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Autore: Ruta    20/03/2013    2 recensioni
- Hai rinunciato alle stelle, Rose Tyler. Non potrei mai smettere di amarti, - le diceva sempre.
Rose allora lo baciava, senza sorridere. Entrambi pensando a cosa avessero rinunciato l’uno per l’altra.
- È lo stesso motivo per cui non lo farò mai neanch’io, – si limitava a rispondere.
Genere: Fluff, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Doctor - 10 (human), Rose Tyler
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Skinny


S
kinny love

 

 

 

 

 

 

Amarla è vivere, sentendosi ogni volta morire o sul punto di farlo. In fondo è sempre bastato uno solo dei suoi sorrisi perché lui si arrendesse all’inevitabile.
Amarla è inevitabile, come il fluire dello spazio e del tempo.

 

*

 

John si passò una mano tra i capelli. Li aveva tagliati da poco, erano corti dietro le orecchie e meno indisciplinati, ma davano ancora la stessa impressione, come di insofferenza all’idea di stare al loro posto. Apriva e chiudeva le dita concitatamente, piallava la stoffa dei jeans. Il Dottore! In jeans! Ora Rose poteva dire di aver davvero visto tutto dell’universo. 
- Ho fatto tante cose impossibili. – Nel dirlo lui aveva lo sguardo perso nel vuoto, socchiuso. - Milioni, in effetti. Sposarmi non dovrebbe essere una gran cosa, suppongo. –
Era nervoso. Rose lo intuì dalla fronte aggrottata, dalla luce d’irrequietezza negli occhi scuri, dalle rughe d’espressione che gli si erano formate. John si voltò a guardarla, probabilmente richiamato dall’intensità sfacciata del suo sguardo, e le sorrise senza la minima esitazione. - Lo sarà se sei tu la persona con cui farlo, Rose. Sempre che tu dica di sì, s’intende. – Annuì con fare tutt’altro che convinto. Lei dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere. Si morse l’interno delle guance.
- S’intende, ovvio, – gli fece il verso prima di tirarlo a sé per il bavero della giacca e baciarlo. Il resto è storia. 

 

*

 

- Cosa c’è? Avanti, dimmelo, - John l’ammonì con l’indice e la esortò con un’espressione di buffo avvertimento. - Conosco quell’espressione. –
- Non è niente, ok? – si difese Rose, ponendo le mani davanti a sé come un divisorio. Fece un passo indietro, ma lo sguardo di lui le era sempre addosso, penetrante e insistente. Sbuffò, capitolando. - Solo… - gesticolò ampiamente per indicarlo nella sua interezza. - Tu, in vestaglia. Risveglia vecchi ricordi, tutto qui. –
Rose si strinse nelle spalle, ma sapeva, e così pure John, che la noncuranza era solo un imbroglio ben costruito. E presto o tardi qualcuno l’avrebbe smascherato.

 

*

 

Rose varcò con passo deciso l’ingresso del laboratorio deserto. Era la pausa pranzo e tutti erano alla mensa. O meglio, quasi tutti. Non John che evidentemente sembrava essere dell’avviso – ovviamente errato - che qualunque cosa fosse più importante di azioni basilari come il mangiare o il dormire. Ecco cosa comportava convincere un alieno nel corpo di un umano a vivere come tale. Un mucchio di grattacapi.
- Deve finire, – iniziò senza indugi, arrivando subito al nocciolo della discussione.
John distolse a forza lo sguardo dal microscopio e la soppesò con tranquillità, ma non senza una certa sorpresa nel trovarsela di fianco così all’improvviso.  - Cosa? – domandò gentilmente.
Rose avrebbe voluto mettersi le mani tra i capelli per il nervosismo. - Questa storia degli appuntamenti, – rispose con un tono che sperò essere neutro quanto bastava. Non si aspettava certo un “No, ti supplico, no”, ma almeno “Un per favore ripensaci”? Accidenti.
Invece John batté le palpebre e si grattò il mento, come se dovesse riflettere e ponderare attentamente sulla questione. - D’accordo, - si persuase infine, - se è quello che vuoi, va bene. Solo, - le gettò un’occhiata allusiva, - e non vorrei sembrare scortese facendotelo notare, ma non è stata una tua idea? –
Ora avrebbe volentieri voluto strangolare lui. Rose spostò gli occhi verso il voluminoso blocco di appunti che occupava metà tavolo, quasi prendendo in considerazione l’idea di usarlo come arma impropria.  - Lo so ed era stupida, - sospirò. - Mi dispiace. –
Lui fece un cenno con la testa, come a dire che non vedeva alcun bisogno di scusarsi. - Quindi basta appuntamenti galanti? – richiese a scanso di equivoci.
- Un taglio netto, – annuì Rose.
- Uhm, posso almeno chiederti perché? –
A questo Rose non ere preparata, anche se… beh, c’era da aspettarselo. Insomma, un perché dall’uomo dei mille perché. Non suonava per nulla fuoriposto o stonato.
- Li trovo… snervanti, - confessò, giocando con le proprie dita. - Tutta quella preparazione, lo stress, per non parlare del resto. –
- Mi sembrano ottimi motivi in effetti, anche piuttosto ragionevoli, – riconobbe lui e fece per ritornare al vetrino che stava analizzando.
- E poi… - proseguì Rose con sincerità, - a dirla tutta non mi sentivo me stessa. –
Il viso di John non subì mutamenti, ma le labbra si arricciarono in un sorriso che lei non riuscì ad inquadrare. Esprimeva una e cento altre cose assieme e le dita le pizzicarono per la voglia che aveva di allungarsi e spianare le rughe d’espressione che gli si erano formate attorno agli occhi, per baciarlo. - Oh, questo è un peccato perché, vedi, - lui si curvò verso il suo viso con uno scintillio di furbizia negli occhi scuri,  quasi le avesse letto nel pensiero, - io non mi ero mai sentito più a mio agio con me stesso che in quei momenti. –

 

*

 

Alcune volte è una parola. Altre un’espressione. In entrambi i casi l’emozione che le provoca è talmente vivida e acuta da stordirla. Non riesce ancora ad accettarlo.

 

*

 

- Non è tanto quel che chiedo. – Gli occhi avevano una luce intensa, come al solito, ma non erano allegri né divertiti. Era serio, rifletté Rose, dannatamente serio. Le tese una mano senza voler dare al gesto un valore galante, tutt’altro anzi, e Rose capì cosa intendesse ancora prima che proseguisse con voce morbida e bassa, appena il suono di un respiro alle sue orecchie. Le stava offrendo se stesso e il suo cuore, l’unico che aveva: - Una possibilità. 

 

*

 

- Hai rinunciato alle stelle, Rose Tyler. Non potrei mai smettere di amarti, - le diceva sempre.
Rose allora lo baciava, senza sorridere. Entrambi pensando a cosa avessero rinunciato l’uno per l’altra.
- È lo stesso motivo per cui non lo farò mai neanch’io, – si limitava a rispondere. Era da tempo ormai che avevano scoperto che l’immensità dei sogni poco avesse a che vedere con il viaggiare.

 

*

 

Quando il Dottore era scomparso, nelle orecchie ancora l’eco del suo nome pronunciato da lui, Rose aveva chiuso gli occhi e si era preparata allo schianto, pregando, sperando di sopravvivere.
Pochi secondi durati tanto e tanto di più, quasi un’eternità, poi lo aveva sentito. Un rumore che nessun gabbiano stridente od onda da risacca o folata di vento avrebbe potuto coprire. Pochi secondi di assoluta disperazione dopo i quali di colpo la cabina blu era riapparsa, ancora più blu di quanto ricordasse se possibile, esattamente dove poco prima la proiezione di lui era scomparsa.
Rose aveva ancora la mano stretta a quella di sua madre. La sentì tremare nella sua e gliela strinse con maggiore forza. Entrambe fissarono come intontite la porta chiusa del Tardis, aspettando. Rose avrebbe preferito correre a spalancarla e buttarsi a capofitto all’interno, ma c’era quella mano a trattenerla, salda e calda, la mano, che l’aveva cresciuta, da tranquillizzare. Perché se lui era tornato a prenderla come sperava, com’era giusto che fosse, non c’era alcuna decisione da prendere, opzione da vagliare o considerare e questo Jackie lo sapeva bene.
Poi il Dottore uscì e Rose capì. Si sforzò di sorridere, anche se in realtà avrebbe solo voluto piangere e urlare.
Il Dottore rispose al sorriso, quasi con imbarazzo, come se si vergognasse di farsi vedere da lei in quel modo. Si avvicinò, sfregando i pugni chiusi contro i pantaloni che erano troppo corti alle caviglie. Camminava speditamente, non con le mani in tasca e il passo da piedi spaiati, ma con aria desolata e colpevole e strascicando gli stivaletti sulla sabbia.
Fronte alta, mento strano, troppi capelli, cappello da cowboy e un completo che non era gessato.

Intollerabilmente, dolorosamente diverso. 
Rose inspirò e sciolse con delicatezza la presa stritolatrice di sua madre che, strano ma vero, non la trattenne. Fece un passo in avanti, un secondo e poi un altro, fino a portarsi di fronte al Dottore. Non il suo però. - Sei tornato, – disse. Aveva la lingua come accartocciata, un inceppo, la voce ancora rauca di pianto. 
Il Dottore annuì con fare impacciato. - Non per molto, - rispose. - Non per sempre. Quello che cerchi è qualcosa che non sarò io a darti. –
Rose deglutì e cercò di respirare normalmente. Il suono della sua voce, nuova e sconosciuta e così vivacemente diversa, l’aveva fatta sussultare.
- E chi allora? – Come lui, serrò le mani e si chiese quanto esattamente fosse trascorso nel suo caso. E perché dannazione, perché fosse questo Dottore ad essere arrivato fino a lei, come fosse riuscito laddove perfino per l’altro era stato impossibile. Il Dottore parve leggerle in viso quanto aveva pensato perché si rabbuiò impercettibilmente e fece una smorfia. Sembrò sul punto di dirle qualcosa, ma poi ci ripensò e sospirò. La guardava con nostalgia, ma anche con una felicità talmente spiccata che solo un dolore più grande riusciva a frenare.
- Me, - disse infine, con evidente sforzo. - Un me più giovane per la precisione, nel mio passato che è anche il tuo futuro. È tutto ciò che posso dirti. –
- Infrangeresti qualche stupida legge del tempo altrimenti? – Rose non demorse. 
- Eeesatto! – esclamò lui con vibrante entusiasmo.
L’esuberanza della risposta la fece ridere e alla fine riuscì a imbastire un sorriso reale, sentito. 
- Non sei cambiato, - si convinse Rose, senza riuscire a rallegrarsene però, non del tutto. - Sei sempre lo stesso, solo più… vecchio e strano. –
Spostò lo sguardo verso il Tardis, con un lampo di desiderio a malapena celato. La porta socchiusa lasciava intravedere l’interno, proiettando una vivida luce arancione attorno. - Non smetterà mai di mancarmi, – considerò senza riflettere.
- Cosa? – Il Dottore aveva seguito la direzione del suo sguardo e i suoi occhi, anche se verdi e non più scuri, conservavano lo stesso calore, forse anche maggiore. Era più giovane, sì, ma anche infinitamente vecchio. Infinitamente solo. Rose si chiese quanto avesse visto, sofferto da quando si erano separati. Se poi si erano ritrovati e se sì, cosa fosse successo nel frattempo, perché non fosse lì con lui.
- Viaggiare nel Tardis, stare con te… – l’elenco era troppo lungo per continuarlo così tacque.
Il Dottore sorrise con tenerezza, lo stesso sorriso che lei conosceva e che amava. - Io ti offro molto di più, Rose Tyler, - allungò una mano verso di lei e le accarezzò la guancia con le dita. Delicatamente, come se non credesse a ciò che vedeva. - Il mio genio buono, - le disse con affettuoso orgoglio, - la ragazza che esaudirà il desiderio di un Signore del Tempo. Mi permetterai di vivere l’unica avventura che non avrei mai sperato di avere. Una famiglia. – Aveva un’espressione vulnerabile e stanca e nel prendere la mano tra le sue, nel toccarlo finalmente, Rose rabbrividì. Aveva intuito che fosse un addio e che qualunque cosa fosse successa o dovesse ancora accadere, quello sarebbe stato comunque il loro ultimo incontro, l’addio definitivo a quel Dottore che non era più suo da tanto e troppo tempo.

 

*

 

- Mai guardare indietro. Occhi fissi sull’orizzonte, - John si schiarì la voce e annuì. - Io ero così. Questo è quel che sono stato, ma ora, per la prima volta, mi sembra di poter guardare davvero avanti. Con te. –
Rose gli sfiorò la mano e John si voltò a sorriderle calorosamente, stringendogliela di rimando. Aveva un sorriso da bambino, gli occhi di un uomo che finalmente si concede una speranza, che ci crede. – Rose, ci aspettano giorni meravigliosi e non vedo l’ora che sia domani per cominciare a viverli. Tu no? –

 

*

 

Entrando, Rose sbatté la porta di casa. Era ancora incartata nello scomodo vestito da damigella scelto da sua madre. Si sentiva ridicola, una grossa meringa rosa salmone, per di più anche parecchio stropicciata dopo la corsa in taxi. John però non sembrò badarci. Non si vedevano da un mese e mezzo e il suo sguardo servì a ricordarle con dolorosa precisione ogni istante di ogni giorno, ogni volta che si era voltata per cercarlo e non lo aveva trovato o che aveva pensato di chiamarlo senza trovare mai il coraggio di premere un semplice tasto.   
- Rose… - sospirò John dal vano della finestra. Rose notò che fosse dimagrito ancora. La barba non fatta, le occhiaie e il colorito cadaverico non servivano a renderlo affascinante.
Prese l’ingombrante gonna dell’abito con entrambe le braccia e cominciò a farsi strada nell’appartamento disordinato, scalciando qualsiasi oggetto le finisse tra i piedi o la intralciasse. Si fermò di fronte a lui e gli lanciò un’occhiata furente. - Ci ho provato, ok? – incominciò, già sul piede di guerra. - Ho provato a fare come mi avevi chiesto, a dimenticarti, a lasciarti indietro. Non ci riesco. Semplicemente non posso. –
Da vicino aveva un aspetto perfino peggiore: sembrava uno spaventapasseri. Indossava la maglietta di un famoso gruppo rock, che era troppo larga e che gli pendeva sulle spalle; i capelli sporchi gli spiovevano sulla fronte.
John scosse il capo, rifuggendo con ostinazione il suo sguardo. - Rose, questo non è possibile,- si limitò a dire. - Io non posso. –
Rose assentì, come se lo avesse previsto. - Ho pensato a quello che mi hai detto. In tutti questi mesi non ho fatto altro. Tanti mesi sprecati, John, tempo che avremmo potuto trascorrere così meravigliosamente che ho voglia di tirarti un pugno. –
Gli strappò un sorriso. Aveva le labbra secche e screpolate e probabilmente anche quel semplice movimento doveva procurargli del dolore, ma la guardava in faccia finalmente. - Me lo meriterei, – convenne, serio.
- No, non è vero, - ribatté Rose con un’insolita nota di durezza. - È per questo che ti amo. Menti col sorriso e solo per farmi sentire meglio. –
John si prese la testa tra le mani, tormentato, quasi con disperazione. - Rose, perché non capisci? – domandò con voce soffocata e arrochita dall’amarezza. - Io non ho tempo! –
Rose gli si inginocchiò di fronte. Gli prese con fermezza le mani che erano posate ai lati del viso.
- Hai il mio, – disse risoluta, sollevandogli il capo e lo guardò con dolcezza.
Le loro mani erano ancora unite sulle ginocchia di John. Lui prese ad osservarle, fissandole con un ché di ipnotico. - Non ti renderei felice, non manterrei la promessa, – mormorò flebilmente, come rivolto a stesso.
- Vieni meno alla promessa non provandoci neppure, - gli fece notare Rose, calma. - Il tempo non potrà sembrare abbastanza per te, uomo dello spazio, ma non è qualcosa che tu possa decidere. Non da solo, non più. Tu ed io e i mesi che rimangono, - dichiarò con sicurezza. - Dimmi, vuoi ancora buttare tutto al vento? –

 

*

 

La sua mano è rimasta sola a lungo dopo che lei non c’è stata. Tecnicamente non era la sua mano, tecnicamente lei non è nemmeno mai andata via – non del tutto -, ma ricorda come se fosse sua la sensazione di abbandono. La sua mano vuota. Ora è lì, aperta e in attesa di essere riempita. L’emozione, a volte, è la stessa di allora. È paura?
Forse quella di poter rivivere daccapo l’inferno di perderla.

 

 

 

 

 

 


 
N/A:

Pensavo che non sarei mai riuscita a finire questa “storia”, ma evidentemente in questi giorni devo essere stata visitata di nascosto dal mio genio buono perché non sono riuscita a staccarmene finché non l’ho fatto, concluderla intendo. E dire che marciva in cartella macerando e macerando da non ricordo neppure io quanto. In pratica erano solo dialoghi appena imbastiti e rimetterci le mani, immaginare ogni scena è stato così semplice che si è rivelato puro piacere. Scrivere di loro lo è: piacere allo stato puro.
Sono spaccati quotidiani, alcuni what if, come l’incontro tra Eleven e Rose (chi, insomma, non ha mai e sottolineo e ribadisco il mai, associato le crepe nell’universo alle fessure tra gli universi paralleli? Really, sono l’unica? Spero vivamente di no xD) ambientato verso la fine della sesta stagione, in pratica prima che lui “vada a morire”. Un addio alle persone amate… ricorda qualcosa?
Il penultimo pezzo invece o forse l’ultimo, non so se considerare quelle tre o quattro frasi buttate tra un paragrafo e l’altro come stralci di storia a sé stanti, è un “E se” grande quanto una casa: e se la metacrisi del Dottore si ammalasse o, più nello specifico, se la sua mente da Signore del Tempo non riuscisse a sopravvivere in un fragile corpo umano? Uhm, sto seriamente riflettendo sulla possibilità di crearci una long su questa cosa xD
Skinny love, il titolo, è stata praticamente una delle prime cose che avevo deciso. Avevo trovato la definizione precisa di questa espressione che dovrebbe stare per amore scarno, nel senso di vissuto fino all’osso, ma naturalmente, da brava stordita quale sono, non riesco più a ritrovarla. Ho altri pezzi Rose/John nel cassetto da completare, per lo più scene di monologhi interiori nel caso di entrambi e a questo punto quasi avrei voglia di trasformare tutto questo in una raccolta dedicata a loro, ma conoscendomi non prometto nulla.
Credo sia tutto, cosa più, cosa meno, ma se aveste bisogno di chiarimenti o qualsiasi altra domanda non esitate a farmelo presente o a pormela. So di essere poco chiara a volte xD
Un bacione e buon inizio di primavera tutti! <3

  
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