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Autore: EleRitz96    19/03/2013    0 recensioni
Una lacrima amara le scivolò lungo la guancia e, prima di voltarsi e cominciare a correre verso casa, si maledisse per non essere altrettanto ferma nella sua ideologia: teneva moltissimo alla vita e non si era neppure posta il problema se uccidere fosse giusto. Aveva sempre pensato di doverlo fare. Ora non era più sicura di nulla.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il primo raggio di sole che filtrò attraverso i rametti intrecciati del soffitto, quella mattina, fu lo stesso che svegliò Mitra poggiandosi sulle sue palpebre chiuse. La ragazza aveva dormito poco e male: mancava solo un giorno al Rito ed era agitatissima, come tutti gli altri quindicenni del villaggio di GuanHamaru. Non si sentiva né psicologicamente pronta né abbastanza forte per affrontare una cosa del genere. Come avrebbe potuto uccidere anche uno solo dei coetanei con cui era cresciuta? Stava già tremando, immaginando per la prima volta di essere lei la vittima. Fino a quel momento era sempre riuscita ad incatenare l’idea di morire in un angolo remoto del suo cervello, ma adesso che il pericolo si avvicinava non riusciva a farlo smettere di pulsare. Un mal di testa terribile le attanagliava le tempie e avrebbe voluto fuggire lontano, a mille miglia da quel villaggio infernale!
Tranara, la madre, aveva osservato Mitra per tutta la notte dal suo giaciglio, non riuscendo a prendere sonno. Per colpa del Rito, quella poteva essere la penultima notte passata accanto alla figlia… Scosse il capo con insistenza per allontanare il pensiero: la sua piccola era forte e non sarebbe caduta. No. Ce l’avrebbe fatta. Notò che stava aprendo gli occhi e smise di fissarla, girandosi dall’altra parte: non voleva che la sua bimba sapesse quanto era in ansia.
Mitra si stropicciò gli occhi con il dorso delle mani e si mise a sedere a gambe incrociate. Quando provò ad alzarsi in piedi notò che le ginocchia erano molli e le gambe si rifiutavano di sorreggerla: che brutti scherzi può giocare l’emotività! Fece un respiro profondo e si impose la calma. La mamma sembrava riposare beata. Attraversò la piccola capanna dal pavimento in terra battuta e dalle pareti lignee, uscendo nel calore di un’afosa mattina di inizio Giugno. La luce la abbagliò per un istante, ma poi i suoi occhi si abituarono. Percorse la via tra due file parallele di capanne identiche alla sua e raggiunse il confine del bosco. Non c’era ancora nessuno in giro. Da quel punto, all’ombra degli alberi, gli abitanti di sesso maschile erano tenuti a girare a destra mentre le femmine a sinistra. In questo modo non si rischiava di incontrare osservatori indesiderati, andando a fare i propri bisogni. Mitra seguì il breve sentiero di sinistra e si accovacciò nel luogo consueto. -ciao- l’insicura vocetta proveniva da dietro le sue spalle e la ragazza riconobbe all’istante Jocasta, una vecchia amica dal carattere piuttosto fragile. Quando ebbe finito e si fu sciacquata le mani nel ruscello rispose freddamente -buongiorno-
Stava per andarsene, ma Jocasta la trattenne affondando le dita sottili nella pelle della spalla. I loro sguardi si incrociarono e Mitra ebbe modo di osservare il viso magro della coetanea. Era pallido e sotto gli occhi nocciola spiccavano un paio di spaventose occhiaie, frutto di lunghe notti insonni. La capiva perfettamente, ma non poteva farsi impietosire: aveva mantenuto un tono distaccato e parlato il meno possibile, quella mattina come per l’intero anno, per non rischiare di affezionarsi troppo ai compagni che avrebbe dovuto distruggere durante il Rito. Prima, lei e Jocasta passavano molto tempo insieme lavorando nella risaia di GuanHamaru, si scambiavano confidenze e raccontavano aneddoti divertenti. Ma, avvicinandosi il fatidico e drammatico giorno, avevano cominciato ad allontanarsi. Il loro, come quello di tutti quelli nati lo stesso anno, era un tacito accordo: dovevano essere il più possibile indifferenti gli uni agli altri per avere maggiori chance di uscire vivi da quell’inferno. Perché, allora, quando mancava così poco al Rito, Jocasta aveva deciso di parlarle? Aveva forse in mente qualche strategia o più semplicemente cercava conforto in un’amica che stava attraversando il suo stesso tormento?
Mitra non rispose e rimase immobile a fissarla con aria interrogativa.
-eravamo amiche- cominciò Jocasta tentennante, dondolando sui piedi nudi e sporchi di terra -e volevo solo dirti che domani non ti potrò fare del male-
Era uscita di senno? Si aspettava forse la risposta “anche io”? Oppure stava tendendo una trappola alla vecchia compagna di giochi per renderla più vulnerabile? Mitra non poteva credere alle sue orecchie e, se quelle parole erano sincere, non riusciva a rendersi conto della grandissima forza d’animo di Jocasta nell’ammettere di non essere in grado di fare del male. Punto. Era più forte di lei. Cercò di rimanere impassibile, ma quelle dolci parole la avevano toccata nel profondo. Una lacrima amara le scivolò lungo la guancia e, prima di voltarsi e cominciare a correre verso casa, si maledisse per non essere altrettanto ferma nella sua ideologia: teneva moltissimo alla vita e non si era neppure posta il problema se uccidere fosse giusto. Aveva sempre pensato di doverlo fare. Ora non era più sicura di nulla.
Entrò nella capanna con fretta e sorprese la madre intenta a disporre alcune bacche e un pezzo di pane sul tavolo al centro del monolocale. Era una delle colazioni migliori che la plebe di GuanHamaru potesse permettersi, ma la ragazza era troppo turbata per apprezzarla appieno. La mamma le stampò un lungo bacio sulla guancia e si sedette al tavolo con lei. Provò a sorridere -cosa vuoi fare oggi che hai la giornata libera?-
Prima del Rito, agli sventurati quindicenni era permesso non lavorare. Alcuni si allenavano nella lotta corpo a corpo, in mezzo al fango, altri progettavano improbabili piani di fuga, mentre in pochi si dedicavano all’ozio, navigando nella rassegnazione più totale. Mitra aveva invece da tempo deciso di approfittare della libertà per fare un giro in canoa lungo il fiume Atalu. Voleva raggiungere la cittadella, il quartiere ricco di GuanHamaru, dove risiedevano il Capo, in nove Consiglieri e le loro famiglie. Era veramente curiosa di sapere come se la passavano quei disgraziati! Doveva tuttavia stare attenta a non farsi notare perché la GranLegge proibiva ai popolani di avvicinarsi a quel posto. Avevano forse paura di essere contaminati dalla puzza del lavoro onesto?
-troverò un modo per allenarmi- mentì per tranquillizzare la madre, che altrimenti le avrebbe certamente impedito di mettersi nei guai. La donna fece un mezzo sorriso, che nascondeva una tristezza infinita.
-di solito le mamme raccontano ai figli del proprio Rito, alla vigilia del grande giorno. Vuoi sentire la mia storia? Si? Bene. In realtà non c’è molto da dire. La mia squadra era composta da me, dal ragazzo più alto e robusto del villaggio e da una fanciulla che con le braccia che si ritrovava avrebbe potuto dare del filo da torcere ad un coccodrillo affamato. Ero stata fortunata ed era prevedibile che avremmo distrutto i nostri avversari, tre ragazzi esili e malati. La sorte aveva decisamente giocato a nostro favore. Quando suonò il gong io rimasi impalata e osservai disgustata Teko e Lanega gettarsi sui poveretti. Li stesero con pochi colpi e una volta a terra li massacrarono di botte. Impiegarono un po’ di tempo a ucciderli, mentre io piangevo disperata. Spero che ti capiti lo stesso-
Mitra impallidì. Era la prima volta che sentiva Tranara parlare del suo Rito.
-Teko adesso è il cacciatore di cinghiali?- chiese la ragazza per alleggerire l’argomento.
-si è mantenuto forte- rispose la mamma, prima di abbracciarla e dirigersi alla risaia.

La canoa scivolava leggera sul fiume Atalu e Mitra si chiedeva quanto lontana fosse ancora la cittadella. Non aveva potuto interpellare i pescatori a riguardo, non volendo destare sospetti. Sapeva solo che doveva proseguire verso il mare. La pagaia fendeva l’acqua con silenziosa eleganza e gli alberi proiettavano brevi ombre nei pressi delle sponde. Mitra cercava di stare vicino a quella destra per sfuggire alla corrente centrale. Per un attimo vide il suo riflesso. Era una ragazza di colore, con capelli corti, neri e ricci e con brillanti occhi verdi; questi, insieme al naso sottile e dritto, le conferivano una bellezza rara a GuanHamaru. Il bell’aspetto, per una donna, in quel grande villaggio, era una condanna terribile. Mentre gli uomini si dedicavano alla caccia, le donne coltivavano i campi; quando calava la sera i primi raggiungevano le abitazioni delle seconde per consumare. Esse, per la GranLegge, non potevano rifiutarsi e così rimanevano gravide molto spesso. Le belle donne, poi, per loro sfortuna, erano scelte con più frequenza. Quando i figli nascevano, nessuno conosceva l’identità dei padri, così i bambini crescevano con le madri fino al giorno del Rito. Questo aveva la funzione di dimezzare la popolazione, altrimenti troppo numerosa, e di selezionare gli individui più forti. Attraverso questa atrocità ragazzi e ragazze o morivano o si trasformavano in uomini e donne a tutti gli effetti, trasferendosi in altre capanne e procedendo nel lavoro e nell’accoppiamento per il resto della vita. Che triste sorte!
Dopo quasi un’ora, sulla sponda sinistra, scorse un agglomerato di edifici di pietra. Nella sua vita non aveva visto altro che capanne e quelle strutture imponenti le destarono una grande meraviglia, nonché un doloroso senso di ingiustizia. Durante i mesi invernali, mentre il popolo moriva di freddo e lavorava in condizioni bestiali per loro, il Capo e i Consiglieri se ne stavano al caldo nelle loro case di pietra, isolate dalle intemperie. I nobili rampolli reali inoltre non dovevano passare alcun tipo di Rito e ricevevano una vera e propria istruzione. Mitra aveva una vaga idea di cosa fosse l’istruzione, ma sapeva che imparavano a leggere, a scrivere e a riconoscere i mali, le malattie, e altre cose del mondo, come la geografia e la storia. Erano i soli detentori della cultura. Il loro potere derivava dalla conoscenza della medicina: il popolo li vedeva come dei semidei perché, in caso di bisogno, raggiungevano il quartiere povero e curavano gli abitanti malati. La nostra protagonista invece, che stava legando la canoa ad un albero dopo essere salita sulla sponda dalla parte della cittadella, pensava che fossero degli impostori e che stessero sottoponendo la classe operaia a soprusi ormai troppo evidenti. Ci sarebbe stata presto una ribellione, lo sentiva! Nascosta tra gli alberi, raggiunse il limitare del bosco, che confinava con gli edifici.
Si trovava dietro ad uno di essi e stava spiando attraverso una finestra aperta, quando un ragazzo di nome Tupac, figlio del Consigliere Maggiore, da una terrazza vicina, la avvistò. Capì immediatamente che si trattava di una plebea, ma stette zitto per osservarla meglio… Era bellissima. Sporca e dall’aria sperduta, ma bellissima. La sua pelle scura gli ricordava la cioccolata. Improvvisamente decise che non l’avrebbe denunciata, ma solo spronata ad allontanarsi prima che fosse troppo tardi. Così scese le scale di corsa e si avvicinò silenziosamente a quell’animaletto indifeso -ehi- bisbigliò quando fu abbastanza vicino -non avere paura. Vai via prima che ti veda qualcun altro. Io non farò la spia, lo giuro-
Mitra era stata sorpresa da una voce dolce che le intimava di scappare finché era in tempo. Quando si era voltata aveva visto uno strano fanciullo: aveva qualche anno più di lei, la pelle candida, il corpo lungo e sottile e gli occhi azzurri come il ghiaccio. Non si spaventò più di tanto perché la voce e l’aspetto del misterioso nuovo venuto le suggerivano solo pace e serenità. Ascoltò le sue parole e immediatamente gli credette. A mente lucida non lo avrebbe mai fatto, ma in quella circostanza le pareva la cosa più naturale del mondo.
-vattene- ripeté il ragazzo, con l’aria di chi ha paura che l’interlocutore non capisca la sua lingua, agitando le mani nel gesto di scacciare.
Mitra fece quello che l’angelo le diceva e corse via. Avrebbe voluto correre lontano da tutto, soprattutto dal Rito, ma sapeva che scappare non era la soluzione: al di là di GuanHamaru non c’era niente, solo arido deserto. Mentre sfrecciava tra gli alberi sperando di arrivare sana e salva alla sua capanna il più presto possibile, un ramo strappò il suo braccialetto fatto di fini corde policrome intrecciate.

Qualche ora dopo Tupac lo raccolse e, dopo averlo stretto al petto e annusato, lo indossò al polso sinistro. Non avrebbe mai dimenticato gli occhi verdi e sinceri della ragazza dei bassifondi.
  
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