Note esplicative: Ritengo che siano necessarie, considerata
la storia che ho deciso di raccontare, ma soprattutto i tempi e i luoghi che ho
scelto come sfondo. Per una che vede e rivede gli episodi sino a recitare le
battute in inglese – complice non indifferente il fatto che io adori, adori le voci originali quasi più di
quelle dei doppiatori italiani – che i Pond siano approdati
definitivamente nella New York del ’39 non può essere mera coincidenza, specie
se si ricordano gli ultimi minuti dell’indimenticabile “L’allunaggio”. Da questa
considerazione, fatta mesi fa con mia sorella alla quinta o sesta visione della
puntata 7x05, è nata un’assurda quanto strampalata ipotesi su come Melody sia effettivamente
arrivata dall’orfanotrofio a Leadworth e così via. E sì, lo so, Melody stessa,
o meglio Mels dice di aver impiegato anni a trovarli, ma perché, mi sono detta,
perché non regalare alla Melody bambina quanto a quella adulta un ricordo, una
possibilità?
Perché non dare ai Pond l’occasione di essere davvero dei genitori?
Il tutto è ambientato nel dicembre del 1969. Per Amy e
Rory sono trascorsi trent’anni dalla 7x05 (in cui hanno poco più di trent’anni),
quindi vanno entrambi per la sessantina.
I personaggi di Rory ed Amy ho cercato di renderli più
maturi, meno avventati diciamo. Se risultano OOC, nonostante i miei ovvi buoni
propositi in merito, è anche per quello quindi. Per quanto riguarda la linea
temporale del Dottore invece, che viaggi ancora saltuariamente con i Pond o
invece anche per lui ci sia già stato l’addio definitivo, scegliete voi
l’opzione che più vi aggrada.
Un’ultima nota sul comportamento adottato da Melody.
Molti potrebbero trovare quantomeno strano che una bambina segua uno
sconosciuto così di buon grado. Il fatto è che Melody si fida a pelle di River
– e ma va’, ci sta anche direi, si fida
di se stessa xD – e gli ultimi mesi, da quando è scappata dall’orfanotrofio
all’incontro con River, li ha vissuti teoricamente per strada, da novella
Oliver Twist per intenderci (sempre secondo mie personalissime congetture).
Uhm, credo che sia tutto più o meno. Nella mia testa
suonava più lungo e confuso e forse sto dimenticando qualcosa, ma nel caso
basta chiedere, giusto ;)?
Buona lettura e alla prossima, un abbraccio!
Aveva fatto un respiro profondo e poi l’aveva guardata negli occhi,
sedendosi sul bordo del letto.
-
Ascolta, Melody, è bene
che tu lo sappia. Tra poche ore la donna che ti ha portato qui verrà a
prenderti. –
-
Perché? –
La sua voce alle sue stesse orecchie era parsa turbata e peggio: ferita.
Amy non aveva distolto lo sguardo e pur se colpevole, insieme a quello di
Rory in piedi dietro di lei, serviva a comunicare anche qualcos’altro che lei
sul momento si era rifiutata di accettare. Esprimeva puro dolore. Le mani di Rory,
ancora ad indugiare sulle spalle delle moglie, gliele avevano strette con
rinnovato vigore, come a volergliene trasmettere un pizzico. - Perché per
quanto lo desideriamo, non possiamo tenerti con noi, - aveva spiegato Amy, con
una pacatezza che Melody aveva intuito che si fosse imposta. - Ne va del tuo
futuro. –
- Tutti mi parlano del mio futuro, - aveva replicato Melody con rabbia e
veemenza,- come se fosse già deciso, come se io non avessi scelta. Nessuno si
preoccupa del presente, di me. Io non voglio crescere. Non voglio avere questo
aspetto. Quello che voglio è solo una famiglia. –
Amy aveva scambiato un’occhiata con Rory prima di chinarsi su di lei e
stringerle le mani con tanta forza da farle male. - Quello che vuoi è essere
libera di scegliere la persona che diventerai. Ed è quanto ti stiamo regalando,
Melody, anche se farlo ci spezza il cuore. –
A questo Melody non aveva risposto, troppo arrabbiata e delusa. Dopo una
breve pausa Amy aveva proseguito: - Ascolta. L’unica cosa che posso dirti, l’unico
consiglio che posso darti è questo: trova Amelia Pond. Sarà una buona amica per
te o almeno proverà ad esserlo. –
- Chi è? –
- È me da giovane, avanti di quarant’anni da oggi. –
- Ma è assurdo, – aveva sbottato Melody.
Amy e Rory avevano sorriso contemporaneamente. - Quasi quanto un uomo che
muore due volte o una ragazza che aspetta duemila anni. Tu credici lo stesso.
Credi nelle favole, Melody perché è tutto ciò a cui potrai aggrapparti. Sarà
dura. Non ho intenzione di mentirti. A volte ti sentirai sola e spaventata e in
quei casi probabilmente non verrà nessuno ad aiutarti. Non ancora. Un giorno
però non sarai più sola e l’attesa, la tristezza, tutto il tempo trascorso a
pregare in qualcosa di meglio… ne sarà valsa la pena. Aspettare qualcosa di impossibile
e meraviglioso è sempre una buona scelta, ma richiede coraggio. La domanda che
ti pongo è: tu ne hai abbastanza? –
Gli occhi luminosi di Amy promettevano di sì e Melody si era fidata.
Credere nei suoi genitori era tutto quello che le sarebbe rimasto di loro per
molti anni a venire.
Un atto di fede, puro e semplice.
Un atto di fede
Faceva freddo. Tanto freddo. La neve fioccava lenta
intorno a lei e – le sembrava – anche dentro. Se non avesse avuto le mani e i
piedi gelati, avrebbe pensato che fosse quasi bello.
Il vicolo puzzava di rancido, non lontano c’erano un
cassonetto dell’immondizia e uno scolo della rete fognaria. L’unico lampione
creava sull’asfalto una polla di luce giallastra. Si tastò il viso alla ricerca
di novità o stranezze. Cose come barba o un occhio di troppo (sapeva che
imprevisti del genere potevano capitare, a volte, se si peccava di poca
concentrazione); fortunatamente non ne trovò. Sentiva la testa pesante, pulsava
quasi. La mosse in avanti e nel farlo le sue dita incontrarono qualcosa di
lungo e ruvido. Ci mise un po’ a capire che fossero capelli. I suoi. Scuri e
ricci, crespi, non più rossi.
E la pelle poi. Nera, come il carbone, le ombre sui
muri, il cielo attorno alle stelle di notte, gli incubi.
I palmi invece erano più rosa che mai.
Era viva. Accolse il pensiero con gioia, come un
regalo.
Viva, viva, viva. Anche se faceva freddo, anche se non aveva idea di
dove fosse – sapeva solo quel che vedeva e cioè un posto buio e dall’odore
sgradevole, da qualche parte nei bassifondi di Manhattan –, lei era viva.
Doveva trovare un riparo, mettersi al sicuro, muoversi. Erano queste le
priorità.
Melody invece allargò le braccia e chiuse gli occhi,
con un largo sorriso di felicità a farsi strada e aderire alle labbra. Cominciò
a girare, girare, girare. La neve le cadeva direttamente sul viso rivolto verso
l’alto, come pioggia o lacrime. Al contatto con la pelle si scioglieva subito.
Non sentiva quasi più il freddo né il vuoto. Presto però la testa cominciò a
pulsare più forte, le orecchie a ronzarle. Cadde a terra, nella neve sporca,
con un tonfo e una risata che riecheggiò acuta nel silenzio circostante. Alle
sue stesse orecchie suonò simile a un singhiozzo.
Riaprì gli occhi – chissà se anche quelli erano neri o
piuttosto marroni? -; scoprì che le bruciavano. Ci passò la manica sopra, poi
si rialzò, spolverandosi la gonna.
Fu allora che la vide: la donna nell’angolo. Indossava
un soprabito scuro, tacchi di un rosso sgargiante che sfidavano ogni legge di
gravità. Erano distanti un paio di metri e la fissava. Occhi scintillanti nella
penombra.
A giudicare dall’espressione e dalla sua posizione –
appoggiata contro il muretto di mattoni di un caseggiato – doveva essere lì già
da un po’.
Melody mosse d’istinto un passo all’indietro,
preparandosi alla fuga.
La donna non batté ciglio. Si limitò a ridacchiare
piano, quasi con gentilezza, come se non volesse farsi sentire. Melody si
irritò. Ugualmente non si gettò nella corsa progettata. Perché fuggire? Era
solo una donna. Una donna sola, di notte, in un vicolo di periferia e durante
una nevicata. Più che paura, provava una cocente, dilagante curiosità.
- Non c’è niente di cui aver paura. –
La sconosciuta lo disse con voce garbata, ma Melody
sapeva riconoscere i toni, così come le bugie e quello era lo stesso tono che
la donna con un occhio solo era solita usare per raccontarle le storie
sull’Uomo che non Moriva, il Dottore malvagio con la sua macchina ruba-sogni.
– Chi sei? – domandò.
La sconosciuta rise ancora, divertita. - Se te lo
dicessi non mi crederesti mai, bambina. –
- Questa non è una vera risposta, - ribatté duramente
Melody. Aggrottò le sopracciglia. Non sapeva cosa pensare. Quella donna
sembrava così strana.
- E la tua non era una domanda furba, piccola. Se
avessi avuto cattive intenzioni, pensi davvero che sarei stata sincera? La
curiosità è un peccato pericoloso da accontentare. Questa volta sei perdonata.
In fondo avrai modo di imparare. E tempo, di quello ne avrai a bizzeffe, anche
se ti sembrerà sempre troppo poco. –
La donna si staccò dal muro e con lentezza fece per
accostarsi.
Melody si mise in allerta. - Imparare cosa? –
L’altra sorrise ancora, questa volta con un sorriso
che se possibile era ancora più enigmatico del precedente. Tirò le mani fuori
dalle tasche del giubbotto e le mise bene in vista, per mostrarle i palmi
aperti e disarmati.
- Ad essere magnifica. Ora vieni con me, Pond. – Le
tese una mano, invitandola a prenderla e a seguirla. Melody si limitò a
scrutarla accigliata, senza accennare movimenti. - Come fai a conoscere il mio
nome? –
- Oh, ma io so tutto di te, Melody Pond. Ogni cosa, -
rispose la donna con voce improvvisamente morbida e bassa. Sembrava pronta a
raccontare una storia da una mille e una notte: magica e piena di mistero,
amore, intrighi. Di quelle che tutti sperano di vivere un giorno o l’altro,
senza però mai riuscirci. - So che sei scappata da un luogo peggiore della
morte e che prima di sei mesi fa non avevi mai messo piede fuori
dall’orfanotrofio. So che hai la sensazione di aver visto cose orribili, anche
se non le ricordi. E so che sei spaventata, ma che non lo ammetteresti mai.
Perché sei orgogliosa, molto orgogliosa e ti senti sola. Hai sempre pensato che
il mondo non dovesse essere poi tanto speciale, visto che non potevi vederlo. E
così la tua famiglia, se ti aveva abbandonata. Sei triste e arrabbiata e le due
cose, specie se combinate, possono rivelarsi un’accoppiata esplosiva. Ora hai
avuto un assaggio di libertà e sei decisa a tenertela stretta come puoi. –
Suo malgrado Melody non sapeva se se sentirsi
impaurita o affascinata da lei. Con un certo sforzo si costrinse a sollevare il
mento per un’ultima risposta tagliente: - Solo perché sai tante cose di me, non
capisco perché dovrei seguirti. –
- Hai imparato presto la lezione. Solo… - I denti
della donna scintillarono nella penombra in una risata ambigua. I suoi occhi
avevano una luce sfuggente. - Non ti avevo detto di metterla in pratica con me.
–
*
Dopo aver accettato di seguirla, la donna era parsa in
qualche modo sollevata. Non come se non si fosse attesa una resa da parte sua,
ma comunque come se non ne fosse stata sicura fino all’ultimo. Ora Melody la
seguiva passo passo tra i quartieri sconosciuti di New York, aggrappata saldamente
alla cintura del suo soprabito.
Aveva pensato che la sconosciuta l’avrebbe presa per
mano, anche per accettarsi che non scappasse, ma così non era stato.
Stranamente aveva avuto la sensazione che non volesse essere toccata, non da
lei perlomeno. Ad un certo punto, quando le sembrò che avessero camminato per
ore e ore e Melody cominciava a sentirsi tutta intirizzita per quanto era
stanca, la donna si fermò. Mancò poco che Melody, rintronata com’era dal sonno,
non andasse a finirle contro. Invece incespicò nei propri piedi e rischiò di
cadere; in ultimo riuscì miracolosamente ad evitare l’impatto con il
marciapiede sostenendosi alle sbarre di un cancelletto arrugginito.
Si erano fermate di fronte ad un palazzo, un edificio
con un numero imprecisato di piani, di uno strano blu scuro, con una bella
scala sul davanti, un vecchio portone di legno e fiori secchi ai davanzali
dell’ultimo piano. Melody non sapeva cosa aspettarsi. Certo, una visita data
l’ora indecente le sembrava abbastanza seccante, ma se anche si fosse trattato
invece di un furto o quant’altro sperava soltanto che lì dove stavano andando
ci fossero un divano comodo o anche un pavimento non troppo duro su cui
riposare. La donna cominciò a salire le scale e Melody fu strattonata in
avanti. Davanti al portone chiuso non bussò, ma si piegò in avanti e prese a
tastare gli incastri delle mattonelle sotto i piedi con fare pratico e sicuro.
Una era appena più in rilievo rispetto alle altre. La sollevò e ne tirò fuori
una piccola chiave. Aprì il portone, rimise tutto in ordine e finalmente
entrarono. Suo malgrado Melody era sorpresa, ma tentò di non darlo a vedere con
scarsi risultati.
La sconosciuta se ne accorse e le lanciò un’occhiata
incuriosita. – Non hai aperto bocca da una mezz’ora a questa parte, - commentò. - Strano,
non mi avevi dato l’impressione di essere un topolino silenzioso. –
Melody borbottò qualcosa, ma aveva davvero troppo
sonno per fare rimostranze di qualsiasi genere, anche per difendersi da quella
che le sembrava una specie di accusa e per di più ingiusta.
Scontatamente, l’appartamento a cui erano dirette era
all’ultimo piano e l’ascensore era guasto. Melody salì in silenzio, sentendosi
le palpebre pesanti come macigni e i piedi di piombo.
Giunte sul pianerottolo le sembrava di camminare come
in un sogno. Ciò nonostante quando la donna bussò, il rumore del campanello
servì a risvegliarla in qualche modo. Venne ad aprire un uomo alto e
allampanato, intorno alla cinquantina. Non indossava una vestaglia e il suo pigiama a righe troppo corto sulle
caviglie strappò a Melody un involontario sorriso. Aprì la porta sbadigliando e
vedendo di chi si trattasse, si stropicciò gli occhi come se non credesse a
quanto vedeva.
- River? – boccheggiò alla fine. Si passò una mano tra
i capelli brizzolati, sorpreso. - Mio Dio, quanto tempo è passato dall’ultima
volta! Era il Ringraziamento di due o tre anni fa? Amy sarà così contenta di
vederti! –
Melody impiegò qualche istante per capire che “River”
fosse in effetti la sconosciuta donna del vicolo. River rispose al sorriso
dell’uomo con uno meno appariscente.
- E tu? Non sei anche tu felice di vedermi? – domandò
con sagacia.
L’uomo fece un altro largo sorriso e gli occhi non
erano più assonnati, ma svegli e luminosi.
- C’è da chiederlo? – Con una bracciata spalancò del tutto la porta,
invitandole ad entrare e fece loro strada in uno stretto e lungo corridoio
d’ingresso, senza darsi pena di controllare che lo seguissero, quasi fossero di
casa. Nel frattempo blaterava una tirata sul tempo trascorso: - Di sicuro
piangerà. Amy, intendo. Sai, è di lacrima facile ultimamente, ma non farglielo
notare se non vuoi ritrovarti con qualche dito in meno. – Qui si voltò
ridacchiando e mentre Melody cominciava a chiedersi se questa Amy non fosse un
cane o invece una vecchia scorbutica un po’ acida, lo sguardo dell’uomo cadde
su di lei.
Melody lo vide sgranare gli occhi e poi riprendersi,
lanciando un’occhiata chiaramente confusa a River. - Non avevo notato che… vedo
che non sei sola. Questa graziosa signorina chi è? – Si piegò sulle ginocchia
per portarsi alla sua stessa altezza e le tese una mano con un sorriso
amichevole. - Io mi chiamo Rory Williams, per gli amici Signor Pond, molto
piacere. –
Melody gliela strinse. Era calda attorno alla sua che
invece era fredda per la lunga marcia. Subito sentì un po’ di quel calore
raggiungerla. L’uomo, Rory, le strizzò un occhio e lei sentì le labbra
screpolate piegarsi in un sorriso stiracchiato. Stava cominciando a chiedersi
se fosse così che ci si sentisse a sapersi benvoluti e aspettati da qualcuno,
se fosse quello che provasse la donna di nome River, quando la voce di lei
spezzò l’interludio che era venuto a crearsi.
- Lei è Melody. –
Una semplice frase, ma bastò. Non sapeva cosa
importasse a quel signore simpatico sapere chi fosse, ma fu come se di colpo una
caterva d’acqua ghiacciata fosse caduta loro addosso dal nulla. Lei la sentì
propagarsi anche dentro di sé nel momento in cui Rory di colpo staccò le dita
dalle sue. Se prima era stata la sorpresa a macchiargli gli occhi, adesso li
strabuzzò senza traccia di emozioni.
- Oh, - disse. Una breve pausa, gli occhi vacui e
fissati su un punto impreciso dietro di loro e tornò a ripetere “Oh”, quasi non sapesse dire o pensare ad
altro.
Dopo un paio di secondi rimise a fuoco il corridoio,
sbatté le palpebre e nel riabbassarle, Melody non vi trovò più disorientamento,
ma un dispiacere così vivido che per qualche motivo fece male anche a lei.
River di fianco sembrava una statua di pietra. Solo la bocca, contorta in una
specie di smorfia, mostrava qualcosa, forse amarezza.
Rory si mosse nervosamente sul posto e si massaggiò il
collo, decidendo sul da farsi. Il suo sguardo dardeggiava inquieto dall’una
all’altra, senza tregua. - Io, ecco… immagino sia il caso che vi accomodiate
mentre vado a chiamare Amy. Sì, sedetevi. Metto a bollire un po’ di acqua per
il tè nel frattempo. –
Detto questo le mollò lì. Se non fosse stato per
River, Melody sarebbe rimasta piantata nel corridoio ad aspettare che tornasse,
ma la donna aprì una porta, la più vicina e la trascinò con sé senza troppe
storie, che lei lo volesse oppure no.
Effettivamente la stanza aveva proprio quello per cui
Melody, appena quindici o venti minuti prima, aveva spasimato segretamente: un
bel divano e delle poltrone imbottite dall’aria soffice. Anche il pavimento,
pieno com’era di tappeti, aveva un aspetto tutt’altro che scomodo. L’unica luce
era quella soffusa proveniente da una piccola lampada decorata, ricoperta da
uno scialle giallo e sfrangiato. Completavano l’arredamento un basso tavolino
pieno di cianfrusaglie, uno scrittoio con una macchina da scrivere, una
libreria a muro, quadri e fotografie alle pareti e accatastati in montagnole
sparse un po’ ovunque tanti giornali da tappezzarci i muri dell’intera stanza e
forse anche dell’ingresso. Tutto sommato una camera vissuta e calda, forse solo
un po’ troppo caotica.
Seduta sul divano, Melody stava decidendo se fosse il
caso di poggiare la testa su uno dei cuscini e dormicchiare. Ormai era evidente
che qualunque fosse l’intento di River, ucciderla fosse l’ultimo dei suoi
pensieri. Lanciò un’occhiata alla donna, che intanto si era tolta il soprabito
e lo aveva ripiegato sul bracciolo della poltrona. Giocava con un accendino
preso dal tavolino e lanciava occhiate divertite al posacenere di cristallo e
al portasigarette.
In quel momento la porta si riaprì con uno schianto e
una furia in rosso fece la sua comparsa a passo di carica. Alle sue spalle fece
capolino il volto preoccupato di Rory che si passò una mano sul mento e sospirò
un “Amy” pieno di sentimento.
Ora Melody poteva capire la battuta di prima su dita
trinciate e quant’altro. Ad una prima occhiata si capiva benissimo che la donna
appena entrata appartenesse al genere di persona che odia farsi vedere in
lacrime. Amy si rivolse direttamente a River. Le passò davanti senza rivolgerle
la minima attenzione e Melody non seppe se sentirsene delusa o invece grata. Si
protese, curvandosi su di lei in una posa che voleva essere ostile. Prima
ancora che aprisse bocca, però, River le mormorò all’orecchio qualcosa che
Melody non sentì da dov’era, ma che dovette funzionare come una specie di
incantesimo perché la rabbia di Amy si sgonfiò di botto. Melody non riusciva ad
osservarne l’espressione perché le dava le spalle, anche se vedeva chiaramente
che erano rigide per la tensione, ma la voce fu un sussurro accorato
udibilissimo: - Che razza di scherzo crudele è mai questo? Perché se è un
gioco, River, giuro che non te la farò passare liscia. Rory mi ha appena detto
che… –
- Non è uno scherzo, madre cara e anche se lo fosse,
cosa potresti mai fare? Mi metteresti in punizione? –
Nonostante il tono beffardo, River non sorrideva più,
anche lei scura in volto.
Dopo qualche istante Amy lanciò uno sguardo cauto
all’indietro, verso di lei. Aveva occhi scuri che si piantarono nei suoi pieni
di aspettativa, trepidanti, non poche rughe e capelli spettinati di uno
splendido rosso a dispetto di alcuni fili grigi a spezzarne l’uniformità. - È
così lei è… - iniziò con la voce distorta da un’emozione a stento contenuta.
River annuì. - Sì. –
Ora i sospiri di Rory non sembravano più tanto diversi
da singhiozzi, di quelli che si emettono quando si ingoia involontariamente
dell’aria, mentre gli occhi di Amy si facevano lucidi per le lacrime.
Melody invece si sforzò di non sussultare. Nonostante
fosse molto più vecchia rispetto alla fotografia che conservava, l’unica
immagine di lei che aveva, nonostante le sue labbra non stessero sorridendo e
il suo aspetto in quel momento fosse tutto tranne che felice e orgoglioso – era
arruffata, il volto recava ancora tracce di irritazione -, nonostante tutto
questo Melody la riconobbe al primo sguardo sincero che si scambiarono.
*
La bambina aveva bisogno di un bagno e di farsi una
bella dormita, ma prima di questo, di mettere qualcosa sotto i denti. Mentre
River forniva informazioni col tono pratico di chi impartisce semplici
istruzioni, cose tra l’altro a cui chiunque sarebbe potuto arrivare da sé per
averle osservate ad occhio nudo, tutto quello a cui Amy riusciva a pensare
erano gli occhi di Melody quando aveva racimolato abbastanza coraggio per
affrontarli. Un tempo, anni e anni prima, un tempo di gioventù e viaggi in capo
all’universo, d’impazienza febbrile, forse sarebbe corsa al divano e l’avrebbe
stritolata in un abbraccio da cui non l’avrebbe più fatta riemergere. O forse
no. Forse avrebbe urlato o pianto o sarebbe stata troppo presa dall’emozione
per muovere un passo.
Rivide l’espressione di Rory, poco prima, quando aveva
proteso la mano verso la figlia. Il modo impercettibile in cui aveva tremato
quando Melody l’aveva stretta con semplice fiducia, come un’abitudine, e come
lui fosse sembrato tentato di prenderla in braccio nel vederla stare in piedi
stentatamente, come di conseguenza avesse adeguato il passo a quello incerto di
lei.
Quando mano nella mano, nella manifestazione più
comune del rapporto genitore- figlio, Rory le aveva lanciato uno sguardo
solidale da sopra la spalla prima di richiudere la porta, Amy era stata tentata
di seguirli. Invece aveva serrato le dita attorno alla vestaglia di seta,
impedendosi gesti impulsivi.
Passò un minuto a cui seguirono altri, senza che nessuna
delle due si azzardasse a parlare.
River si allungò per prendere una delle sue sigarette.
L’accese e aspirò il fumo con evidente piacere. Nel farlo i muscoli delle
guance le si distesero un po’.
- Melody, - la chiamò. Lei si voltò a guardarla,
attendendo che continuasse, ma la verità era che Amy non sapeva come farlo. Sospirò
stancamente, osservandosi le mani. Le trovò vecchie e irriconoscibili, coi
tendini bene in vista e piccole macchioline scure sempre più numerose,
impossibili da nascondere ormai. -
Melody, perché? –
River aspirò di nuovo, con calma. - Perché cosa? –
- Perché portarla qui e non permetterci di tenerla con
noi? Sono troppo vecchia per questo. – Quell’ammissione le trasmise un sapore
talmente amaro in bocca che arricciò le labbra per scacciarlo via il più in
fretta possibile. - Anni fa avrei potuto sopportarlo, ma adesso… - Amy abbassò
la voce, fino a ridurla ad un bisbiglio, - non ci riesco. –
- Perché spiegare quanto sai già? – Non rispose e di
fronte al suo silenzio, River ebbe come un moto di disappunto, ma la ruga tra
le sopracciglia si spianò presto. Aspirò un’ultima volta e spense il resto
della sigaretta. Si sporse in avanti e si ributtò i capelli crespissimi dietro
la spalla, accigliata.
- Ebbene, dal momento che lo desideri… Dovrei
lasciarla qui, dici, con voi. – Il tono
era implacabile nel presentare l’inesorabilità dei fatti. - Siamo a New York e
sono gli anni ’70. Riesci a immaginare il tipo di vita che avrebbe? Che voi
potreste offrirle? Non fa parte del suo destino. –
- Il tempo può essere riscritto, – rispose Amy
meccanicamente, ma sempre nell’eco testarda di quella che era stata la
sicurezza di un tempo.
- Non il suo. Non lo permetterò! – esclamò River con
violenza.
- E quindi la porti via. – Le pareva che la fatica
appartenesse di diritto alla sua voce, fino a renderla una specie di verso
gracchiante. Represse a stento l’impulso di alzarsi e versarsi due dita di
scotch dall’armadietto dei liquori. - Dove? –
Finalmente River si concesse un sorriso, ma era un
sorriso che non arrivava agli occhi, pieno di ricordi e offuscato com’era dalla
malinconia che quei pensieri dovevano procurarle. - Da voi. Solo, in un periodo
in cui non possiate capirlo. –
La guardò e Amy ravvisò il riflesso del suo stesso
dolore e qualcosa in più: il tormento dell’esserne causa e conseguenza assieme.
- Una notte, - disse infine, senza distogliere gli
occhi dai suoi. Era Melody e non più River a parlare ora. - Vi concedo solo
questo. Tornerò a prenderla all’alba. –
*
Ora, sulla porta di una casa che era diventata tale
dopo averla costruita pezzo per pezzo, momento dopo momento e in anni di vita
insieme, Rory si ritrovava a chiedersi se in fondo quei pezzi smarriti per
strada non fossero stati un sacrificio troppo grande, un prezzo troppo alto da
pagare. Guardò River con espressione smarrita, ma lei fortunatamente non lo
stava guardando in quel momento. Studiava il muro crepato – crepe nel muro,
ricordi di un’altra favola – con l’aria di vederci tutt’altro. Gli sembrò
giovane come non mai. Giovane nei modi in quelli che lui, conoscendone il motivo,
sapeva riconoscere in tutto e per tutto come sintomi lampanti di malumore.
Tale madre tale figlia d’altronde.
Quando era tornato in salotto con il tè, aveva
ravvisato i sentori di un litigio da poco sedato e anche se entrambe avevano
minimizzato, a Rory non era occorsa una palla di vetro da veggente per
afferrare come si fossero svolte le cose né perché.
- Devi cercare di capirla, - si ritrovò a dire in
difesa di Amy. - Una situazione del genere, anche a distanza di anni, è
difficile da mandare giù. –
- Per chi non lo è? – River si voltò a scrutarlo.
Nell’ombra del pianerottolo non appariva seccata, ma stranamente esposta, vulnerabile ad una
parola sbagliata. - Credi che per me sia diverso? – Sembrava quasi che temesse
una risposta positiva, che se l’aspettasse, ma Rory scartò con forza
quell’eventualità. Deglutì a vuoto, sforzandosi di non assumere un tono
paternalistico. - No, io credo che tra tutti noi tu sia quella che più si
sforza per far andare le cose nel verso giusto. –
Se anche era stata toccata da quelle parole, River non
lo diede a vedere. Spostò di nuovo lo sguardo, questa volta verso la tromba
delle scale. - Conoscere la storia in anticipo a volte pesa come una condanna,
– considerò.
Rory le posò una mano sulla spalla e River si girò, come
mettendo a fuoco improvvisamente l’ambiente circostante. Le sorrise,
rassicurante, anche se dentro di sé sentiva un altro pezzo staccarsi e
scivolare via, inconsistente se lontano da lui. - A me sembra una maledizione
sapere di non poter fare niente per aiutarti, - ammise. - Durante la mia vita è
capitato spesso che mi sentissi inutile, ma come padre… - si strinse nelle
spalle, - mi sembra di aver fallito su tutti i fronti. –
River coprì la mano che era ancora sulla spalla –
insospettatamente minuta – con la sua. La strinse con dolcezza. - Sei stato un
buon padre per Anthony, - lo consolò. Invece del solito sorriso smaliziato e
spavaldo, quello che gli dedicò era intimo e complice, velato appena, ma non
per questo meno meraviglioso. – E in buona misura anche per me. –
Rory non si curò di nascondere oltre la frustrazione.
- Non nel modo che avrei sperato. –
- Ma nel modo migliore in cui ti è stato concesso, –
ribatté River perentoria.
Rory non poté fare a meno di rivolgere un pensiero
alla bambina che all’interno dell’appartamento stava facendo per la prima e
unica volta un bagno con sua madre e confrontarla alla donna che era a un palmo
di naso da lui. Era un’immagine desolante.
La mente di River probabilmente stava seguendo lo
stesso tipo di pensieri perché nell’allontanarsi gli sembrò turbata come in
poche altre occasioni gli era capitato di vederla. Rory avrebbe voluto
abbracciarla per trattenerla, ma se lo vietò con decisione.
Non sapeva perché, ma quel discorso, con l’addio alla
Melody che non avrebbero mai avuto modo di conoscere, non nel modo in cui
avrebbero voluto perlomeno, in cui era giusto, metteva una nota definitiva, di
risoluzione al tutto che era stata la loro vita fino a quel momento. Era come
l’epilogo di uno dei tanti libri di Amy, solo che con un lieto fine un po’
fuori dalla norma. La sommità della testa con quei ricci improbabili era ancora
ben visibile sulle scale quando la richiamò. River si voltò e Rory sputò le
parole prima di rimangiarsele, come invece in tante altre occasioni aveva
fatto. - Sai qual è la cosa più triste? – domandò. - Il fatto che per te avrò
l’aspetto di un padre solo quando sarò troppo vecchio per esserlo davvero. –
Era una riflessione antica, formulata negli anni e
rielaborata di quando in quando senza che la delusione, non poter fare il padre, non poter essere padre, non potersi dimostrare
degno del padre che aveva avuto e a cui avrebbe voluto degnamente ispirarsi,
diminuisse mai o si mitigasse. Era arrivato alla conclusione che il rimpianto
non si sarebbe affievolito perché come non si può rimpiangere i giorni belli,
specie se sono stati solo una breve illusione o un sogno mai finito perché mai
iniziato, non realmente quantomeno?
Appoggiata alla ringhiera, la mano già sul
Manipolatore del Vortice per programmarlo, River gli indirizzò un’occhiata
insolita, acuta, che Rory non riuscì a decifrare completamente. Annuì come se
avesse capito, in modo greve gli parve, e poi scomparve. Come ogni altra volta,
senza clamore, senza parole di commiato. Nello stile che era suo e al contempo
non lo era perché strascico dell’abito di qualcun altro.
Nella luce fredda di un’alba a prima vista ancora
lontana, ma invece prossima, le stelle sembravano più piccole che mai.
La testa di Melody continuava a voltarsi per guardare
ciò che si era lasciata alle spalle, ogni volta uno sguardo che sembrava
precedere l’ultimo senza mai diventarlo; River invece teneva gli occhi
sull’orizzonte. Il profilo del suo viso però aveva una staticità innaturale,
così come i pugni contratti e le braccia che fendevano l’aria con
determinazione. Quando si allontanarono abbastanza, Melody si voltò per l’ultima
volta e giurò a se stessa che non avrebbe mai dimenticato quello scorcio di
casa, perché sarebbe stato come dimenticare se stessa, o meglio, la parte
migliore di sé. Alle sue spalle c’era e ci sarebbe sempre stata l’immagine di
un palazzo blu stretto tra gli altri,
con un cancelletto di ferro arrugginito, un portone aperto e sulla soglia,
simili a fantasmi evanescenti, le sagome di Rory, un braccio posato attorno
alle spalle di Amy, e di Amy, le nocche premute contro le labbra e un riverbero
di rancore incomprensibile negli occhi a renderglieli cupi.
Già lontana, Melody ripensò all’abbraccio in cui Rory
l’aveva stretta, come se non volesse più lasciarla andare, ai baci colmi di
tenerezza che Amy le aveva dato sulla fronte e sugli occhi chiusi e sul naso,
alla carezza con cui Rory le aveva scompigliato i capelli, al modo in cui
entrambi si erano stretti l’uno all’altra quando lei aveva pigolato il suo
“ciao” e aveva fatto un passo all’indietro per allontanarsi, ma senza avere il
coraggio di fare quello successivo. Loro non avevano detto niente. Rory aveva
risposto al saluto con un cenno teso, Amy invece aveva mosso la mano, ma poi ci
aveva ripensato e se l’era portata al petto, serrata, le unghie di un rosso
scarlatto contro la vestaglia rosa cipria. Dietro i sorrisi forzati e pallidi c’era
la ricerca disperata di forza per quell’estrema prova di coraggio. Ma questo sarebbe arrivata a capirlo anni e
anni più tardi, una vita dopo, e non sarebbe stata Melody a farlo, ma la donna
che sarebbe diventata. Lasciare andare qualcuno che si ama, anche se è per il
suo bene, non è semplicemente difficile, è impossibile.
Ora tutto sembrava un sogno nell’alba imminente, nella
notte che sfumava insieme alle parole bisbigliate come un segreto, come una
favola, come una formula per scacciare via gli spettri e i mostri e gli uomini
neri.
Quando ritornò in sé, Melody percepì tracce di lacrime
secche sulle guance. Si passò con discrezione la manica sugli occhi e tirò su
col naso quanto più silenziosamente poté. La strada era vuota, tutti dormivano
nei loro letti, al sicuro, inconsapevoli. I negozi erano ancora chiusi, tranne
un’edicola e una caffetteria che alzava le saracinesche. Un ragazzo in bici
sfrecciò loro accanto, in mezzo alla strada sgombra di neve, facendo fare voli
acrobatici ai giornali che doveva consegnare. Li lanciava senza rallentare e
senza neppure controllare, con gesti quotidiani, resi automatici dalla lunga
pratica.
- Quei due, Amy e Rory… sono i tuoi genitori, vero? –
domandò d’un tratto Melody.
River non negò, ma neanche assentì. Agli occhi di un adulto
e ancora di più attraverso quelli di un bambino il suo silenzio equivaleva ad una
tacita ammissione.
- Eppure sono troppo giovani per esserlo, – Melody
proseguì ancora.
- Io non ho per niente l’aspetto di una figlia, -
River sorrise con intenzione, come se trovasse nella situazione un che di divertente.
– Direi che siamo pari. -
Questa volta la domanda era più difficile, in qualche
modo delicata. Melody ci mise qualche istante di più a mettere in fila le
parole giuste per porla. - Perché la signora ha pianto? –
- Secondo te? –
Melody rispose d’istinto, automaticamente: - Si piange
solo perché si è tristi. –
- O quando si è molto felici, oppure quando si provano
entrambe le emozioni e non si sa scegliere quale prevalga, - le fece notare
l’altra.
- Lei non sembrava felice. Forse arrabbiata. –
- Sì, - River si lasciò andare ad una risata. - Amy
può dare quell’impressione. Cosa ti è parso di lui invece? –
- È un brav’uomo. –
River le scoccò un’occhiata di sorpresa dall’alto e
annuì distrattamente, ma con l’aria di approvare quanto aveva detto. - Già, lo
è. –
Gli isolati da percorrere sembravano infiniti e Melody
si chiese se tutta la vita le sarebbe parsa così da quel momento in avanti:
come un’immensa strada senza fine, nel silenzio sospeso di una mattinata
invernale.
Si fermarono sotto uno dei tanti olmi dall’aspetto
fragile e rinsecchito che avrebbero dovuto abbellire il marciapiede. River
prese ad armeggiare con lo strano orologio che aveva al polso, calcolando a
mezze labbra formule matematiche. Di tanto in tanto ripeteva parole sconnesse
che per Melody però erano prive di senso. Quando River le disse di aggrapparsi
all’estremità dell’ombrello che avevano preso in prestito dai Pond, Melody
provò una strana sensazione. Non si voltò, anche perché sapeva che erano troppo
lontane e che tutto ciò che avrebbe voluto vedere ormai avrebbe potuto trovarlo
solo tra i ricordi, per di più sotto forma di immagini sfilacciate e poco
chiare.
- Sarebbe bello, - borbottò con imbarazzo, quasi
vergogna, fissandosi le scarpe.
River non distolse gli occhi dal suo strano e grosso
orologio. - Cosa? – chiese, soprappensiero.
- Che quello che ha detto la signora fosse vero. –
Per un attimo River sembrò preoccupata. - Cosa ti ha
detto? –
Melody inspirò a fondo e si costrinse a mantenere
salda la presa attorno all’ombrello. Fissò gli occhi in quelli simili eppure
diversi di River, seria in volto, sentendosi già più grande di quanto non fosse
stata appena poche ore prima. - Che mi amava, - rispose nel tono sicuro di chi è
convinto di quanto afferma, credendoci. - Come nessuno nell’universo e nel
tempo. –
Non lontano, contro l’inferriata di un giardino
privato, si profilava la sagoma familiare di una cabina della polizia. Un’altra
occhiata al Tardis, dopo aver controllato che Melody non guardasse in quella
direzione, e constatò che si fosse deciso ad alzare gli schermi su invisibile,
poi in successione sentì uno strattone e un gemito. Melody si era seduta sul ciglio
del marciapiede. Era piegata in due e si teneva la testa tra le braccia. In
effetti la bambina dava segni di malore e il suo colorito stava virando verso
un inconfondibile verdognolo. Si chinò per tenerle la testa in un gesto
istintivo, ma all’ultimo si rese conto di quanto folle fosse il suo gesto e si
bloccò. Melody ebbe un mancamento e River ringraziò ogni dio esistente che le
cose avessero preso quella piega insperata.
- Presto, prima che la bambina si svegli, - mormorò, rivolta
a nessuno in particolare. Bastò perché chi di dovere capisse. Il Dottore sbucò
dal nulla, ma con l’aria di essere sempre stato lì, osservatore silenzioso e
invisibile, e prese in braccio Melody con delicatezza.
– Ha il tuo naso, - affermò con un sorriso che gli
andava da un orecchio all’altro dopodiché si incamminò con efficienza verso il
Tardis, nel consueto passo svelto e baldanzoso. River dovette correre per
stargli dietro e lo seguì a piedi scalzi, tenendo i tacchi in mano. - Hai
l’occorrente? – gli chiese una volta
raggiunto. Il Dottore non si voltò per risponderle. Entrò nel Tardis e poggiò con
cura la bambina su una coperta già stesa sul pavimento. Solo allora si voltò
per strizzarle l'occhio e tirò una piccola fiala con del liquido rosa dalla
tasca interna della giacca, esibendola come un prestigiatore che tiri fuori il
coniglio dal cilindro.
- Per chi mi prendi? – domandò, fingendosi offeso. Si
chinò su Melody e le accarezzò la fronte.
– Manipolatore del Vortice, - sbuffò in tono di
disapprovazione. – Ecco cosa succede a scegliere metodi di viaggio tanto
barbari. -
– Non tutti hanno la fortuna di poter viaggiare con l’eleganza
di un Signore del Tempo. E comunque, - River gli si inginocchiò accanto, - io
non ho mai subito effetti collaterali. –
Il Dottore spostò lo sguardo da lei a Melody e viceversa
e arcuò le sopracciglia con un’occhiata significativa.
- Oh per l’amor del Cielo! – proruppe River, gli occhi
rivolti al cielo. – Vuoi darti una regolata, per favore? -
- Guastafeste, - brontolò il Dottore, prima di concentrarsi
nuovamente su Melody. Le sollevò il capo, tenendole ferma la nuca e le fece
bere il contenuto della fiala.
- Credi che funzionerà? –
Il Dottore dovette percepire l’ansia nella sua voce
perché non fece alcuna battuta di spirito.
Si strinse nelle spalle, ma aveva la fronte aggrottata
e si sfregava le mani con impazienza, segno di quand’era estremamente eccitato
o nervoso, o entrambe le cose. – Non ci resta che aspettare, – asserì di
slancio.
E lo fecero. Attesero che Melody si svegliasse sulla
panchina nel parco, sola. La videro mettersi a sedere e cominciare a guardarsi
attorno con aria dapprima confusa.
Se non avesse saputo cosa stava facendo, cosa aveva
appena fatto, l’espressione sul volto della bambina sarebbe stata decisamente
buffa e l’avrebbe fatta sorridere. River però non sorrise. Aveva appena rubato
l’ultimo ricordo felice ad una bambina, l’unico ricordo felice della sua
infanzia – infanzia ora finita, tradita una volta di più nella sua innocenza - e
per quanto fosse necessario, niente avrebbe potuto farla sentire meno
colpevole.
– Mi dispiace. – Il Dottore fece una smorfia. – Ma era
necessario. Starà bene, vedrai. – Sapeva quanto lei che dispiacersi non era
abbastanza, non era un antidoto all’ingiustizia o agli errori una volta che se
ne commetteva uno, che fosse a fin di bene o meno. - Lo so, - rispose River, -
ma ora non sta bene e sarà così per un pezzo prima che ritorni ad esserlo. – Si
sfiorò il polso con il Manipolatore, carezzandolo assorta. – Cosa mi hai fatto
bere comunque? –
Il Dottore sorrise, ma senza tracce di allegria. – Era
un distillato preparato con pelle del Verme della Memoria. Gliene ho fatto
assumere abbastanza perché dimentichi le ultime… -
- Otto ore, - concluse River. Il Dottore annuì e
sospirò. Si sporse per darle un bacio sulla tempia e si spostò alle sue spalle.
Scrocchiò le dita e poi cominciò a sfregare con sicurezza la pelle tra le
scapole, sciogliendo i nodi provocati dalla tensione.
River chiuse gli occhi e si sforzò di non pensare a
nulla in particolare. Pensò di esserci riuscita, ma era stata una giornata lunga,
a tratti interminabile, e le parole che qualcuno le aveva rivolto, che aveva
sempre creduto di aver sognato nella sua infanzia, ora le tornarono alla mente.
Riaffiorarono da un nulla profondo, fatto di abbracci creduti immaginari,
frutti della fantasia fervida di una bambina sola, sempre in guerra col mondo
intero. Parole d’amore, di speranza, di promesse. Un sogno rievocato e una vita
intera scandita da passi determinanti, decisivi nella strada da seguire.
Memorie di una realtà fragile come un sogno, altrettanto fallace e incantevole.
Gli occhi di lui riflettevano le stelle in un cielo che anche così,
illuminato a giorno, serviva a contenerle, impercettibili a occhio nudo. Le
nascondeva alla vista per quando sarebbero state pronte a splendere pienamente,
con la loro bellezza cruda e vivida che scioglieva il cuore, lo faceva ardere
di desiderio e passione. La smania e il tormento della voglia di sapere e
conoscere, senza averne mai abbastanza.
- Guarda in alto, Melody Pond, - aveva detto il Dottore. - Guarda le stelle.
Cosa pensi di loro? Cosa ti attrae? Per te hanno un solo significato adesso:
l’ignoto, il futuro, ma un giorno, presto o tardi, un giorno saranno tutta la
tua vita. –