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Autore: _bucchan    25/03/2013    1 recensioni
“Se avesse detto una parola… soltanto una parola, e l’avrei salvato.

Ora capite, vero, perché odio rotaie, orari, binari, stazioni, treni, bagagli, partenze, arrivi, scompartimenti, vagoni, locomotive, viaggi, sale d’aspetto?
Capite, ora, perché odio i gamberi?
( -l’odio, in me, è originato dalla paura)”

Perché c’è qualcosa che Ostmark ancora non vi ha detto…
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[Nazi!Austria (Roderich ‘Ostmark’ Neumann) ]
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[ATTENZIONE: Presenza di eventi storici tragici!
Shoah; deportazione degli ebrei di Varsavia]
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[Death!Fic – visione onirica
A causa di ciò, il comportamento dei personaggi potrebbe risultare OOC.]
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[Collegata ad ‘Ostmark’ – soprattutto le drabble 22, 23, 24, 30, 31.]
Genere: Introspettivo, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Francia/Francis Bonnefoy, Germania/Ludwig, Sacro Romano Impero
Note: OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il gambero

 

­­­­-Dì soltanto una parola e io sarò salvato-

 


i tempo.
Il filo di metallo delle sue lenti rettangolari racchiudeva nel suo spazio visivo il perimetro del ghetto di Varsavia.
Sul binario, al suo fianco, sulla sinistra, mentre li superava, sfilavano, sospinti da grigi guardiani, cinquantenni borghesi dagli occhiali spessi e tondi e la sciarpa di cotone traforato tessuta dalle mogli, già sfiorite dagli anni, bambini col cappotto di panno e i calzoncini condotti per mano da giovanotti anziani che nascondevano sotto la coppola scozzese i radi capelli bianchi, già scremati da una sciagurata calvizie, fanciulle liceali che le lunghe chiome le portavano raccolte in strette crocchie, a cui le sorelline, tenute in braccio, si aggrappavano con gesto istintivo, indice di timore più che d’affetto. E ancora uomini coi cappelli a falda, ai quali non mancava il coraggio, matrone il cui tramontato prestigio era sottolineato dalla veletta e dalle lussuose volpi rossicce, volti aquilini dagli occhi grigi che avrebbero ben figurato fra gli spettatori d’un teatro che non avevano mai frequentato, zigomi sporgenti e nasi piatti, menti pronunciati e fronti troppo spaziose, piccole orecchie paonazze nascoste fra i boccoli, trecce, riccioli e mollette, mani d’operai, d’artigiani, di tipografi, d’intellettuali, di banchieri, di librai, di musicisti e di rigattieri, di fornai e d’universitari, di calzolai e di mendicanti, mani canaglie e mani da galantuomini, mani bucate e mani callose, mani diffamate e diffamanti, mani avide e mani pietose, tutte tese nell’aria per afferrare quelle di chi era già salito e issarsi a propria volta. Non era raro che qualcuno dovesse essere tratto su di peso; ma in ogni caso, le SS provvedevano a dar loro una mano, serrata a pugno magari, e di spintoni ce n’erano in abbondanza per ciascuno. Una volta dentro, i corpi che si pigiavano uno contro l’altro offrivano alle sferzate del vento un muro di consistenza assai variabile; si rinserravano, ruotavano, si torcevano, si nascondevano, correvano da un lato all’altro nel –vano- tentativo di sottrarvisi, come i dannati alle staffilate dei diavoli, finché la soffocante presenza dei nuovi arrivati non ne faceva malta e cemento ben serrati, schiacciando i più piccoli, ancora rivolti col viso e col pensiero alla luce. La tempesta cresceva d’intensità; le grandi farfalle di gelo erano sbattute dal vento addosso agli occupanti intirizziti, ai piedi dei quali s’ammucchiavano, inquinate dai fumi sprigionatisi dalla locomotiva sbuffante, grigie divenivano, ceneri calpestate dalle suole nere degli stivali, si liquefacevano per compressione, poi si scomponevano, passavano allo stato liquido, poi solido.
Percorse così in senso inverso tutto il binario fin quasi alla testa del convoglio, stazionante presso i vecchi edifici giallini delle sale d’aspetto, dove un ampio lucernario permetteva ai viaggiatori di ripararsi. S’avvide in quel momento che l’antico orologio dalle lancette ottonate era tornato a funzionare e segnava le cinque. Al riparo del lucernario, erano stati allestiti anche i banchetti per le identificazioni, e intorno ad essi c’era grande agitazione. Si attardò lì ancora per qualche istante.
“Spero che i binari non ghiaccino, stasera” disse.
Stava, in fila al terzo banchetto, che attendeva pazientemente il suo turno, un bambino di cui non intese il cognome; i suoi occhi erano turchini e i suoi capelli color del grano. Le semplici vesti nere e austere e l’espressione seria, quasi ieratica, conferivano a quella figura un aspetto quasi sacrale. Portava il bavero del mantelluccio rialzato, per proteggersi il viso dal gelo. Camminava docile, tranquillo, rassegnato, come quell’alba dietro la cascina francese, l’aurora in cielo e negli occhi, e le bocche dei fucili spalancate dinanzi a lui. A un certo momento si sfilò il cappello nero e, tenendolo per una delle falde dorate, lo batté con una manina per liberarlo dai grossi fiocchi che l’avevano colmato; poi se lo ricalcò per bene in testa, succhiandosi le labbruzze.





 
ii tempo.
“No! No! Nonlui!”
Roderich vide il bambino, e cadde al suolo, e toccatolo terrorizzato prese a brancolare all’indietro per sottrarsi a quella sorte più velocemente possibile, farfugliando, fissando con occhi spiritati il fanciullo, che stava coi pugni chiusi e le braccia rigide lungo i fianchi. La sua schiena toccò contro qualcosa, e allora Roderich staccò le mani guantate dal suolo, levando i palmi accanto al viso come per schermarsi, o chiedere pietà.
“No… N-non voglio…
Lo guardò di nuovo, ma era scomparso; ora era stipato con gli altri in un vagone già gremito, accomodandosi scostando la mantellina fradicia di neve dall’apertura di lamiera. Roderich subito accorse per levarlo, per farlo scendere:
“Che fai lì, Sacro Romano Impero? Scendi! Non è il tuo posto, questo!”
Così Sacro Romano Impero rispose: “Ma se proprio tu a costringermi qui sopra”, e allora Roderich s’accorse che la propria presa lo serrava in vita e che anzi lo spingeva più a fondo nel vagone. Disperatamente cercò di scacciarle, ma le sue mani non rispondevano ai comandi; erano paralizzate, specie le dita.
Sacro Romano Impero schiuse le labbra; Roderich s’aggrappò ad esse. Il bimbo appoggiò la soffice guancia al palmo, reclinando un poco il capo; e con lo stesso tono di voce con il quale gli dava il buongiorno al mattino, o gli chiedeva, con titubanza, di ascoltarlo ripetere la lezione del giorno, o controllargli gli esercizi perché non era pienamente sicuro che id magis vitandum1 fosse un gerundio o proprio un gerundivo, oppure quando, durante le sue interminabili degenze, vedendolo sedersi al proprio capezzale, lo pregava di suonare un poco Mozart al pianoforte a muro della sua stanza… Come il bambino della fiaba aveva esclamato “il re è nudo!”, e tutti avevano riso, così lo chiamò:
“Parassita!”
Roderich trasecolò. Si rizzò improvvisamente, scartando col piede di lato.
“Parassita.”
“Scarafaggio.”
“Ratto.”
“Verme.”
“Non sei degno di vivere.”
Roderich si adirò, perché gli parve di udire in quelle parole la voce di Ludwig; e si accorse di provare odio e ribrezzo per quel ridicolo corpicino sproporzionato e per la viscida lana della sua mantellina. Già, proprio così; viscida! Le sue dita, attraverso i guanti, sembravano aver acquistato una sensibilità eccezionale; avevano ripreso improvvisamente a muoversi, e lo facevano in maniera straordinariamente rapida, incapaci di soffermarsi definitivamente.
“Tu sei ebreo…”
Sacro Romano Impero si era seduto, nel frattempo.
“Hai anche la stella! Guarda!”
Indicò il suo braccio, quello destro, e l’altro abbassando lo sguardo vide che la fascia rossa si stingeva a vista d’occhio e la svastica, come divorata dalle fiamme, aveva iniziato a rattrappirsi, a confondersi, prendendo la vaga forma di due triangoli sovrapposti. E allora sentì il petto gonfiarsi d’ira come mai aveva provato sino a quel momento. La sua presa sui fianchi del bimbo si era rafforzata, rischiando di stritolarlo, e si accorse che era proprio ciò che desiderava. Ormai non provava che disgusto e schifo. Se almeno la lana nera della sua mantelluccia non fosse stata così viscida e molliccia!.. così come immondizia lo lanciò nel vagone; serrò la porta; inchiavattò col chiavistello; il treno partì. La locomotiva cominciò a muoversi, i bracci meccanici delle ruote affondarono in avanti, le ruote slittarono, ma era per prendere la rincorsa. Il convoglio scomparve in un baleno, l’aria s’insozzò di fumo, la neve fu tramutata in cenere e laggiù in fondo, remotissimi eppure crudeli e netti, balenavano i cancelli del suo campo, T.





 

iii tempo.
Roderich rimase lì, spaesato, sul binario grigio, ed era l’unico ad agitarsi della fila di scure figure allineata sul marciapiede; stavano a riposo, le mani raccolte dietro la schiena, le gambe divaricate. Senza saperlo, era già mattino, e una luce chiara e uniforme aveva rimpiazzato neve e bruma; ora il cielo era azzurro e terso, e privo di sole. Quando Francia si approssimò alle sue spalle, agitato com’era, si voltò di scatto. Il francese sollevò appena il tricorno nero dal capo e lo salutò cortesemente, addolorato, ma composto.
Roderich urlò di nuovo, e questa volta era puro dolore il suo; iniziò a piangere forte, curvandosi su sé stesso fino a cadere in ginocchio. Francia non si mosse. Recava la piccola bara fra le braccia, scoperchiata; posta su un corpicino nudo e ossuto che non era il suo, ma solo l’idea di un cadaverino, preso il braccino ripiegato da uno, la rotula bluastra da un altro, il fragile ventre da un terzo, la schienina scorticata da un quarto, la nuca troppo grande e sporgente da un quinto – la testa di Sacro Romano Impero era reclinata su un lato, e la guancia schiacciata contro il bordo della cassa; le occhiaie, plumbee; gli occhi somiglianti a grosse biglie. Eppure Roderich, da lontano, l’avrebbe detto vivo, avrebbe giurato: ecco, ora avrebbe tirato su le proprie quattr’ossa, andandosene camminando come un’acrobata sull’acqua.
Roderich prese nella sua la mano livida che gli si offriva penzolante dal bordo della cassa e ne massaggiò le ditine rattrappite; poi rialzò lo sguardo sconvolto verso Francis.
“Ma perché l’hai fatto! Perché!..”
E Francia: “Sei stato tu!”





                  
iv tempo.
Scappavano i gamberi, uscivano a frotte dai fiumi e dai laghi e fuggivano, così com’erano fuggiti dinanzi alla Wehrmacht durante l’invasione della Polonia; e Roderich s’avvide che quei disgustosi animaletti brulicavano dappertutto. Gamberi sui mattoni della piattaforma alla base dei colonnati, carapaci bianchicci che rotolavano sui binari, zampine che si agitavano nell’aria fino a morirvi soffocate, file e file disposte sulle panchine, in colonne spaventosamente ordinate; qualcuno che pinzava con le chele il compagno sopra di lui, per scalzarlo e montare in sua vece; centinaia di testine vibranti dai tabelloni delle partenze; e quelli che precipitavano da là sopra, perché scalzati dagli altri, si aggiungevano alla folla di crostacei che già affollava il binario e persino le rotaie; e ne precipitavano di continuo. I gamberi sfollati attendevano il treno e il treno arrivò in orario, e anch’esso parve a Roderich un gigantesco gambero; infatti, procedeva all’indietro, e i bracci delle ruote erano le sue enormi zampe. I soldati rimasti allineati ai loro posti sino a quel momento accorsero per aprire i vagoni; con fatica il pesante battente fu fatto scorrere di lato. Stava lì, in piedi dinanzi all’entrata, un uomo di cui riconobbe subito la fisionomia; i suoi occhi erano color acciaio ceruleo e i suoi capelli bronzo smaltato di possenti cannoni. Vestiva in alta uniforme, verde scuro, e compiaciuta delle sue decorazioni e onorificenze; il cappello con visiera lo recava sotto il braccio sinistro. L’altro braccio, fino alla spalla, non c’era più; o forse non era visibile, poiché portava regolarmente la fascia rossa; e, talvolta, in alcuni movimenti, s’intravvedeva regolarmente la mano guantata lungo il fianco. Germania smontò, e subito incombette su Roderich; lo guardava con espressione triste e addolorata.
“Roderich” mormorò, e nella sua voce non v’era alcuna traccia di rimprovero o risentimento per l’altro; bensì un’indefinita, sentita tristezza, che aveva forse il retrogusto di un rinfaccio. “Perché non hai fermato il treno, Roderich?.. Adesso non ho più il braccio…” La presenza del tedesco si era fatta ancora più vicina, così tentò di sottrarsi; ma Francia era rimasto allo stesso modo dietro di lui; e dinanzi a lui sempre avanzava Germania, sicché pareva che l’accerchiassero. E ai lati e tutt’intorno si levò alta la confusione, un’indistinta massa nereggiante a
chiuderlo in un cerchio e infine l’accusa di una donna che era certo di conoscere si levò sopra a tutto:
“Tu questo non ce l’avevi detto!”

 

FINE

 
 
 
 
1-Tacito, Storie, Libro Quarto.






Prima di tutto, un grazie sincero per aver letto questa storia! <3 …e i miei complimenti per non essere affogati nelle vostre stesse lacrime. (?) I gamberi vi hanno salvato, forse. O, più probabile, vi è sembrata una colossale stupidaggine e stavate rotolando sul pavimento in preda a risa incontrollabili xDDDDD
Un messaggio se temete che una cosa del genere sia accaduta veramente.
…vi ho trollati. E’ tutto un incubo di Roderich, con tanto di tempi musicali. HAHAHA!
 
…Credo di dover necessariamente spendere due parole su questa storia. Sì, le famose note-fiume in stile Ostmark. Quelle che tanto amo e detesto.  <3
Nel I tempo ho citato, in riferimento al colore dei capelli di HRE, Il Piccolo Principe, perché l’avevo riletto da poco e poi perché ho associato, da sempre, HRE a questa figura. E poi come nomignolo è carino, no? <3
Nel III tempo “l’acrobata sull’acqua” viene direttamente dalla penna di Giuseppe Ungaretti. …Non so francamente cosa ci faccia lì.
Nel IV tempo – gamberigamberigamberigamberigamberi(Non so se l’ho sapete. Ma Austria ha il terrore dei crostacei. Sì, anche le vongole. Ora lo sapete. Il mio sadismo nei suoi confronti non conosce limiti.) - l’immagine dei gamberi in fuga dinanzi alla Wehrmacht è una citazione del libro Marte in Ariete, di Alexander Lernet-Holenia. Un libro molto strano, in cui visioni funebri e realtà della guerra si alternano e si mischiano senza soluzione di continuità. Credo che questo e altri testi facciano parte del bagaglio culturale di Austria; lui li ha semplicemente rielaborati. Roddy Rondò, non dovresti leggere queste cose prima di andare a letto <3
Che altro posso dire… ah, sì! Ve l’avevo promesso, che di Ostmark avreste sentito parlare ancora! <3 <3
(Con sette mesi di ritardo, sì… dettagli. D: Ma non si lasciava scrivere! ;AAAAAA;
Benedetto sia Schindler’s List, è proprio il caso di dirlo.)
Questa storia è la diretta figlia di ‘Ostmark’, nasce dallo stesso humuse dalle medesime riflessioni. Penso che volessi approfondire meglio il rapporto fra Austria e Germania, e le sue conseguenze. Poi l’ambigua denazificazione dell’Austria post-bellica e l’occultamento delle responsabilità personali di Roderich – ultima frase del IV tempo. Riguardo a T. … è l’iniziale del campo di sterminio diretto da Ostmark. Sì, ne ha diretto uno. Ho anche scritto alcune drabble al riguardo (nella mia testa, almeno…) ma non credo che avrò mai lo stomaco di pubblicarle. Una riguardava Chibitalia…
Uhm? Riguardo a me? E chissenefrega!
Non pubblico mai. E non aggiorno. Quindi… rivolgo un grazie particolarmente speciale a chi mi sprona, sempre, e si prende cura di me. <3
Sammy, grazie. <3 <3
Friedrike e la player di Roderich (perché fra plè di austriaci ci si trova bene.  <3 )
Quindi… un’ultima cosa.
Come dico sempre… se avete domande, o critiche, non esitate a porle! <3
   
 
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