Grazie a tutti (che lo
dico a fare? Ormai lo sapete che mi commuovo sepre…)
per i commenti, le recensioni e gli incoraggiamenti (sigh…
attacco di plumbea malinconia in arrivo…).
E’ il penultimo (ci ho messo un quarto
d’ora per scrivere questa parola…). E’ il 99. Ancora non ci
credo…
Come ho citato poco
tempo fa, “It’s been a long way down,
from where we starter from”…
A dire la
verità, mi sta salendo un po’ il magone, avrei
voluto andare avanti all’infinito… oddio, altri spunti e altre
raccolte di titoli ci sono eccome, nulla sembra impedire che possa essere
così. ^^
Allora, lasciatemi
fare questa penultima introduzione come si deve…
Rullo di
tamburi…
C’è stato
Pain and Wounds, quello che
sembrava un happy endig.
C’è stato
Parting, la separazione.
C’è stato
Letter, la mancanza.
C’è stato
Cold Hands, il ritrovarsi
temporaneo.
Non pensate che manchi
qualcosa? ^^
Direttamente
dall’after movie, ecco a voi…
099. “Welcome home” (Bentornato)
“But I’m sure you’re on your
way home
Yes, I know you’re on the road.
And I’m sure you’re faster than
before
Yes, I know you’re somewhere on the
road.”
Kate Havnevik “Nowhere warm”
Aveva ancora la guancia rossa e bruciante per il suo schiaffo.
Non ricordava che lei fosse capace di usare le sue mani sottili, per azioni che non richiedessero un grilletto da premere. Soffocando un sospiro contro l’incavo del suo collo, realizzò che anche le carezze le riuscivano bene, molto più dei ceffoni.
I rumori del campo di battaglia appena sgomberato sembravano esistere solo per coprire i suoi flebili lamenti, quelli che proprio non riusciva a trattenere.
Non c’era stato il tempo di preparare nulla, di pianificare nulla. Ma i sacchi di sabbia nei quali stavano affondando, gli stessi che poco prima erano stati le loro barricate, non erano poi così scomodi come poteva sembrare. E poco importava se quel magazzino non era una camera da letto, se nella confusione la giacca della sua divisa era finita chissà dove, se il pericolo di venire scoperti era reale.
Due anni erano stati tanti.
Gli era mancato il sapore salato della sua pelle, il modo in cui passava una mano tra i suoi capelli, credendolo addormentato, il suo arrossire con estrema facilità…
Gli era mancata lei.
“Dimmelo ancora…” sussurrò nell’incavo tra i suoi seni. Il suono cavalcò un brivido, rimbombando nel suo corpo come in una cattedrale.
Tra i respiri affannati, lei non rispose. Lo graffiò, lo morse, senza una parola.
Voleva fargli male, almeno quanto ne aveva fatto lui a lei, anche se sapeva benissimo che quei furiosi segni rossi sulla sua schiena non arrivavano a rispecchiare neanche lontanamente la sensazione straziante della sua mancanza, quel buco vuoto dentro, che la divorava ogni giorno di più, la spegneva ogni giorno di più.
Due anni erano stati troppi.
“Dimmelo ancora, Riza…” ripeté lui, quando l’urgenza fu alleviata, quando il bisogno di stringerla ancora non era più così grande da togliere il respiro, quando lei ebbe sentito la rabbia trasformarsi in qualcosa di liquido e caldo e appagato. Qualcosa di familiare, che sentiva scendere in caduta libera sulla pelle accaldata delle guance.
Un bacio sulla sua fronte madida, un altro sulla benda scura, e un altro piccolo morso – delicato ma deciso, per non fargli dimenticare di ciò che aveva fatto - in quel punto esatto dietro l’orecchio, che aveva imparato a trovare ad occhi chiusi.
E un sussurro, così impalpabile e lieve da annegare tra le lacrime, sfaldarsi nell’aria, sciogliersi nel calore che avevano creato.
“Bentornato…”
“And I reckon there is nothing more to
say…”