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Autore: teabox    26/03/2013    9 recensioni
Molly chiaramente non li collega, i puntini, e proprio non lo vede il grande disegno, anche quando è lì, esattamente di fronte a lei.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: l’embrione di questa storia era nella mia testa da non so quando. Ora che è qui - con uno stile un po’ strano - spero che vi piaccia.
(L'ho letta e riletta, ma mi sfugge sempre qualcosa. Quindi se trovate qualche errore, scusate.)





E mai ti sei sbagliata,

solo una volta, una notte

che t’invaghisti di un’ombra

- l’unica che ti è piaciuta -

un’ombra pareva.

E volesti abbracciarla.

Ed ero io.

(Pedro Salinas, La voce a te dovuta)

 

 

 

SOLO UNA VOLTA, UNA NOTTE

 

 

Molly ha otto anni e i capelli raccolti in due trecce disordinate. 

E’ un giorno speciale, oggi, perché sua madre l’ha portata con sé dalla signora della grande casa. E la cosa che le piace di più è che mentre sua madre lavora per la signora, Molly può giocare in giardino, che è il più bello e il più grande che abbia mai visto, e ogni volta ci trova qualcosa di nuovo.

L’ultima volta, per esempio, ha scoperto che nella fontana nel mezzo del giardino ci sono dei pesci rossi. Così ha salvato tutti i giorni un po’ di briciole di pane scuro ed è lì che ora è diretta, la piccola mano stretta con cura attorno al sacchetto.

E’ una bella giornata e l’acqua riflette il blu del cielo, e appena Molly lascia cadere qualche briciola di pane, i pesci si avvicinano veloci a lei. E’ felice.

«Ecco pesciolini», dice contenta. «Bravi pesciolini rossi, ce n’è per tutti.»

«Non sono pesci rossi», dice qualcuno alle sue spalle e Molly si gira spaventata.

Si trova davanti un bambino con capelli scuri spettinati e occhi che a volte sembrano azzurri e a volte verdi. La sta guardando serio, come se non fosse contento di trovarla lì. E forse non lo è, pensa Molly.

«Sono carpe koi», continua però il bambino. Si avvicina alla fontana e guarda nell’acqua. «Vengono dal Giappone e sono della specie Chagoi.»

«Però lo mangiano il pane?», chiede Molly alzando il sacchetto per farlo vedere al bambino.

«Quello sì.»

Allora lei fa cadere nell’acqua un altro po’ di briciole e poi si gira verso il bambino. «Vuoi giocare?»

«No.»

«Allora cosa vuoi fare?»

«Leggere», risponde lui sedendosi sul bordo della fontana. 

Solo in quel momento Molly nota il libro che il bambino ha con sé. Non ha nessuna copertina colorata, invece è tutto nero con qualche lettera dorata. «E’ un libro di storie?»

«No», risponde lui aprendolo. «E’ sui pesci.»

«Ah!» esclama Molly battendo le mani. Lui la guarda confuso, quasi infastidito. «E’ per questo che sai tutto su questi pesci!»

«Non so tutto sulle carpe», ammette lui quasi con difficoltà. «Però no, lo sapevo già prima che non sono pesci rossi. Sono un regalo di mia mamma, me lo ha detto lei.»

«Oh», risponde Molly. Si siede accanto a lui e fa dondolare le gambe per un po’. Crede di aver capito chi è il bambino. Sua mamma una volta le aveva detto che la signora della grande casa ha due bambini, uno un po’ più grande e uno un po’ più piccolo. 

«Giochi spesso con tuo fratello qui in giardino?», domanda lei di punto in bianco.

Lui aggrotta la fronte. «No.»

«Che peccato. Se io avessi un fratello o un giardino così, starei sempre fuori a giocare.»

«Io no», risponde il bambino con lo stesso tono di voce che il papà di Molly usa con lei quando inizia a fare troppe domande. 

Allora dondola un altro po’ le gambe in silenzio e pensa che non dev’essere tanto divertente vivere in una casa così grande con un giardino così bello e non giocarci mai. Dev’essere triste. Almeno un pochino. Infatti, pensa osservando il bambino, lui sembra un po’ triste. 

«Non fissarmi», le dice lui con lo stesso tono che ha usato poco prima.

Molly sbuffa e lascia cadere qualche altra briciola di pane nell’acqua. «Ma come si chiamano?»

Il bambino la guarda confuso.

«I tuoi pesci, come si chiamano?», ripete Molly indicando l’acqua. Quel bambino è proprio strano, pensa.

«Te l’ho già detto, carpe.»

«Ma no!» esclama lei ridendo. «Che nomi gli hai dato?»

Lui sembra anche più confuso di prima. «Sono pesci, perché dovrei dargli un nome?»

«Ma perché sono tuoi, no? Mia mamma aveva un gatto quando aveva la mia età, il suo nome era Mr. Mistoffelees. Ha promesso che l’anno prossimo posso averne uno anch’io, se prendo dei bei voti a scuola.»

Il bambino non risponde e invece torna a leggere. Ma Molly ormai ha già deciso. Appoggia le mani sulle pagine e quando lui alza lo sguardo su di lei, Molly sorride. «Diamogli dei nomi!»

«Perché?»

«Perché è divertente! Vediamo, quella», dice Molly puntando il dito ad una delle carpe. «Si chiamerà Principes-»

«Nessuna delle mie carpe si chiamerà Principessa!»

Molly sbuffa. «Allora che nome vuoi dargli?»

Il bambino ci pensa un attimo. «Robert Boyle, come il chimico.»

«Ok», risponde Molly lentamente. Non sa cosa la parola “chimico” voglia dire e avrebbe davvero voluto chiamare una delle carpe Principessa, ma infondo i pesci non sono suoi quindi non spetta a lei decidere come chiamarli. «E quella? Che nome vuoi per quella?»

Vanno avanti così per quasi un’ora, lei ad indicare le carpe una ad una e lui a dare loro nomi strani. Poi Molly sente la voce di sua madre chiamarla da lontano.

«Devo andare», dice saltando giù dal bordo della fontana. «E’ stato divertente oggi.»

Il bambino non dice nulla, invece. Riprende il libro che per tutto quel tempo è stato messo da parte e dimenticato, e lo riapre dove aveva smesso di leggere. 

«Allora ciao», dice Molly aspettando che anche lui la saluti. Ma quando il bambino non risponde, lei alza le spalle e s’incammina verso la grande casa.

«Ho quattro cavalli», dice improvvisamente il bambino. 

Molly si volta e lo guarda, la testa piegata appena di lato.

«Hanno già dei nomi, ma sono noiosi.» Sembra esitare un attimo. «Se vuoi puoi tornare e possiamo dargliene di nuovi.»

Molly sorride. «La settimana prossima», gli dice salutandolo con la mano. 

Lui copia il suo gesto, ma in maniera goffa e incerta, come se non fosse del tutto sicuro di come si saluta qualcuno. Molly lo trova buffo ma non ride, e invece corre da sua madre con un grosso sorriso e una storia da raccontare.

 

Due giorni più tardi, però, la madre di Molly si sente male e viene ricoverata in ospedale. Non è abbastanza forte per lavorare, dicono i dottori. Deve stare a casa, aggiungono. E’ una brutta malattia, sussurrano al padre di Molly.

E quando lui chiama la signora della grande casa per informarla, Molly lo prega di dirle che è molto dispiaciuta di non poter tornare a giocare con il bambino che ha incontrato nel giardino. Spera che non si senta troppo solo. Lo spera davvero.

 

 

Molly ha tredici anni e i capelli raccolti in una coda stretta che le tira un po’ sulle tempie.

Indossa la divisa della scuola ed è seduta su di una sedia di plastica nel freddo corridoio di un ospedale. Le lampade alogene sono troppo bianche, ma non è per quello che le bruciano gli occhi. Sua madre, in una stanza poche porte più in là, sta male. Sta molto male.

Molly trattiene le lacrime. Suo padre le ha detto di non preoccuparsi, che andrà tutto bene, ma lei lo sa che non è vero.

Chiude le mani in grembo, le dita pallide intrecciate strette strette.

Una porta dall’altra parte del corridoio si apre e ne esce un ragazzo alto e pallido. Molly lo guarda sedersi su di una sedia, la schiena così dritta e tesa che sfiora appena lo schienale. 

Ha un profilo fatto di linee dritte, precise. Indossa quella che sa essere la divisa di una scuola molto costosa e anche da lì Molly lo vede che non c’è una grinza o un particolare che non sia esattamente al suo posto. L’unica cosa che sembra scappare da tutta quella perfezione sono i suoi capelli disordinati. 

Molly torna a guardare le sue mani e si chiede distrattamente chi stia aspettando lui, qual’è la ragione per cui è lì. Sposta appena la testa e lo osserva discretamente. C’è qualcosa di terribilmente triste nel modo in cui sembra così diverso da tutto quello che lo circonda. Una macchia scura in un ambiente altrimenti completamente bianco. 

Si chiede, però, se dal punto di vista di quel ragazzo anche lei non appaia allo stesso modo. Differente. Isolata.

Ed è davvero strano, pensa Molly, come nulla nel suo viso appaia particolarmente triste, eppure qualcosa - la linea delle labbra o un particolare degli occhi, non ne è sicura - sembra fuori posto ed infelice.

Riporta nuovamente gli occhi sulle sue mani e si domanda se non si stia sbagliando. Forse perché lei è così triste, allora vede la tristezza anche negli altri. Forse quel ragazzo è perfettamente felice, solo decisamente annoiato. 

Ma quando Molly lo guarda ancora, allora sa - lo sa davvero - che no, non si sbaglia e che no, lui non è felice. 

Pensa alle parole di suo padre, quel “non preoccuparti, andrà tutto bene” che è una bugia ma che pur sapendolo, la fa sentire un pochino meglio perché puoi sempre sperare, no?, che davvero non sia necessario preoccuparsi e che tutto andrà bene, in un modo o nell’altro. Anche se non è vero, anche se-

Si morde un labbro. Il suo cuore batte troppo veloce. Sa quello che vuole fare, ma è timida. Insicura. Però si alza dalla sedia e cammina, passi lenti, fatti quasi con attenzione. Si tormenta le dita delle mani e quando finalmente raggiunge il ragazzo, improvvisamente non sa bene cosa dire. Anche se lo sa alla perfezione. 

Lui alza la testa e la guarda, qualcosa di freddo sul suo viso. Ma Molly lo vede, quello che c’è dietro. E in qualche modo sa anche che nessuno gliel’ha mai detto e che forse - forse, pensa Molly - forse può dirglielo lei.

«Non ti preoccupare», gli dice quasi in un sussurro. «Andrà tutto bene.»

L’espressione del ragazzo non cambia. Forse per attimo Molly ha visto qualcosa, qualcosa che l’ha spaventata perché sembrava quasi rabbia, ma si dice che deve aver visto male. 

«Non è vero», risponde lui.

E non sono le parole che feriscono Molly, quanto la calma e l’indifferenza con cui le ha pronunciate. 

Una porta si apre alle sue spalle e lei quasi sussulta dallo spavento. Ne esce un uomo giovane, alto, vestito in modo impeccabile. Posa per un istante gli occhi su Molly, quindi si rivolge al ragazzo. «Nostro padre è morto. Andiamo a casa, non perdiamo altro tempo qui.»

Molly si porta una mano alla bocca e fa un passo indietro.

Il ragazzo si alza lentamente, l’espressione immutata. Lei lo guarda allontanarsi e non sa cosa pensare, c’è solo questo dolore e il battito del cuore e la sensazione che respirare sia diventato improvvisamente così difficile. 

Ma poi lo vede, un attimo prima che lui giri l’angolo e sparisca. Il ragazzo si volta e la guarda. C’è stato qualcosa, lo ha sentito Molly in quello sguardo che lui le ha rivolto. Ma ha solo tredici anni e ancora non sa dare nomi a certi sentimenti. 

E allora comincia a piangere, perché è l’unica cosa che le sembra possibile fare in quel momento. Ritorna alla sua sedia e piange, per lei, per sua madre e suo padre, per tutte le cose che dovrebbero andare bene e invece non lo fanno. E anche per quel ragazzo, per tutta quella tristezza intrappolata dentro che nessuno vede, che lo rende la persona più infelice che Molly abbia mai visto.

 

 

Molly ha diciannove anni e i capelli tagliati in un caschetto corto. 

Ha da poco cominciato a frequentare la scuola di medicina e si sta ancora abituando ai nuovi ritmi e alla mole di studio che deve affrontare ogni giorno, ma le piace e non ne è spaventata. 

Cammina lungo un corridoio del dipartimento, libri e quaderni in mano e poca attenzione perché è quasi sera e l’università è già praticamente vuota. Forse per quello li sente prima di vederli. 

Le voci arrivano da una stanza a pochi passi da lei, sembrano ridere ma c’è qualcosa nel suono che non le piace. 

Si avvicina piano e guarda con discrezione nella stanza. All’inizio sembra solo un piccolo gruppo di ragazzi riuniti a cerchio. Nel mezzo, però, c’è un ragazzo che ha l’espressione di chi non si sta divertendo per nulla.

«Allora è vero che suoni il violino perché non hai trovato un piffero che ti piaccia abbastanza?», chiede uno dei ragazzi.

«Io ho sentito dire che non è abbastanza bravo con la bocca», aggiunge un altro.

Il gruppo ride. Qualcuno gli dà uno strattone. «Avanti, idiota, dì qualcosa.»

Molly non riesce a trattenersi oltre. «Smettetela!», grida entrando nella stanza.

Il gruppo si volta a guardarla, ma il ragazzo che stanno tormentando rimane con gli occhi fissi sul pavimento.

«Questa poi», dice uno dei ragazzi avvicinandosi a Molly. «Non dirmi che l’idiota ha una fidanzatina

Molly arrossisce. «Smettetela», ripete con una nota incerta nella voce.

«Ma guarda, la fidanzatina dell’idiota non vuole che giochiamo con lui. Forse vuoi che giochiamo con te?»

«Siete solo dei cretini», risponde Molly stringendosi i libri al petto. 

Il gruppo ride, ma prima che la cosa possa andare oltre, un docente entra nella stanza e pone fine alla situazione. «Cosa state facendo qui? Il dipartimento sta chiudendo.»

Il gruppo si dilegua velocemente e nella stanza rimangono Molly, il ragazzo che stavano tormentando e il docente. 

«Sta bene?», chiede lui accennando al ragazzo.

«Credo di sì», risponde Molly, anche se non ne è sicura. 

«Allora sbrigatevi ad uscire», dice il docente lasciando la stanza. 

Molly sposta gli occhi sul ragazzo, che è ancora immobile con lo sguardo sul pavimento. «Dovremmo andare.»

Lui alza la testa di scatto, così all’improvviso che Molly quasi se ne spaventa. E quando cammina, lo fa con un passo così veloce che Molly fa fatica a stargli dietro. Non che lo voglia seguire - o forse solo un po’, per assicurarsi che stia davvero bene - ma del resto devono uscire dal dipartimento e quindi non può fare a meno di camminargli dietro.

Quando apre le doppie porte ed escono all’aperto, l’aria fredda della sera li investe entrambi senza clemenza.

Molly esita, mentre lui continua a camminare. Il suo appartamento è nella direzione opposta e sta già facendo troppo tardi. Lo guarda allontanarsi per qualche istante, prima di avviarsi con un po’ di riluttanza verso casa.

Solo qualche passo più in là, però, una mano si chiude sul suo braccio e la fa voltare senza delicatezza. Molly cerca di divincolarsi, ma smette quando vede che è lui.

«Perché l’hai fatto?», le sibila. 

E Molly non aveva mai pensato che qualcuno potesse davvero sibilare, ma è esattamente quello che il ragazzo ha appena fatto. «Co-come?»

«Perché. L’hai. Fatto», ripete lui sottolineando ogni parola, il tono della voce gelido. «Non è una domanda difficile.»

Molly lo guarda confusa. Non riesce nemmeno a sentirsi arrabbiata, troppa è la sorpresa di quella reazione. Risponde lentamente, quasi pesando le parole. «Perché ti stavano maltrattando.»

«Ti sembrava forse che avessi bisogno di aiuto?»

«...sì.»

E lui ride. 

Ma non c’è nulla di allegro in quel suono, è solo cinico e canzonatorio. Molly rabbrividisce.

«Pensi davvero», le dice lui avvicinandosi di qualche passo, la voce che pronuncia ogni parola con freddezza, «pensi davvero che m’importi cosa un gruppo di idioti possa dire di me? Pensi davvero che m’importi cosa potrebbero farmi? E dimmi, dovrei forse esserti riconoscente, quando tutto quello che hai fatto è stato solo peggiorare la situazione?»

Molly è senza parole, la bocca socchiusa in una muta espressione di stupore. «Io volevo solo-»

«Non offrire aiuto quando nessuno te lo chiede», la interrompe lui asciutto. La guarda per un istante di più, ma non aggiunge altro e si gira per allontanarsi.

Per qualche momento Molly non riesce a pensare a nulla, poi la rabbia che ha soffocato fino a quel momento affiora come una bolla e come una bolla esplode. 

«Ehi!», grida al ragazzo. E quando lui la ignora, lei grida di nuovo. E dato che lui non accenna a fermarsi o a degnarle un minimo di attenzione, Molly fa l’unica cosa che le viene in mente. Prende uno dei suoi quaderni e lo lancia al ragazzo. Lo colpisce in testa. 

E anche se si vergogna immediatamente di aver fatto una cosa del genere, quanto meno è riuscita a farsi considerare.

Il ragazzo si è fermato e finalmente la sta guardando. Allibito.

«Dovresti ringraziarmi.»

«Perché? Non hai fatto nulla», replica secco lui.

«Ma almeno ho provato! Avrei potuto continuare a camminare e fare finta di niente, invece mi sono fermata e ho cercato di aiutarti. E’ una cosa così terribile?»

«E’ una cosa stupida», le risponde lui con un tono irritato.

«E’ una cosa gentile», replica lei con lo stesso tono.

E’ in quel momento che li nota per la prima volta. Gli occhi tra l’azzurro e il verde, i capelli scuri spettinati. Qualcosa dentro di lei sembra mettersi in moto, un piccolo ingranaggio nascosto da qualche parte nella sua memoria. Ma non riesce ad afferrare niente di preciso, quindi rimane solo con quella strana sensazione che non sa definire, che passa nel momento in cui il ragazzo si volta e se ne va.

«Ehi!», lo chiama di nuovo lei. Ma lui non si ferma e Molly sospira, improvvisamente stanca. «Che razza di tipo», mormora a se stessa raccogliendo da terra il quaderno. Guarda un’ultima volta il ragazzo, prima di mettersi in cammino verso casa, la sensazione di un attimo prima già dimenticata.

 

 

Molly ha venticinque anni e i capelli raccolti in uno chignon disordinato.

Ha appena iniziato il programma per diventare medico patologo e ha meno tempo che mai. 

E’ il quarto giorno di seguito che si trova alle due di notte nel laboratorio dell’ospedale ad analizzare campioni, e sa che qualcosa deve cambiare nella sua routine o finirà per impazzire. 

Perciò quando una delle infermiere del turno di notte bussa alla porta, Molly accoglie l’interruzione con felicità. 

«C’è un uomo all’ingresso e non riesco a convincerlo che non può semplicemente presentarsi qui e pretendere di usare il laboratorio», le dice l’infermiera con un’aria stanca. «Pensavo che forse potresti parlarci tu.»

Molly accenna un sì e si sfila i guanti di lattice. Mentre segue l’infermiera lungo il corridoio, coglie il suo riflesso in uno dei vetri del laboratorio e quasi non si riconosce. Ha l’aria esausta di chi non dorme abbastanza da settimane ed è proprio così che si sente. Terribilmente stanca. Sospira.

Arrivano all’ingresso ma è vuoto. L’infermiera è confusa. «L’ho lasciato qui.»

«Forse se n’è andato», le dice Molly prima di ritornare lentamente verso il laboratorio. 

In quell’attimo di pausa la sua mente, come al solito ultimamente, comincia subito a distrarsi. Pensa a suo padre, pensa agli esami, pensa se ha fatto le scelte giuste, pensa a quel campione di sangue che sta analizzando.

Forse è quella la ragione per cui non lo nota subito. O forse perché lui siede così perfettamente immobile davanti al microscopio che sembra quasi che ne faccia parte.

Ma poi Molly lo nota e non riesce a trattenere un sussulto. «Scusi, ma cosa sta facendo?»

L’uomo non stacca gli occhi dal microscopio. «Sei una dottoressa e stai studiando per diventare medico patologo. Per te dovrebbe essere piuttosto evidente cosa sto facendo.»

Molly per qualche istante è a corto di parole. «Com’è entrato qui? Non può usare il laboratorio senza un permesso e-»

L’uomo ha finalmente distolto lo sguardo dal microscopio e lo ha puntato su di lei. «Miss Hooper», le dice con un sorriso che non ha niente di genuino. «Non ti preoccupare per me, so esattamente quello che sto facendo.»

Molly arrossisce. In qualche modo si sente presa in giro. «Non mi sto preoccupando per lei, mi preoccupo per il laboratorio. E per me.»

«Non è molto carino», dice lui tornando a rivolgere l’attenzione al microscopio.

La sensazione di essere presa in giro aumenta. «Senta, non so cosa è venuto a fare, ma la questione è molto semplice. Non può stare qui.»

«Ah», dice lui lentamente. «Cosa sono venuto a fare.» Alza la testa dal microscopio e ruota lo sgabello fronteggiando Molly.

E lei li nota, i capelli e gli occhi, ma non ricorda, troppo distratta dal modo in cui lui le sta sorridendo e il fatto che il suo ginocchio le stia sfiorando la gamba. 

«E se ti dicessi che sono qui per te?»

«Co-cosa?», balbetta lei, vergognandosene subito. «Voglio dire, non è possibile.»

L’uomo la guarda divertito. «Perché?»

«Perché non ci conosciamo e non capisco per quale motivo...cosa io...voglio dire, come...»

«Molto eloquente», commenta lui con una nota di sarcasmo nella voce. «Mi servi, Miss Hooper.»

«Molly», risponde lei automaticamente. Si rende conto dello sbaglio e cerca di correggersi. «Voglio dire, non sono abituata ad essere chiamata “miss Hooper”. Il mio nome è Molly. Comunque, davvero, non capisco cosa-»

«Molly», la ferma lui e c’è qualcosa nel tono di voce e nel modo in cui ha pronunciato il suo nome che la fa arrossire. «Vedi, sei l’unica persona che può aiutarmi.»

«Per-perché?»

«Perché tu comprendi l’importanza della ricerca. Lo dimostra il fatto che per quattro giorni di seguito ti sei fermata qui in laboratorio per capire cosa c’è che non va nel campione di sangue che ti hanno dato da analizzare - ti consiglierei di rifare i test sul plasma, a proposito - e io ho bisogno degli strumenti che hai qui, Molly Hooper, per risolvere un caso da cui potrebbe dipendere la vita o la morte di una persona.»

«Oh. Lavora per Scotland Yard?»

«Se solo fossero così fortunati.»

«Beh, io comunque non poss-»

«Molly», la ferma di nuovo lui. Appoggia una mano sulla sua spalla e le sorride, ma c’è qualcosa di meccanico nel gesto. «So che vuoi rispettare le regole e che quello che ti sto chiedendo va contro di esse. Ma so anche che capisci l’importanza di quello che devo fare. Una vita umana potrebbe andare sprecata se non mi sbrigo a fare queste analisi.»

La sensazione di essere raggirata è più forte che mai, ma Molly ormai ha già preso una decisione. «Solo questa volta, però.»

Lui le sorride. «Solo questa volta, Molly Hooper.»

 

Un’ora più tardi lasciano insieme il laboratorio. Molly, senza ragione, si porta la mano al collo e tocca il piccolo pendente appeso ad una catenina d’argento.

«E’ strano», dice ad alta voce.

«Cosa?», domanda l’uomo scrivendo velocemente un messaggio sul cellulare.

«Pensavo alle coincidenze. Oggi per caso ho ritrovato questo ciondolo, me lo ha regalato mia madre molto tempo fa dicendo che mi avrebbe portato fortuna. E oggi, per la prima volta, ho la sensazione che la mia vita stia davvero cambiando per il meglio.»

Lui mette via il cellulare e la guarda scettico. «La fortuna non è una scienza, Molly Hooper. E’ un’invenzione dell’uomo a cui puoi credere o meno.»

Lei slaccia la collanina e la alza per mostrare il ciondolo all’uomo. «Bene, allora io credo che i pesci rossi portino fortuna.» 

«Non è un pesce rosso, quello», risponde lui.

«Allora cos’è?»

«E’ una carpa koi.»

Per un attimo Molly è attraversata da una strana sensazione, qualcosa di importante e sfuggente, qualcosa che dovrebbe riconoscere e sapere. Ma l’uomo si sta allontanando e lei mette tutto da parte. «Ehi, non so nemmeno il tuo nome!»

Lui si volta appena mentre le risponde. «Sherlock Holmes.»

E Molly non ne è sicura, perché è buio e lui è così pallido - un fantasma quasi - e i tratti del viso sembrano solo sparire, ma crede - pensa - di averlo visto sorridere. Sorridere sul serio.

Ci pensa, per un attimo. Gli occhi forse verdi o forse blu, i capelli scuri spettinati, i sorrisi strani e i modi di fare ancora più strani - tutto risuona da qualche parte dentro di lei, come se già lo conoscesse, Sherlock Holmes. 

Scuote la testa, divertita dalla sua stessa sciocchezza. Come può conoscere qualcuno che non ha mai incontrato prima?

Si avvolge di più nel cappotto e si avvia verso casa. Sorride. Sente che qualcosa sta davvero cambiando nella sua vita. Finalmente.   

 

 

Aspetto, passano i treni, il caso, gli sguardi.

Ma io non voglio i cieli nuovi.

Voglio stare dove sono già stato.

Con te, tornare.

(Pedro Salinas, La voce a te dovuta)

 

 

 

C’era una bambina.

Sherlock sussulta e apre gli occhi. Sdraiato sul divano, le dita appoggiate sotto il mento, osserva il soffitto del suo appartamento come se fosse colpa sua di quello strano pensiero.

Richiude gli occhi e si concentra sulle informazioni che sta cercando di analizzare. Tipo di proiettile - equazione cartesiana - condizioni meteorologiche - la traccia sul mur-

C’era una bambina.

Sherlock lascia scappare un lamento frustrato. Abbandona il divano e prende a camminare su e giù per l’appartamento. Cerca di calmarsi. Non riesce a capire cosa il suo cervello stia cercando di dirgli. Cosa voglia. 

C’era una bambina che ha giocato con te.

Si mette a cercare le sigarette. Se è questo quello che serve per far tacere quella voce, allora che così sia. Ne accende una e neanche si ferma a valutare se ne valga la pena. Aspira. Espira. Aspira. Espira. 

La voce non c’è più.

Sherlock sorride. 

 

Sherlock si è perso in un sogno. E’ una cosa piuttosto strana, perché generalmente anche quando sogna sa esattamente dov’è. 

Questa volta, però, non ha idea di dove si trovi. Non riconosce niente, perché non c’è nulla da riconoscere, sembra solo un lungo corridoio nero. E certo, uno non si può perdere in un corridoio, ma è esattamente così che si sente. 

C’era una ragazzina che ha cercato di consolarti

Sherlock si riscuote dal sogno e si porta le mani ai capelli. Odia non capire, odia perdere tempo e odia essere distratto, e sembra che quella voce riesca ad eccellere in tutti e tre quei campi.

Indossa velocemente dei vestiti, afferra il cappotto ed esce dall’appartamento.

Londra è relativamente silenziosa nel cuore della notte. Cammina svelto.

 

Ha scelto di prendere la metropolitana. Gli piace, a quell’ora. Chiude gli occhi un attimo, assorbendo i rumore di sottofondo e le vibrazioni della carrozza.

C’era una ragazza che ti ha aiutato.

Sherlock riapre gli occhi, le mani serrate sulle ginocchia, la bocca chiusa in una linea tesa. 

Dagli altoparlanti la voce metallica annuncia la sua fermata. Scende e si affretta sulle scale, sale i gradini due alla volta. 

L’aria fredda della notte gli dà il benvenuto in quella parta della città. Cammina veloce. Non ha neanche bisogno di guardarsi attorno, conosce quel percorso a memoria. 

Quando arriva all’edificio, entra senza guardare nessuno. Non saluta, non risponde alle domande, non si ferma. 

Scende le scale, attraversa il corridoio, apre la porta. Finalmente. 

Finalmente, conferma la voce.

 

«Sherlock? E’ successo qualcosa?»

Molly lo sta guardando con un’aria vagamente preoccupata. 

Sherlock esita. Non capisce. Non subito. Poi tutto trova il suo posto. 

«Va tutto bene, Molly», la rassicura infine. 

«Hai bisogno di qualcosa?»

«No», risponde lui togliendosi il cappotto. «Non riuscivo a dormire.»

«Oh, ok», dice lei. «Meno male che è il mio turno di notte, allora.» Arrossisce. «Voglio dire, non che sia contenta di fare il turno perché sei passato tu. O che sia contenta che non riesci a dormire. Dicevo solo-»

«Molly», la ferma lui infastidito. «So cosa volevi dire. Ora, se volessi prendermi un paio di guanti.»

Molly accenna un sì e va all’armadio dei materiali. 

Sherlock la guarda per un attimo e per un attimo è tentato di dirglielo. 

Mi ricordo di te.

Ma già sa che lei finirebbe per fraintendere, e francamente non vede ragione - o ragione valida - per tirare fuori quei momenti da un passato che evidentemente lei non ricorda. E probabilmente questa è la cosa che lo trattiene più di tutto il resto. Lei non ricorda. Lei non lo ricorda.

«Ecco.»

Sherlock la guarda. Lei sorride, porgendogli i guanti. Lui li prende e abbassa lo sguardo. La sedia scricchiola appena quando lei torna a sedersi. 

«Molly?»

«Si?»

«Grazie.»

Lei non risponde subito. «Non c’è di che.»

  
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