chiare, tutt’intorno ad essi.
Segni di lotta, di resistenza. Non si è arreso, mai.
Chiude i pugni di scatto, stringendo, guardando le vene sotto le cicatrici risaltare, sui tendini contratti.
“No”
Non avrebbe smesso di lottare nemmeno stavolta. Anche se tutto era così strano, in quei momenti.
“Per cosa combatto?” alza la testa, fissando oltre la sua ordinata scrivania d’ebano coperta di documenti, fermandosi appena prima della finestra.
Non vuole guardare fuori. Non ancora.
Rilassa le dita, riaprendole, e sposta indietro il peso appoggiando la schiena alla sua sedia imbottita.
Sospira, ascoltando il silenzio nel buio delle sue palpebre chiuse.
Ancora nessuna risposta.
Appoggia una mano sulla scrivania, accarezzando il legno fino ad arrivare a sfiorare il freddo metallo di una pistola. La sua pistola.
Passa le dita sull’impugnatura e su ogni scanalatura, seguendone il profilo anche con gli occhi.
La conosce a memoria. La tocca tutti i giorni, per pulirla, intimidire, sparare. Uccidere. Per la guerra.
“Per cosa combatto?” chiede di nuovo a sé stesso, senza aprire bocca.
“Per la Nazione.” risponde una voce nella sua testa “Per la gloria e la potenza, per la giustizia e la vendetta. Per il sogno di unità del tuo Stato, dell’Impero.”
Sono davvero queste, le sue motivazioni?
Ritira la mano dall’arma, chiudendo gli occhi.
“Non è paura. Non può esserlo.” si ripete. E’ stato addestrato. Non può avere paura.
Di cosa, poi? Ora va tutto bene. Il popolo si sta risollevando, la guerra volge a loro favore, i loro sforzi non sono inutili.
“No, non può essere.”
Ma non ne è certo nemmeno lui.
Alza lo sguardo, allungando le dita verso l’unico effetto personale che si permette di tenere, insieme alla sua croce di ferro. Gli fu donata da suo fratello, lo stesso che si trova accanto a lui in nella foto che sta sfiorando.
Accarezza il vetro con il pollice, su quella figura tendente al giallo e sicura di sé.
“Per cosa combattiamo, Bruder(2)?” continua a chiedere silenziosamente, cercando un conforto impossibile.
Non sente nulla, nemmeno stavolta. Neanche la risata esagerata e curiosamente rassicurante, che tanto vorrebbe sentire.
Ama il silenzio, ma ora non riesce ad ascoltarlo. Ci sono troppi chilometri, tra di loro. Non potrebbe sentirlo né rispondergli, in qualunque caso. E’ la guerra, che tanto amano, a dividerli stavolta.
Fissa ancora per qualche istante il sorriso spavaldo dell’immagine, per poi decidersi a muovere gli occhi sul sé stesso di un anno prima, appena promosso a generale.
Non sorrideva, come sempre, ma era felice. Solo lui stesso o suo fratello avrebbero potuto affermare una cosa simile osservando l’espressione neutra di quegli occhi ghiacciati.
Non era mai stato bravo ad esprimersi e non gli interessava esserlo. Era fatto per la guerra, non per la gioia.
Erano identici, lui e il ragazzo nella foto, se non per il fatto che ora su quel petto si trovavano molte più mostrine e medaglie. Si era impegnato, guadagnandosi rispetto e gradi, fino ad avere più rispetto di quanto ne deve. Non erano in molti a potersi permettere un ufficio come il suo, non con tutti i vantaggi che aveva la sua posizione.
E tra quei due gemelli temporali, un abisso di corpi. Corpi morti e freddi, li vede. È così che funziona: uccidi e guadagni potere. Non è innaturale; è logico, è la legge del più forte, dell’essere superiore. Direttamente o indirettamente, ma devi uccidere. È sempre stato e sempre sarà così. Non lo rimpiange, sa che è giusto, lo crede.
Ma continua a fissare quel vetro, mettendo a fuoco il suo riflesso. Ancora quei freddi occhi azzurri. Non li trova speciali: li hanno in tanti, così come i suoi capelli biondi, tirati all’indietro. Sono come dovrebbero essere, come tutti dovrebbero averli. Distinguono e marchiano come superiore, migliore.
Non sono l’unico segno, però. Il più importante è il sangue, versato e proprio. È ciò che li forma, che li caratterizza e distingue, lui come tutti gli altri soldati e cittadini. Il sangue della razza, dell’Impero.
“Vinceremo” si dice ancora, fissandosi negli occhi, stringendo la cornice tra le dita.
“Siamo qui per vincere.” Continua a ripeterselo da sempre.
E sempre è tanto, quando sei una Nazione.
Ma non hanno sempre vinto. Sono stati sconfitti ed umiliati, colpiti e lasciati a sanguinare senza aiuti, abbandonati e derisi.
“Mai più.” Sente la rabbia tornare, la bassa e costante sensazione con cui convive da una vita. Non ha intenzione di sottostare ancora al volere di Stati inferiori. Nessuno gli darà più ordini, sarà solo lui a darne.
Rimette la foto al suo posto, nello stesso angolo, metodicamente e nel ritirare la mano afferra la pistola, infilandola nella fondina al suo fianco.
“Andrò avanti” perché tornare indietro, in fondo, è impossibile.
Una sirena suona, in lontananza, facendogli alzare la testa per lasciar vagare lo sguardo fuori dalla finestra, finalmente, sul cielo grigio e sui tetti di quella struttura che è stata affidata al suo comando.
“È l’ora” pensa, alzandosi. Sfila i guanti dalla cintura, mettendoseli con calma. Scrolla le spalle sistemando la giacca dell’uniforme nera che indossa, come ogni giorno, e raccoglie il cappello dall’angolo della scrivania, controllandolo prima di sistemarselo sulla testa.
Ha ritrovato la decisione dopo l’ennesimo momento d’incertezza. Farà il suo dovere, come sempre: seguirà gli ordini e farà rispettare le regole, con ogni mezzo. È stato addestrato, sa farlo, è il suo scopo.
Ancora una volta, abbassa lo sguardo sull’immagine di suo fratello, accennando un sorriso.
«Ad ognuno la sua guerra, Bruder.» Lui è lontano, a capo di altri uomini, in cima ad un’altra gerarchia. Sono entrambi nati per le battaglie, tattiche e d’azione secondo le loro caratteristiche, ma sono adattabili ad ogni situazione.
Sono Nazioni, dopotutto, e la sconfitta non è mai stata nei loro obiettivi.
Si volta, afferrando il cappotto color pece dal muro e appoggiandoselo sulle spalle, lasciando spegnere il sorriso nella solita impassibilità. Raggiunge la porta, abbassando la maniglia lucidata con una mano e compiacendosi della pulizia dei suoi guanti, su cui gli è caduto lo sguardo: immacolati, non una traccia del sangue che spesso li ha macchiati.
Esce, infine, portando prima uno stivale, poi l’altro, a superare il limite del silenzio. Annuisce al giovane soldato all’entrata dell’ufficio, che lo saluta come ogni sottoposto fa al passaggio di un superiore, e continua ad avanzare fino a raggiungere l’uscita dell’edificio, immergendosi in quel mondo di suoni e doveri, che ama e odia al contempo.
«Vorwärts!(3)» sussurra a sé stesso e a tutti loro, incoraggiando la Nazione e il suo popolo, lasciandosi alle spalle la calma della riflessione che può trovarsi solo dietro quella porta.
Porta su cui è appeso il suo nome, inciso e laccato in nero su una targa dorata.
‘Ludwig Beilschmidt’ recita.
‘Germania’ vuole significare.
‘Vittoria’ è ciò per cui combatte.





Note di traduzione
(1) Stille = Silenzio; 
(2) Bruder = Fratello;
(3) Vorwärts! = Avanti!

  
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