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Autore: Ruta    18/03/2013    2 recensioni
- Credi nelle favole, Melody perché è tutto ciò a cui potrai aggrapparti. Sarà dura. Non ho intenzione di mentirti. A volte ti sentirai sola e spaventata e in quei casi probabilmente non verrà nessuno ad aiutarti. Non ancora. Un giorno però non sarai più sola e l’attesa, la tristezza, tutto il tempo trascorso a pregare in qualcosa di meglio… ne sarà valsa la pena. Aspettare qualcosa di impossibile e meraviglioso è sempre una buona scelta, ma richiede coraggio. La domanda che ti pongo è: tu ne hai abbastanza? –
Una notte di stelle, una notte soltanto per dimenticare e un'altra per ricordare. La storia di come inizia e finisce la maledizione di Melody Pond. Il futuro che è passato e il passato che è futuro.
[Spoiler per chi non segue la programmazione inglese, nè ha ancora visto la settima stagione, in particolare l'episodio 7x05]
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amy Pond, Doctor - 11, River Song, Rory Williams
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Un atto di fede

Note esplicative: Ritengo che siano necessarie, considerata la storia che ho deciso di raccontare, ma soprattutto i tempi e i luoghi che ho scelto come sfondo. Per una che vede e rivede gli episodi sino a recitare le battute in inglese – complice non indifferente il fatto che io adori, adori le voci originali quasi più di quelle dei doppiatori italiani – che i Pond siano approdati definitivamente nella New York del ’39 non può essere mera coincidenza, specie se si ricordano gli ultimi minuti dell’indimenticabile “L’allunaggio”. Da questa considerazione, fatta mesi fa con mia sorella alla quinta o sesta visione della puntata 7x05, è nata un’assurda quanto strampalata ipotesi su come Melody sia effettivamente arrivata dall’orfanotrofio a Leadworth e così via. E sì, lo so, Melody stessa, o meglio Mels dice di aver impiegato anni a trovarli, ma perché, mi sono detta, perché non regalare alla Melody bambina quanto a quella adulta un ricordo, una possibilità?
Perché non dare ai Pond l’occasione di essere davvero dei genitori?
Il tutto è ambientato nel dicembre del 1969. Per Amy e Rory sono trascorsi trent’anni dalla 7x05 (in cui hanno poco più di trent’anni), quindi vanno entrambi per la sessantina.
I personaggi di Rory ed Amy ho cercato di renderli più maturi, meno avventati diciamo. Se risultano OOC, nonostante i miei ovvi buoni propositi in merito, è anche per quello quindi. Per quanto riguarda la linea temporale del Dottore invece, che viaggi ancora saltuariamente con i Pond o invece anche per lui ci sia già stato l’addio definitivo, scegliete voi l’opzione che più vi aggrada.
Un’ultima nota sul comportamento adottato da Melody. Molti potrebbero trovare quantomeno strano che una bambina segua uno sconosciuto così di buon grado. Il fatto è che Melody si fida a pelle di River – e ma va’, ci sta anche direi, si fida di se stessa xD – e gli ultimi mesi, da quando è scappata dall’orfanotrofio all’incontro con River, li ha vissuti teoricamente per strada, da novella Oliver Twist per intenderci (sempre secondo mie personalissime congetture).
Uhm, credo che sia tutto più o meno. Nella mia testa suonava più lungo e confuso e forse sto dimenticando qualcosa, ma nel caso basta chiedere, giusto ;)?
Buona lettura e alla prossima, un abbraccio!


 

Mentre la infilava nel letto e le rimboccava le coperte, Amy appariva nervosa. Il sorriso giocondo con cui le aveva lavato i capelli e aveva cantato una sciocca canzoncina intanto che le infilava un pigiama troppo grande per lei era evaporato come neve al sole. Si massaggiava i polsi come se le dolessero le articolazioni e lanciava sguardi inquieti alla finestra, come se qualcosa al di fuori incombesse su di loro. Aveva continuato con quel comportamento per poco, il tempo necessario perché Rory le poggiasse le mani sulle spalle e si chinasse su di lei a sussurrarle brevemente parole tranquillizzanti. Amy aveva annuito e di colpo le rughe sulla fronte non erano più state provocate dal dubbio, ma dalla sicurezza di una decisione presa sul momento.
Aveva fatto un respiro profondo e poi l’aveva guardata negli occhi, sedendosi sul bordo del letto.

- Ascolta, Melody, è bene che tu lo sappia. Tra poche ore la donna che ti ha portato qui verrà a prenderti. –
- Perché? –
La sua voce alle sue stesse orecchie era parsa turbata e peggio: ferita.
Amy non aveva distolto lo sguardo e pur se colpevole, insieme a quello di Rory in piedi dietro di lei, serviva a comunicare anche qualcos’altro che lei sul momento si era rifiutata di accettare. Esprimeva puro dolore. Le mani di Rory, ancora ad indugiare sulle spalle delle moglie, gliele avevano strette con rinnovato vigore, come a volergliene trasmettere un pizzico. - Perché per quanto lo desideriamo, non possiamo tenerti con noi, - aveva spiegato Amy, con una pacatezza che Melody aveva intuito che si fosse imposta. - Ne va del tuo futuro. –
- Tutti mi parlano del mio futuro, - aveva replicato Melody con rabbia e veemenza,- come se fosse già deciso, come se io non avessi scelta. Nessuno si preoccupa del presente, di me. Io non voglio crescere. Non voglio avere questo aspetto. Quello che voglio è solo una famiglia. –
Amy aveva scambiato un’occhiata con Rory prima di chinarsi su di lei e stringerle le mani con tanta forza da farle male. - Quello che vuoi è essere libera di scegliere la persona che diventerai. Ed è quanto ti stiamo regalando, Melody, anche se farlo ci spezza il cuore. –
A questo Melody non aveva risposto, troppo arrabbiata e delusa. Dopo una breve pausa Amy aveva proseguito: - Ascolta. L’unica cosa che posso dirti, l’unico consiglio che posso darti è questo: trova Amelia Pond. Sarà una buona amica per te o almeno proverà ad esserlo. –
- Chi è? –
- È me da giovane, avanti di quarant’anni da oggi. –
- Ma è assurdo, – aveva sbottato Melody.
Amy e Rory avevano sorriso contemporaneamente. - Quasi quanto un uomo che muore due volte o una ragazza che aspetta duemila anni. Tu credici lo stesso. Credi nelle favole, Melody perché è tutto ciò a cui potrai aggrapparti. Sarà dura. Non ho intenzione di mentirti. A volte ti sentirai sola e spaventata e in quei casi probabilmente non verrà nessuno ad aiutarti. Non ancora. Un giorno però non sarai più sola e l’attesa, la tristezza, tutto il tempo trascorso a pregare in qualcosa di meglio… ne sarà valsa la pena. Aspettare qualcosa di impossibile e meraviglioso è sempre una buona scelta, ma richiede coraggio. La domanda che ti pongo è: tu ne hai abbastanza? –
Gli occhi luminosi di Amy promettevano di sì e Melody si era fidata. Credere nei suoi genitori era tutto quello che le sarebbe rimasto di loro per molti anni a venire. 
Un atto di fede, puro e semplice.

 

 

 


Un atto di fede

 


New York, Manhattan, dicembre 1969

 

Faceva freddo. Tanto freddo. La neve fioccava lenta intorno a lei e – le sembrava – anche dentro. Se non avesse avuto le mani e i piedi gelati, avrebbe pensato che fosse quasi bello.
Il vicolo puzzava di rancido, non lontano c’erano un cassonetto dell’immondizia e uno scolo della rete fognaria. L’unico lampione creava sull’asfalto una polla di luce giallastra. Si tastò il viso alla ricerca di novità o stranezze. Cose come barba o un occhio di troppo (sapeva che imprevisti del genere potevano capitare, a volte, se si peccava di poca concentrazione); fortunatamente non ne trovò. Sentiva la testa pesante, pulsava quasi. La mosse in avanti e nel farlo le sue dita incontrarono qualcosa di lungo e ruvido. Ci mise un po’ a capire che fossero capelli. I suoi. Scuri e ricci, crespi, non più rossi.
E la pelle poi. Nera, come il carbone, le ombre sui muri, il cielo attorno alle stelle di notte, gli incubi.
I palmi invece erano più rosa che mai.
Era viva. Accolse il pensiero con gioia, come un regalo.

Viva, viva, viva. Anche se faceva freddo, anche se non aveva idea di dove fosse – sapeva solo quel che vedeva e cioè un posto buio e dall’odore sgradevole, da qualche parte nei bassifondi di Manhattan –, lei era viva. Doveva trovare un riparo, mettersi al sicuro, muoversi. Erano queste le priorità.
Melody invece allargò le braccia e chiuse gli occhi, con un largo sorriso di felicità a farsi strada e aderire alle labbra. Cominciò a girare, girare, girare. La neve le cadeva direttamente sul viso rivolto verso l’alto, come pioggia o lacrime. Al contatto con la pelle si scioglieva subito. Non sentiva quasi più il freddo né il vuoto. Presto però la testa cominciò a pulsare più forte, le orecchie a ronzarle. Cadde a terra, nella neve sporca, con un tonfo e una risata che riecheggiò acuta nel silenzio circostante. Alle sue stesse orecchie suonò simile a un singhiozzo.
Riaprì gli occhi – chissà se anche quelli erano neri o piuttosto marroni? -; scoprì che le bruciavano. Ci passò la manica sopra, poi si rialzò, spolverandosi la gonna.
Fu allora che la vide: la donna nell’angolo. Indossava un soprabito scuro, tacchi di un rosso sgargiante che sfidavano ogni legge di gravità. Erano distanti un paio di metri e la fissava. Occhi scintillanti nella penombra.
A giudicare dall’espressione e dalla sua posizione – appoggiata contro il muretto di mattoni di un caseggiato – doveva essere lì già da un po’.
Melody mosse d’istinto un passo all’indietro, preparandosi alla fuga.
La donna non batté ciglio. Si limitò a ridacchiare piano, quasi con gentilezza, come se non volesse farsi sentire. Melody si irritò. Ugualmente non si gettò nella corsa progettata. Perché fuggire? Era solo una donna. Una donna sola, di notte, in un vicolo di periferia e durante una nevicata. Più che paura, provava una cocente, dilagante curiosità.
- Non c’è niente di cui aver paura. –
La sconosciuta lo disse con voce garbata, ma Melody sapeva riconoscere i toni, così come le bugie e quello era lo stesso tono che la donna con un occhio solo era solita usare per raccontarle le storie sull’Uomo che non Moriva, il Dottore malvagio con la sua macchina ruba-sogni.
– Chi sei? – domandò.
La sconosciuta rise ancora, divertita. - Se te lo dicessi non mi crederesti mai, bambina. –
- Questa non è una vera risposta, - ribatté duramente Melody. Aggrottò le sopracciglia. Non sapeva cosa pensare. Quella donna sembrava così strana.  
- E la tua non era una domanda furba, piccola. Se avessi avuto cattive intenzioni, pensi davvero che sarei stata sincera? La curiosità è un peccato pericoloso da accontentare. Questa volta sei perdonata. In fondo avrai modo di imparare. E tempo, di quello ne avrai a bizzeffe, anche se ti sembrerà sempre troppo poco. –
La donna si staccò dal muro e con lentezza fece per accostarsi.
Melody si mise in allerta. - Imparare cosa? –
L’altra sorrise ancora, questa volta con un sorriso che se possibile era ancora più enigmatico del precedente. Tirò le mani fuori dalle tasche del giubbotto e le mise bene in vista, per mostrarle i palmi aperti e disarmati.
- Ad essere magnifica. Ora vieni con me, Pond. – Le tese una mano, invitandola a prenderla e a seguirla. Melody si limitò a scrutarla accigliata, senza accennare movimenti. - Come fai a conoscere il mio nome? –
- Oh, ma io so tutto di te, Melody Pond. Ogni cosa, - rispose la donna con voce improvvisamente morbida e bassa. Sembrava pronta a raccontare una storia da una mille e una notte: magica e piena di mistero, amore, intrighi. Di quelle che tutti sperano di vivere un giorno o l’altro, senza però mai riuscirci. - So che sei scappata da un luogo peggiore della morte e che prima di sei mesi fa non avevi mai messo piede fuori dall’orfanotrofio. So che hai la sensazione di aver visto cose orribili, anche se non le ricordi. E so che sei spaventata, ma che non lo ammetteresti mai. Perché sei orgogliosa, molto orgogliosa e ti senti sola. Hai sempre pensato che il mondo non dovesse essere poi tanto speciale, visto che non potevi vederlo. E così la tua famiglia, se ti aveva abbandonata. Sei triste e arrabbiata e le due cose, specie se combinate, possono rivelarsi un’accoppiata esplosiva. Ora hai avuto un assaggio di libertà e sei decisa a tenertela stretta come puoi. –
Suo malgrado Melody non sapeva se se sentirsi impaurita o affascinata da lei. Con un certo sforzo si costrinse a sollevare il mento per un’ultima risposta tagliente: - Solo perché sai tante cose di me, non capisco perché dovrei seguirti. –
- Hai imparato presto la lezione. Solo… - I denti della donna scintillarono nella penombra in una risata ambigua. I suoi occhi avevano una luce sfuggente. - Non ti avevo detto di metterla in pratica con me. –




*


Dopo aver accettato di seguirla, la donna era parsa in qualche modo sollevata. Non come se non si fosse attesa una resa da parte sua, ma comunque come se non ne fosse stata sicura fino all’ultimo. Ora Melody la seguiva passo passo tra i quartieri sconosciuti di New York, aggrappata saldamente alla cintura del suo soprabito.
Aveva pensato che la sconosciuta l’avrebbe presa per mano, anche per accettarsi che non scappasse, ma così non era stato. Stranamente aveva avuto la sensazione che non volesse essere toccata, non da lei perlomeno. Ad un certo punto, quando le sembrò che avessero camminato per ore e ore e Melody cominciava a sentirsi tutta intirizzita per quanto era stanca, la donna si fermò. Mancò poco che Melody, rintronata com’era dal sonno, non andasse a finirle contro. Invece incespicò nei propri piedi e rischiò di cadere; in ultimo riuscì miracolosamente ad evitare l’impatto con il marciapiede sostenendosi alle sbarre di un cancelletto arrugginito.
Si erano fermate di fronte ad un palazzo, un edificio con un numero imprecisato di piani, di uno strano blu scuro, con una bella scala sul davanti, un vecchio portone di legno e fiori secchi ai davanzali dell’ultimo piano. Melody non sapeva cosa aspettarsi. Certo, una visita data l’ora indecente le sembrava abbastanza seccante, ma se anche si fosse trattato invece di un furto o quant’altro sperava soltanto che lì dove stavano andando ci fossero un divano comodo o anche un pavimento non troppo duro su cui riposare. La donna cominciò a salire le scale e Melody fu strattonata in avanti. Davanti al portone chiuso non bussò, ma si piegò in avanti e prese a tastare gli incastri delle mattonelle sotto i piedi con fare pratico e sicuro. Una era appena più in rilievo rispetto alle altre. La sollevò e ne tirò fuori una piccola chiave. Aprì il portone, rimise tutto in ordine e finalmente entrarono. Suo malgrado Melody era sorpresa, ma tentò di non darlo a vedere con scarsi risultati.
La sconosciuta se ne accorse e le lanciò un’occhiata incuriosita. – Non hai aperto bocca da una mezz’ora a questa parte, - commentò. - Strano, non mi avevi dato l’impressione di essere un topolino silenzioso. –
Melody borbottò qualcosa, ma aveva davvero troppo sonno per fare rimostranze di qualsiasi genere, anche per difendersi da quella che le sembrava una specie di accusa e per di più ingiusta.
Scontatamente, l’appartamento a cui erano dirette era all’ultimo piano e l’ascensore era guasto. Melody salì in silenzio, sentendosi le palpebre pesanti come macigni e i piedi di piombo.
Giunte sul pianerottolo le sembrava di camminare come in un sogno. Ciò nonostante quando la donna bussò, il rumore del campanello servì a risvegliarla in qualche modo. Venne ad aprire un uomo alto e allampanato, intorno alla cinquantina. Non indossava una vestaglia e  il suo pigiama a righe troppo corto sulle caviglie strappò a Melody un involontario sorriso. Aprì la porta sbadigliando e vedendo di chi si trattasse, si stropicciò gli occhi come se non credesse a quanto vedeva.
- River? – boccheggiò alla fine. Si passò una mano tra i capelli brizzolati, sorpreso. - Mio Dio, quanto tempo è passato dall’ultima volta! Era il Ringraziamento di due o tre anni fa? Amy sarà così contenta di vederti! –
Melody impiegò qualche istante per capire che “River” fosse in effetti la sconosciuta donna del vicolo. River rispose al sorriso dell’uomo con uno meno appariscente.
- E tu? Non sei anche tu felice di vedermi? – domandò con sagacia.
L’uomo fece un altro largo sorriso e gli occhi non erano più assonnati, ma svegli e luminosi.
- C’è da chiederlo? –  Con una bracciata spalancò del tutto la porta, invitandole ad entrare e fece loro strada in uno stretto e lungo corridoio d’ingresso, senza darsi pena di controllare che lo seguissero, quasi fossero di casa. Nel frattempo blaterava una tirata sul tempo trascorso: - Di sicuro piangerà. Amy, intendo. Sai, è di lacrima facile ultimamente, ma non farglielo notare se non vuoi ritrovarti con qualche dito in meno. – Qui si voltò ridacchiando e mentre Melody cominciava a chiedersi se questa Amy non fosse un cane o invece una vecchia scorbutica un po’ acida, lo sguardo dell’uomo cadde su di lei.
Melody lo vide sgranare gli occhi e poi riprendersi, lanciando un’occhiata chiaramente confusa a River. - Non avevo notato che… vedo che non sei sola. Questa graziosa signorina chi è? – Si piegò sulle ginocchia per portarsi alla sua stessa altezza e le tese una mano con un sorriso amichevole. - Io mi chiamo Rory Williams, per gli amici Signor Pond, molto piacere. –
Melody gliela strinse. Era calda attorno alla sua che invece era fredda per la lunga marcia. Subito sentì un po’ di quel calore raggiungerla. L’uomo, Rory, le strizzò un occhio e lei sentì le labbra screpolate piegarsi in un sorriso stiracchiato. Stava cominciando a chiedersi se fosse così che ci si sentisse a sapersi benvoluti e aspettati da qualcuno, se fosse quello che provasse la donna di nome River, quando la voce di lei spezzò l’interludio che era venuto a crearsi.
- Lei è Melody. –
Una semplice frase, ma bastò. Non sapeva cosa importasse a quel signore simpatico sapere chi fosse, ma fu come se di colpo una caterva d’acqua ghiacciata fosse caduta loro addosso dal nulla. Lei la sentì propagarsi anche dentro di sé nel momento in cui Rory di colpo staccò le dita dalle sue. Se prima era stata la sorpresa a macchiargli gli occhi, adesso li strabuzzò senza traccia di emozioni.
- Oh, - disse. Una breve pausa, gli occhi vacui e fissati su un punto impreciso dietro di loro e tornò a ripetere “Oh”, quasi non sapesse dire o pensare ad altro.
Dopo un paio di secondi rimise a fuoco il corridoio, sbatté le palpebre e nel riabbassarle, Melody non vi trovò più disorientamento, ma un dispiacere così vivido che per qualche motivo fece male anche a lei. River di fianco sembrava una statua di pietra. Solo la bocca, contorta in una specie di smorfia, mostrava qualcosa, forse amarezza.
Rory si mosse nervosamente sul posto e si massaggiò il collo, decidendo sul da farsi. Il suo sguardo dardeggiava inquieto dall’una all’altra, senza tregua. - Io, ecco… immagino sia il caso che vi accomodiate mentre vado a chiamare Amy. Sì, sedetevi. Metto a bollire un po’ di acqua per il tè nel frattempo. –
Detto questo le mollò lì. Se non fosse stato per River, Melody sarebbe rimasta piantata nel corridoio ad aspettare che tornasse, ma la donna aprì una porta, la più vicina e la trascinò con sé senza troppe storie, che lei lo volesse oppure no. 

  

*

Effettivamente la stanza aveva proprio quello per cui Melody, appena quindici o venti minuti prima, aveva spasimato segretamente: un bel divano e delle poltrone imbottite dall’aria soffice. Anche il pavimento, pieno com’era di tappeti, aveva un aspetto tutt’altro che scomodo. L’unica luce era quella soffusa proveniente da una piccola lampada decorata, ricoperta da uno scialle giallo e sfrangiato. Completavano l’arredamento un basso tavolino pieno di cianfrusaglie, uno scrittoio con una macchina da scrivere, una libreria a muro, quadri e fotografie alle pareti e accatastati in montagnole sparse un po’ ovunque tanti giornali da tappezzarci i muri dell’intera stanza e forse anche dell’ingresso. Tutto sommato una camera vissuta e calda, forse solo un po’ troppo caotica.
Seduta sul divano, Melody stava decidendo se fosse il caso di poggiare la testa su uno dei cuscini e dormicchiare. Ormai era evidente che qualunque fosse l’intento di River, ucciderla fosse l’ultimo dei suoi pensieri. Lanciò un’occhiata alla donna, che intanto si era tolta il soprabito e lo aveva ripiegato sul bracciolo della poltrona. Giocava con un accendino preso dal tavolino e lanciava occhiate divertite al posacenere di cristallo e al portasigarette. 
In quel momento la porta si riaprì con uno schianto e una furia in rosso fece la sua comparsa a passo di carica. Alle sue spalle fece capolino il volto preoccupato di Rory che si passò una mano sul mento e sospirò un “Amy” pieno di sentimento.     
Ora Melody poteva capire la battuta di prima su dita trinciate e quant’altro. Ad una prima occhiata si capiva benissimo che la donna appena entrata appartenesse al genere di persona che odia farsi vedere in lacrime. Amy si rivolse direttamente a River. Le passò davanti senza rivolgerle la minima attenzione e Melody non seppe se sentirsene delusa o invece grata. Si protese, curvandosi su di lei in una posa che voleva essere ostile. Prima ancora che aprisse bocca, però, River le mormorò all’orecchio qualcosa che Melody non sentì da dov’era, ma che dovette funzionare come una specie di incantesimo perché la rabbia di Amy si sgonfiò di botto. Melody non riusciva ad osservarne l’espressione perché le dava le spalle, anche se vedeva chiaramente che erano rigide per la tensione, ma la voce fu un sussurro accorato udibilissimo: - Che razza di scherzo crudele è mai questo? Perché se è un gioco, River, giuro che non te la farò passare liscia. Rory mi ha appena detto che… –
- Non è uno scherzo, madre cara e anche se lo fosse, cosa potresti mai fare? Mi metteresti in punizione? –
Nonostante il tono beffardo, River non sorrideva più, anche lei scura in volto.
Dopo qualche istante Amy lanciò uno sguardo cauto all’indietro, verso di lei. Aveva occhi scuri che si piantarono nei suoi pieni di aspettativa, trepidanti, non poche rughe e capelli spettinati di uno splendido rosso a dispetto di alcuni fili grigi a spezzarne l’uniformità. - È così lei è… - iniziò con la voce distorta da un’emozione a stento contenuta.
River annuì. - Sì. –
Ora i sospiri di Rory non sembravano più tanto diversi da singhiozzi, di quelli che si emettono quando si ingoia involontariamente dell’aria, mentre gli occhi di Amy si facevano lucidi per le lacrime.
Melody invece si sforzò di non sussultare. Nonostante fosse molto più vecchia rispetto alla fotografia che conservava, l’unica immagine di lei che aveva, nonostante le sue labbra non stessero sorridendo e il suo aspetto in quel momento fosse tutto tranne che felice e orgoglioso – era arruffata, il volto recava ancora tracce di irritazione -, nonostante tutto questo Melody la riconobbe al primo sguardo sincero che si scambiarono.

 

*

 
 

La bambina aveva bisogno di un bagno e di farsi una bella dormita, ma prima di questo, di mettere qualcosa sotto i denti. Mentre River forniva informazioni col tono pratico di chi impartisce semplici istruzioni, cose tra l’altro a cui chiunque sarebbe potuto arrivare da sé per averle osservate ad occhio nudo, tutto quello a cui Amy riusciva a pensare erano gli occhi di Melody quando aveva racimolato abbastanza coraggio per affrontarli. Un tempo, anni e anni prima, un tempo di gioventù e viaggi in capo all’universo, d’impazienza febbrile, forse sarebbe corsa al divano e l’avrebbe stritolata in un abbraccio da cui non l’avrebbe più fatta riemergere. O forse no. Forse avrebbe urlato o pianto o sarebbe stata troppo presa dall’emozione per muovere un passo.
Rivide l’espressione di Rory, poco prima, quando aveva proteso la mano verso la figlia. Il modo impercettibile in cui aveva tremato quando Melody l’aveva stretta con semplice fiducia, come un’abitudine, e come lui fosse sembrato tentato di prenderla in braccio nel vederla stare in piedi stentatamente, come di conseguenza avesse adeguato il passo a quello incerto di lei.
Quando mano nella mano, nella manifestazione più comune del rapporto genitore- figlio, Rory le aveva lanciato uno sguardo solidale da sopra la spalla prima di richiudere la porta, Amy era stata tentata di seguirli. Invece aveva serrato le dita attorno alla vestaglia di seta, impedendosi gesti impulsivi.
Passò un minuto a cui seguirono altri, senza che nessuna delle due si azzardasse a parlare.
River si allungò per prendere una delle sue sigarette. L’accese e aspirò il fumo con evidente piacere. Nel farlo i muscoli delle guance le si distesero un po’.
- Melody, - la chiamò. Lei si voltò a guardarla, attendendo che continuasse, ma la verità era che Amy non sapeva come farlo. Sospirò stancamente, osservandosi le mani. Le trovò vecchie e irriconoscibili, coi tendini bene in vista e piccole macchioline scure sempre più numerose, impossibili da nascondere ormai.  - Melody, perché? –
River aspirò di nuovo, con calma. - Perché cosa? –  
- Perché portarla qui e non permetterci di tenerla con noi? Sono troppo vecchia per questo. – Quell’ammissione le trasmise un sapore talmente amaro in bocca che arricciò le labbra per scacciarlo via il più in fretta possibile. - Anni fa avrei potuto sopportarlo, ma adesso… - Amy abbassò la voce, fino a ridurla ad un bisbiglio, - non ci riesco. –
- Perché spiegare quanto sai già? – Non rispose e di fronte al suo silenzio, River ebbe come un moto di disappunto, ma la ruga tra le sopracciglia si spianò presto. Aspirò un’ultima volta e spense il resto della sigaretta. Si sporse in avanti e si ributtò i capelli crespissimi dietro la spalla, accigliata.
- Ebbene, dal momento che lo desideri… Dovrei lasciarla qui, dici, con voi.  – Il tono era implacabile nel presentare l’inesorabilità dei fatti. - Siamo a New York e sono gli anni ’70. Riesci a immaginare il tipo di vita che avrebbe? Che voi potreste offrirle? Non fa parte del suo destino. –
- Il tempo può essere riscritto, – rispose Amy meccanicamente, ma sempre nell’eco testarda di quella che era stata la sicurezza di un tempo.
- Non il suo. Non lo permetterò! – esclamò River con violenza.
- E quindi la porti via. – Le pareva che la fatica appartenesse di diritto alla sua voce, fino a renderla una specie di verso gracchiante. Represse a stento l’impulso di alzarsi e versarsi due dita di scotch dall’armadietto dei liquori. - Dove? –
Finalmente River si concesse un sorriso, ma era un sorriso che non arrivava agli occhi, pieno di ricordi e offuscato com’era dalla malinconia che quei pensieri dovevano procurarle. - Da voi. Solo, in un periodo in cui non possiate capirlo. –
La guardò e Amy ravvisò il riflesso del suo stesso dolore e qualcosa in più: il tormento dell’esserne causa e conseguenza assieme.
- Una notte, - disse infine, senza distogliere gli occhi dai suoi. Era Melody e non più River a parlare ora. - Vi concedo solo questo. Tornerò a prenderla all’alba. –

 


 *

 Spesso, in vita sua, Rory aveva provato la sensazione di perdere dei pezzi. Pezzi di vita, di ricordi, pezzi di se stesso, l’opportunità di essere diverso o piuttosto completo, l’opportunità di scegliere di svoltare a sinistra invece che a destra in un destino già tracciato per lo più.
Ora, sulla porta di una casa che era diventata tale dopo averla costruita pezzo per pezzo, momento dopo momento e in anni di vita insieme, Rory si ritrovava a chiedersi se in fondo quei pezzi smarriti per strada non fossero stati un sacrificio troppo grande, un prezzo troppo alto da pagare. Guardò River con espressione smarrita, ma lei fortunatamente non lo stava guardando in quel momento. Studiava il muro crepato – crepe nel muro, ricordi di un’altra favola – con l’aria di vederci tutt’altro. Gli sembrò giovane come non mai. Giovane nei modi in quelli che lui, conoscendone il motivo, sapeva riconoscere in tutto e per tutto come sintomi lampanti di malumore.

Tale madre tale figlia d’altronde.
Quando era tornato in salotto con il tè, aveva ravvisato i sentori di un litigio da poco sedato e anche se entrambe avevano minimizzato, a Rory non era occorsa una palla di vetro da veggente per afferrare come si fossero svolte le cose né perché.
- Devi cercare di capirla, - si ritrovò a dire in difesa di Amy. - Una situazione del genere, anche a distanza di anni, è difficile da mandare giù. –
- Per chi non lo è? – River si voltò a scrutarlo. Nell’ombra del pianerottolo non appariva seccata,  ma stranamente esposta, vulnerabile ad una parola sbagliata. - Credi che per me sia diverso? – Sembrava quasi che temesse una risposta positiva, che se l’aspettasse, ma Rory scartò con forza quell’eventualità. Deglutì a vuoto, sforzandosi di non assumere un tono paternalistico. - No, io credo che tra tutti noi tu sia quella che più si sforza per far andare le cose nel verso giusto. –
Se anche era stata toccata da quelle parole, River non lo diede a vedere. Spostò di nuovo lo sguardo, questa volta verso la tromba delle scale. - Conoscere la storia in anticipo a volte pesa come una condanna, – considerò.  
Rory le posò una mano sulla spalla e River si girò, come mettendo a fuoco improvvisamente l’ambiente circostante. Le sorrise, rassicurante, anche se dentro di sé sentiva un altro pezzo staccarsi e scivolare via, inconsistente se lontano da lui. - A me sembra una maledizione sapere di non poter fare niente per aiutarti, - ammise. - Durante la mia vita è capitato spesso che mi sentissi inutile, ma come padre… - si strinse nelle spalle, - mi sembra di aver fallito su tutti i fronti. –
River coprì la mano che era ancora sulla spalla – insospettatamente minuta – con la sua. La strinse con dolcezza. - Sei stato un buon padre per Anthony, - lo consolò. Invece del solito sorriso smaliziato e spavaldo, quello che gli dedicò era intimo e complice, velato appena, ma non per questo meno meraviglioso. – E in buona misura anche per me. –
Rory non si curò di nascondere oltre la frustrazione. - Non nel modo che avrei sperato. –
- Ma nel modo migliore in cui ti è stato concesso, – ribatté River perentoria.
Rory non poté fare a meno di rivolgere un pensiero alla bambina che all’interno dell’appartamento stava facendo per la prima e unica volta un bagno con sua madre e confrontarla alla donna che era a un palmo di naso da lui. Era un’immagine desolante.
La mente di River probabilmente stava seguendo lo stesso tipo di pensieri perché nell’allontanarsi gli sembrò turbata come in poche altre occasioni gli era capitato di vederla. Rory avrebbe voluto abbracciarla per trattenerla, ma se lo vietò con decisione.
Non sapeva perché, ma quel discorso, con l’addio alla Melody che non avrebbero mai avuto modo di conoscere, non nel modo in cui avrebbero voluto perlomeno, in cui era giusto, metteva una nota definitiva, di risoluzione al tutto che era stata la loro vita fino a quel momento. Era come l’epilogo di uno dei tanti libri di Amy, solo che con un lieto fine un po’ fuori dalla norma. La sommità della testa con quei ricci improbabili era ancora ben visibile sulle scale quando la richiamò. River si voltò e Rory sputò le parole prima di rimangiarsele, come invece in tante altre occasioni aveva fatto. - Sai qual è la cosa più triste? – domandò. - Il fatto che per te avrò l’aspetto di un padre solo quando sarò troppo vecchio per esserlo davvero. –
Era una riflessione antica, formulata negli anni e rielaborata di quando in quando senza che la delusione, non poter fare il padre, non poter essere padre, non potersi dimostrare degno del padre che aveva avuto e a cui avrebbe voluto degnamente ispirarsi, diminuisse mai o si mitigasse. Era arrivato alla conclusione che il rimpianto non si sarebbe affievolito perché come non si può rimpiangere i giorni belli, specie se sono stati solo una breve illusione o un sogno mai finito perché mai iniziato, non realmente quantomeno?
Appoggiata alla ringhiera, la mano già sul Manipolatore del Vortice per programmarlo, River gli indirizzò un’occhiata insolita, acuta, che Rory non riuscì a decifrare completamente. Annuì come se avesse capito, in modo greve gli parve, e poi scomparve. Come ogni altra volta, senza clamore, senza parole di commiato. Nello stile che era suo e al contempo non lo era perché strascico dell’abito di qualcun altro.

 
 

 *

 

Era un giorno qualsiasi di dicembre quando Melody Pond disse addio a Rory e Amelia Williams.
Nella luce fredda di un’alba a prima vista ancora lontana, ma invece prossima, le stelle sembravano più piccole che mai.
La testa di Melody continuava a voltarsi per guardare ciò che si era lasciata alle spalle, ogni volta uno sguardo che sembrava precedere l’ultimo senza mai diventarlo; River invece teneva gli occhi sull’orizzonte. Il profilo del suo viso però aveva una staticità innaturale, così come i pugni contratti e le braccia che fendevano l’aria con determinazione. Quando si allontanarono abbastanza, Melody si voltò per l’ultima volta e giurò a se stessa che non avrebbe mai dimenticato quello scorcio di casa, perché sarebbe stato come dimenticare se stessa, o meglio, la parte migliore di sé. Alle sue spalle c’era e ci sarebbe sempre stata l’immagine di un palazzo blu stretto tra gli  altri, con un cancelletto di ferro arrugginito, un portone aperto e sulla soglia, simili a fantasmi evanescenti, le sagome di Rory, un braccio posato attorno alle spalle di Amy, e di Amy, le nocche premute contro le labbra e un riverbero di rancore incomprensibile negli occhi a renderglieli cupi.
Già lontana, Melody ripensò all’abbraccio in cui Rory l’aveva stretta, come se non volesse più lasciarla andare, ai baci colmi di tenerezza che Amy le aveva dato sulla fronte e sugli occhi chiusi e sul naso, alla carezza con cui Rory le aveva scompigliato i capelli, al modo in cui entrambi si erano stretti l’uno all’altra quando lei aveva pigolato il suo “ciao” e aveva fatto un passo all’indietro per allontanarsi, ma senza avere il coraggio di fare quello successivo. Loro non avevano detto niente. Rory aveva risposto al saluto con un cenno teso, Amy invece aveva mosso la mano, ma poi ci aveva ripensato e se l’era portata al petto, serrata, le unghie di un rosso scarlatto contro la vestaglia rosa cipria. Dietro i sorrisi forzati e pallidi c’era la ricerca disperata di forza per quell’estrema prova di coraggio. Ma questo sarebbe arrivata a capirlo anni e anni più tardi, una vita dopo, e non sarebbe stata Melody a farlo, ma la donna che sarebbe diventata. Lasciare andare qualcuno che si ama, anche se è per il suo bene, non è semplicemente difficile, è impossibile.
Ora tutto sembrava un sogno nell’alba imminente, nella notte che sfumava insieme alle parole bisbigliate come un segreto, come una favola, come una formula per scacciare via gli spettri e i mostri e gli uomini neri.
Quando ritornò in sé, Melody percepì tracce di lacrime secche sulle guance. Si passò con discrezione la manica sugli occhi e tirò su col naso quanto più silenziosamente poté. La strada era vuota, tutti dormivano nei loro letti, al sicuro, inconsapevoli. I negozi erano ancora chiusi, tranne un’edicola e una caffetteria che alzava le saracinesche. Un ragazzo in bici sfrecciò loro accanto, in mezzo alla strada sgombra di neve, facendo fare voli acrobatici ai giornali che doveva consegnare. Li lanciava senza rallentare e senza neppure controllare, con gesti quotidiani, resi automatici dalla lunga pratica.
- Quei due, Amy e Rory… sono i tuoi genitori, vero? – domandò d’un tratto Melody.
River non negò, ma neanche assentì. Agli occhi di un adulto e ancora di più attraverso quelli di un bambino il suo silenzio equivaleva ad una tacita ammissione. 
- Eppure sono troppo giovani per esserlo, – Melody proseguì ancora.
- Io non ho per niente l’aspetto di una figlia, - River sorrise con intenzione, come se trovasse nella situazione un che di divertente. – Direi che siamo pari. - 
Questa volta la domanda era più difficile, in qualche modo delicata. Melody ci mise qualche istante di più a mettere in fila le parole giuste per porla. - Perché la signora ha pianto? –
- Secondo te? –
Melody rispose d’istinto, automaticamente: - Si piange solo perché si è tristi. –
- O quando si è molto felici, oppure quando si provano entrambe le emozioni e non si sa scegliere quale prevalga, - le fece notare l’altra.
- Lei non sembrava felice. Forse arrabbiata. –
- Sì, - River si lasciò andare ad una risata. - Amy può dare quell’impressione. Cosa ti è parso di lui invece? –
- È un brav’uomo. –
River le scoccò un’occhiata di sorpresa dall’alto e annuì distrattamente, ma con l’aria di approvare quanto aveva detto. - Già, lo è. –
Gli isolati da percorrere sembravano infiniti e Melody si chiese se tutta la vita le sarebbe parsa così da quel momento in avanti: come un’immensa strada senza fine, nel silenzio sospeso di una mattinata invernale.
Si fermarono sotto uno dei tanti olmi dall’aspetto fragile e rinsecchito che avrebbero dovuto abbellire il marciapiede. River prese ad armeggiare con lo strano orologio che aveva al polso, calcolando a mezze labbra formule matematiche. Di tanto in tanto ripeteva parole sconnesse che per Melody però erano prive di senso. Quando River le disse di aggrapparsi all’estremità dell’ombrello che avevano preso in prestito dai Pond, Melody provò una strana sensazione. Non si voltò, anche perché sapeva che erano troppo lontane e che tutto ciò che avrebbe voluto vedere ormai avrebbe potuto trovarlo solo tra i ricordi, per di più sotto forma di immagini sfilacciate e poco chiare.
- Sarebbe bello, - borbottò con imbarazzo, quasi vergogna, fissandosi le scarpe.  
River non distolse gli occhi dal suo strano e grosso orologio. - Cosa? – chiese, soprappensiero.
- Che quello che ha detto la signora fosse vero. –
Per un attimo River sembrò preoccupata. - Cosa ti ha detto? –
Melody inspirò a fondo e si costrinse a mantenere salda la presa attorno all’ombrello. Fissò gli occhi in quelli simili eppure diversi di River, seria in volto, sentendosi già più grande di quanto non fosse stata appena poche ore prima. - Che mi amava, - rispose nel tono sicuro di chi è convinto di quanto afferma, credendoci. - Come nessuno nell’universo e nel tempo. –

 

 
*

 
Leadworth, 1996

 

 

 Quando comparvero nel parco di Leadworth, River perlustrò l’area con lo sguardo.  
Non lontano, contro l’inferriata di un giardino privato, si profilava la sagoma familiare di una cabina della polizia. Un’altra occhiata al Tardis, dopo aver controllato che Melody non guardasse in quella direzione, e constatò che si fosse deciso ad alzare gli schermi su invisibile, poi in successione sentì uno strattone e un gemito. Melody si era seduta sul ciglio del marciapiede. Era piegata in due e si teneva la testa tra le braccia. In effetti la bambina dava segni di malore e il suo colorito stava virando verso un inconfondibile verdognolo. Si chinò per tenerle la testa in un gesto istintivo, ma all’ultimo si rese conto di quanto folle fosse il suo gesto e si bloccò. Melody ebbe un mancamento e River ringraziò ogni dio esistente che le cose avessero preso quella piega insperata.
- Presto, prima che la bambina si svegli, - mormorò, rivolta a nessuno in particolare. Bastò perché chi di dovere capisse. Il Dottore sbucò dal nulla, ma con l’aria di essere sempre stato lì, osservatore silenzioso e invisibile, e prese in braccio Melody con delicatezza.
– Ha il tuo naso, - affermò con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro dopodiché si incamminò con efficienza verso il Tardis, nel consueto passo svelto e baldanzoso. River dovette correre per stargli dietro e lo seguì a piedi scalzi, tenendo i tacchi in mano. - Hai l’occorrente? –  gli chiese una volta raggiunto. Il Dottore non si voltò per risponderle. Entrò nel Tardis e poggiò con cura la bambina su una coperta già stesa sul pavimento. Solo allora si voltò per strizzarle l'occhio e tirò una piccola fiala con del liquido rosa dalla tasca interna della giacca, esibendola come un prestigiatore che tiri fuori il coniglio dal cilindro.
- Per chi mi prendi? – domandò, fingendosi offeso. Si chinò su Melody e le accarezzò la fronte.
– Manipolatore del Vortice, - sbuffò in tono di disapprovazione. – Ecco cosa succede a scegliere metodi di viaggio tanto barbari. -
– Non tutti hanno la fortuna di poter viaggiare con l’eleganza di un Signore del Tempo. E comunque, - River gli si inginocchiò accanto, - io non ho mai subito effetti collaterali. –
Il Dottore spostò lo sguardo da lei a Melody e viceversa e arcuò le sopracciglia con un’occhiata significativa.
- Oh per l’amor del Cielo! – proruppe River, gli occhi rivolti al cielo. – Vuoi darti una regolata, per favore? -
- Guastafeste, - brontolò il Dottore, prima di concentrarsi nuovamente su Melody. Le sollevò il capo, tenendole ferma la nuca e le fece bere il contenuto della fiala.
- Credi che funzionerà? –
Il Dottore dovette percepire l’ansia nella sua voce perché non fece alcuna battuta di spirito.
Si strinse nelle spalle, ma aveva la fronte aggrottata e si sfregava le mani con impazienza, segno di quand’era estremamente eccitato o nervoso, o entrambe le cose. – Non ci resta che aspettare, – asserì di slancio.
E lo fecero. Attesero che Melody si svegliasse sulla panchina nel parco, sola. La videro mettersi a sedere e cominciare a guardarsi attorno con aria dapprima confusa.
Se non avesse saputo cosa stava facendo, cosa aveva appena fatto, l’espressione sul volto della bambina sarebbe stata decisamente buffa e l’avrebbe fatta sorridere. River però non sorrise. Aveva appena rubato l’ultimo ricordo felice ad una bambina, l’unico ricordo felice della sua infanzia – infanzia ora finita, tradita una volta di più nella sua innocenza - e per quanto fosse necessario, niente avrebbe potuto farla sentire meno colpevole.
– Mi dispiace. – Il Dottore fece una smorfia. – Ma era necessario. Starà bene, vedrai. – Sapeva quanto lei che dispiacersi non era abbastanza, non era un antidoto all’ingiustizia o agli errori una volta che se ne commetteva uno, che fosse a fin di bene o meno. - Lo so, - rispose River, - ma ora non sta bene e sarà così per un pezzo prima che ritorni ad esserlo. – Si sfiorò il polso con il Manipolatore, carezzandolo assorta. – Cosa mi hai fatto bere comunque? –
Il Dottore sorrise, ma senza tracce di allegria. – Era un distillato preparato con pelle del Verme della Memoria. Gliene ho fatto assumere abbastanza perché dimentichi le ultime… -
- Otto ore, - concluse River. Il Dottore annuì e sospirò. Si sporse per darle un bacio sulla tempia e si spostò alle sue spalle. Scrocchiò le dita e poi cominciò a sfregare con sicurezza la pelle tra le scapole, sciogliendo i nodi provocati dalla tensione.
River chiuse gli occhi e si sforzò di non pensare a nulla in particolare. Pensò di esserci riuscita, ma era stata una giornata lunga, a tratti interminabile, e le parole che qualcuno le aveva rivolto, che aveva sempre creduto di aver sognato nella sua infanzia, ora le tornarono alla mente. Riaffiorarono da un nulla profondo, fatto di abbracci creduti immaginari, frutti della fantasia fervida di una bambina sola, sempre in guerra col mondo intero. Parole d’amore, di speranza, di promesse. Un sogno rievocato e una vita intera scandita da passi determinanti, decisivi nella strada da seguire. Memorie di una realtà fragile come un sogno, altrettanto fallace e incantevole.

 

 

Il Dottore l’aveva adagiata sulla panchina fredda e le aveva sistemato la sciarpa sulla gola, coprendogliela meglio, sorridendo intanto con fare misterioso e affascinante, di chi la sa lunga. Si era curvato sulla panchina e aveva chinato il capo per sfiorarle con labbra gentili la fronte, ma la principessa non si era svegliata nonostante il bacio tiepido del principe. Troppo piccola in effetti. C’erano un tempo e un luogo per ogni cosa, lei avrebbe imparato negli anni, una maledizione che scandiva ogni giorno della sua vita, scagliata su tutto il suo tempo,
il loro.
Gli occhi di lui riflettevano le stelle in un cielo che anche così, illuminato a giorno, serviva a contenerle, impercettibili a occhio nudo. Le nascondeva alla vista per quando sarebbero state pronte a splendere pienamente, con la loro bellezza cruda e vivida che scioglieva il cuore, lo faceva ardere di desiderio e passione. La smania e il tormento della voglia di sapere e conoscere, senza averne mai abbastanza.
- Guarda in alto, Melody Pond, - aveva detto il Dottore. - Guarda le stelle. Cosa pensi di loro? Cosa ti attrae? Per te hanno un solo significato adesso: l’ignoto, il futuro, ma un giorno, presto o tardi, un giorno saranno tutta la tua vita. –


  
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