Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: lilac    14/10/2007    5 recensioni
Melissa, giovane cameriera in una tavola calda di New York, si sveglia un imprecisato giorno di Settembre scoprendo di aver appena commesso il più grosso errore della sua vita e di essere sul punto di pagarne molto care le conseguenze.
Genere: Romantico, Thriller, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


Ciao a tutti, questa è la prima storia che pubblico in questo fandom (e spero non sia l'ultima^^). E' stata scritta per un concorso su Writers Arena, forum di contest letterari, e ho deciso di pubblicarla anche qui. Spero che vi piaccia.
DUE PICCOLE NOTE (prima di leggere): - Questa è una storia romantica un po' particolare, con presenza di tematiche forti quali la violenza, anche se non trattate in modo esplicito, e un linguaggio lievemente colorito, perciò a chi pensasse di essere sensibile a questo tipo di tematiche consiglio di non leggere^^.
- Devo riconoscere che l'atmosfera di questa storia deriva in parte dalla mia frequentazione dei racconti di Edgar Allan Poe (in molti riconosceranno, soprattutto nella situazione iniziale, un riferimento piuttosto esplicito a "Il pozzo e il pendolo"), a cui mi sembra dovuto un (piccolo) grande riconoscimento, per aver influenzato il mio indegno tentativo di emulare un certo stile. Anche se il risultato è quello che è XD, non posso non citare questo scrittore che, tra i tanti, ha sicuramente, indirettamente contribuito a questa malsana fantasia.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura^^
Baci,
lilac.




BUIO




La prima sensazione fu quella di freddo. Un freddo che le attanagliava le membra penetrando fin nelle ossa. I sensi ancora intorpiditi, come risvegliatisi da un lungo sonno, le mandavano segnali confusi. Odori, soprattutto. Percepiva un odore sgradevole e metallico, forse un qualche solvente chimico o più probabilmente disinfettante, misto ad un odore di stantio e di chiuso. Sentiva freddo, come non ne aveva mai sentito prima. Ebbe la vaga consapevolezza che stesse tremando.
Un altro odore, simile a quello della terra bagnata, le penetrò violentemente nelle narici nel momento in cui provò a muoversi piano su un fianco. La assalì una sensazione spiacevole, assieme ad un improvviso dolore lancinante alla testa, che parve espandersi sordo a tutto il corpo come conseguenza di quel semplice gesto. Rimase immobile per qualche altro momento, in ascolto. Niente. Nessun rumore.
La sensazione che provò subito dopo fu quella della sete. Aveva la gola riarsa come se non toccasse acqua da settimane, le doleva terribilmente e faceva fatica a deglutire, ma la cosa più sgradevole era quel sapore amaro e disgustoso che sentiva in bocca, come se l’avessero costretta a mangiare una qualche putrida pietanza in decomposizione. Il solo pensiero la disgustò a tal punto che ebbe un conato di vomito. Quel sussulto le torse le viscere ferocemente, ogni fibra del suo corpo si irrigidì in uno spasmo doloroso che le bloccò il respiro per qualche istante. Le ci volle qualche minuto, così almeno pensò, per ritrovare un respiro regolare e qualcosa di simile ad una presenza di spirito.
Fece un secondo timido tentativo di muoversi e quella sorta di accenno le provocò una nuova fitta che le trapassò le tempie da parte a parte. Quasi con sorpresa, scoprì che il dolore era capace di risvegliare in lei un barlume di lucidità. Si mosse ancora, cercando di controllare con cautela i movimenti e si rese conto che era sdraiata su un pavimento umido. Con suo profondo sgomento si rese conto anche che i suoi movimenti non erano impediti solo dal torpore, aveva i polsi e le caviglie legate ben strette.
Appena il dolore pulsante alla testa diventò appena sopportabile decise di vincere l’angoscia che l’aveva assalita negli ultimi momenti, raccolse tutto il coraggio di cui disponeva e si risolse a prendere quell’ultima spaventosa iniziativa. Aprì gli occhi.
La sensazione che ebbe per ultima fu qualcosa che non aveva mai provato in modo così intenso: paura. Non si rese nemmeno conto di aver iniziato a piangere, le lacrime le rigarono silenziose il volto quasi rassegnate. Non si rese conto che una voce aveva istintivamente cominciato a ripetersi ossessiva e disperata nella sua testa per qualche oscuro istinto, ripetendo in continuazione la stessa domanda. Che cosa hai fatto, Melissa?!
Non vedeva niente, tutto intorno a sé era di un nero ancora più profondo del nulla. Niente, nemmeno le sue stesse mani. Era completamente buio.
Cominciò a gridare con tutto il fiato che aveva.

“Mel, il tavolo cinque sta ancora aspettando il caffè, dannazione!”
“Ora vado Joe, non rompere!”
La ragazza aveva accompagnato quella risposta diretta alle cucine con un lungo sguardo truce, che aveva poi finito per proseguire il suo tragitto posandosi sul ragazzo con gli occhiali dalla montatura sottile e con i capelli rossicci e scarmigliati, seduto al banco di fronte a lei.
“Non credere che il discorso sia finito qui Edward.” Aveva affermato piccata mentre usciva dal retro del bancone, con un bricco di caffè in mano, dirigendosi verso un tavolo vicino alla vetrata e sfoderando prontamente un sorriso gentile di circostanza. Il ragazzo aveva scrollato le spalle rassegnato. Ogni volta che in un discorso compariva la parola ‘Edward’, invece che ‘Ed’ o ‘Eddie’, era il caso di prepararsi al peggio, perché Melissa sapeva essere veramente spiacevole quando era nervosa per qualche motivo. Quel faccino minuto e simpatico di sicuro screditava la reale durezza di alcuni lati del suo carattere. Questo lo affascinava, doveva ammetterlo, ma al contempo gli procurava una certa inquietudine. Il fatto che il motivo del nervosismo di lei e la persona che sorseggiava il caffè seduta al bar, gettando distrattamente un occhio al suo portatile aperto sul banco, fossero un’unica entità, non preannunciava certamente nulla di buono.
“Ne ho abbastanza di stare ad aspettarti senza poter fare alcun programma Ed. Che cosa credi? Che la mia vita valga meno della tua solo perché tu hai un lavoro importante e io invece me no sto qui a servire il caffè?!” Aveva ripreso lei come non fossero mai stati interrotti.
Lo sguardo di lui si era adombrato impercettibilmente.
“Mel, stanno morendo delle persone.”
“Non sei un poliziotto Ed, sei solo un maledetto giornalista! Non sei tu quello che salva la gente, la sai la novità? Tu ti limiti a raccontare agli stimati cittadini che comprano il Times che in giro c’è un pazzo che rapisce…”
“… Uccide…”
“… Le ragazze.”
Quella precisazione era passata apparentemente inosservata. Lei lo aveva fissato in attesa, come a sfidarlo a ribattere alla sua ovvia constatazione, ma il silenzio di lui l’aveva irritata maggiormente e indotta a proseguire sarcastica.
“Lo sai qual è il problema? Proprio questo!”
Il bricco di caffè appoggiato con eccessiva veemenza sul bancone aveva costretto il giovane ad alzare lo sguardo sugli occhi brucianti di collera di lei. Per un momento gli era parso di scorgere anche in quelli un moto di tristezza e il tono più pacato con cui lei aveva continuato a parlare aveva confermato le sue impressioni.
“Non hai mai uno schifo di reazione, Cristo Santo! Ho appena paragonato il tuo lavoro ad una storiellina della domenica per ricchi borghesi e tu, caro il mio reporter investigativo della testata giornalistica più importante della città, non ti sei nemmeno un po’ incazzato! E’ pazzesco!”
“Devo andare.” Era stata la replica a quelle accuse.
L’aveva guardata per un lungo istante, e qualcosa in quello sguardo sembrava aver risposto, ma agli occhi di lei era apparsa come l’ennesima fuga e l’ennesima manifestazione di indifferenza.
“Ti chiamo più tardi.” Aveva detto il ragazzo uscendo dalla porta sulla strada, senza tradire la minima emozione.
Lei lo aveva seguito in silenzio con lo sguardo e aveva trattenuto a stento una lacrima. Detestava piangere di fronte agli altri e stava lavorando. Detestava piangere per qualcosa di così ovvio. Da quando lei e Eddie avevano smesso di parlare, di avere i loro momenti di intima felicità? Ne avevano mai avuti, piuttosto? All’inizio quel suo modo di restare impassibile di fronte ad ogni cosa le era sembrato rassicurante, ora cominciava davvero a soffrirne. Possibile che niente lo smuovesse? Ormai non se lo domandava quasi più, come non si domandava più il perché la sua vita fosse finita nello scarico del cesso di quella tavola calda sulla Lexington Avenue, a servire colazioni nell’East Side alla gente che aveva avuto successo. Come sempre si era imposta di archiviare quelle spiacevoli domande in qualche angolo buio della sua testa e di rimettersi a lavorare. Aveva sollevato lo sguardo e si era guardata intorno in cerca di qualche cliente da accontentare, almeno loro. Si era accorta solo in quel momento che qualcuno la stava osservando, nel momento in cui la sua attenzione era stata come calamitata da due occhi neri, vividi, che la fissavano curiosi e divertiti.
Aveva afferrato il bricco del caffè senza pensarci troppo e si era diretta a quel tavolo in fondo alla sala. Un ragazzo, seduto da solo, le aveva rivolto un sorriso educato, che aveva incurvato piacevolmente le sue labbra carnose e le aveva infuso all’istante un senso di tranquillità. Non aveva potuto fare a meno di restituire quel sorriso, mentre riempiva la sua tazza di caffè e afferrava il blocchetto delle ordinazioni.
“Che cosa desidera?”
“Vorrei proprio che non piangessi.” Aveva risposto l’altro con una voce ferma e seria che stonava con quel sorriso, ancora non del tutto svanito dalle sue labbra. Melissa l’aveva fissato per un secondo sorpresa.
“Hai degli occhi così belli…” Aveva continuato lui impedendole di replicare. “Non credo siano fatti per piangere.”
Melissa aveva trattenuto a stento un moto di imbarazzo di fronte alla sfacciataggine di quel giovane. Il suo aspetto indubbiamente affascinante e il modo in cui continuava a fissarla senza alcun pudore l’avevano per un momento disorientata. Un attimo dopo il suo carattere spigliato e i sei anni passati a servire clienti di ogni sorta le avevano suggerito invece una risposta tutt’altro che svenevole.
“Già, certo. Come no? Magari potresti cercartene una più scema, che ne dici?”
La risata limpida e sincera che aveva avuto in risposta l’aveva spiazzata di nuovo.
“Una più scema hai detto? Mmm… Non so se ci riesco.”Aveva risposto lui guardandosi intorno.
Dopo un secondo di ulteriore smarrimento, in cui un vago senso di risentimento le aveva colorato le guance, anche lei non era riuscita a trattenere un sorriso divertito. Quel tipo era anche simpatico, oltre che carino, e per nulla uno stupido…


Chissà da quanto tempo stava chiusa in quel posto? Chissà per quanto tempo era rimasta priva di conoscenza? E soprattutto chissà quanto tempo era passato da che si era svegliata e aveva cominciato a gridare? Aveva smesso di chiamare aiuto dopo quello che le era sembrato un tempo interminabile, la gola le bruciava ancora più di prima, sembrava stesse andando a fuoco. Era tutto inutile, non riusciva a sentire alcun rumore, quel posto doveva essere completamente isolato.
Il tempo sembrava non passare mai, eppure avrebbe giurato che fosse lì da mesi. La paura aveva come svuotato la sua mente, non era riuscita a pensare, a ragionare come faceva sempre quando si trovava in situazioni ingarbugliate. Quella non era una delle solite situazioni spiacevoli in cui finiva per cacciarsi di continuo, però. Il torpore con cui si era svegliata non era del tutto svanito poi; era come se qualcosa le impedisse di pensare, anche solo di ricordare come fosse finita lì. Tutto ciò che era riuscito a far breccia nella sua coscienza era stato un ineluttabile senso di realtà che le aveva imprigionato la mente nell’istante in cui si trovava. Quel gelo era reale, quel bruciore agli arti anchilosati, quella gola riarsa, il sapore acido del vomito in bocca, il dolore alla testa, quel buio, quella paura, era tutto reale.
Si impose di non piangere, di calmarsi e tentò con tutte le forze di pensare. Non poteva rassegnarsi e aspettare lì come una stupida, in preda all’angoscia, che qualcun altro facesse qualcosa per lei, non questa volta. Doveva esserci un modo per capire dove fosse, magari per cercare anche solo un interruttore e accendere la luce. Un brivido le corse lungo la schiena al pensiero di cosa avrebbe potuto vedere in quella stanza e si costrinse a ricacciare quell’istintivo senso di terrore da dove era venuto. Qualsiasi orrore avrebbe potuto trovarsi di fronte sarebbe stato meglio di quel buio opprimente che continuava a colmarle gli occhi spalancati a forza, fin quasi a dolere.
La prima cosa da fare era tentare di slegarsi. Si issò a sedere come poté, il dolore che sentì le giunse quasi come un sollievo, perlomeno non aveva gambe e braccia intorpidite e riusciva ancora a muoversi; oltretutto poté constatare che cominciava ad avere sempre più il controllo dei suoi movimenti. Si portò i polsi alle labbra per tastare il tipo di materiale che li teneva legati e si sforzò di allungarsi e tastare con fatica anche le caviglie immobilizzate. Lo sconforto l’assalì nuovamente. Al tatto le sembrò una di quelle corde di nylon usate per stendere il bucato, annodata in modo molto accurato per giunta. Sarebbe stato impossibile scioglierla con i denti o con qualsiasi altra cosa che non fosse una lama affilata. Doveva assolutamente trovare un altro modo.
Quel posto aveva cominciato intanto ad emettere segnali familiari. Cominciò a pensare di trovarsi in qualche scantinato, e riusciva ormai a percepire altri tipi di odori, forse il metallo di qualche scaffale, vecchia mobilia. Probabilmente, se fosse riuscita a fare un po’ di luce, avrebbe potuto anche trovare il modo di slegarsi, una porta, magari sarebbe potuta uscire di lì anche in fretta. Quell’inaspettato senso di speranza che aveva cominciato a farsi avanti le conferì una nuova forza. Cominciò a trascinarsi lentamente sul pavimento umido in cerca di una parete, ignorando il dolore sempre più intenso alle giunture e la gelida sensazione dell’impiantito scivoloso e ghiacciato sotto di sé.
Le era sembrato che fosse passata un’altra eternità da quando aveva cominciato a muoversi con quella rinnovata energia quando l’ennesimo allungarsi dei suoi piedi ricadde angosciosamente nel vuoto. Il senso di disperazione che la colse in quel momento superò ogni suo vano tentativo di controllare per l’ennesima volta il pianto. Istintivamente indietreggiò colta da un forte senso di vertigine. Si trovava in qualche modo prigioniera su una sorta di rialzamento, la cui altezza poteva anche essere notevole per quel che ne sapeva, o peggio ancora quella stanza avrebbe potuto nascondere trappole terribili o chissà che altro orrore. Improvvisamente capì il perché l’unica precauzione che quel pazzo aveva preso era stata solo quella di legarle mani e piedi. Improvvisamente l’unica speranza che era riuscita a trovare in quella situazione disperata lasciò il posto al più totale sconforto e ad una sensazione opprimente di vuoto. Era in trappola, in chissà quale oscura prigione, a chissà quale altezza da terra, in un posto isolato in mezzo al nulla.
L’ultimo briciolo di coraggio lo riservò a quell’idea estremamente risoluta che le balenò un istante dopo alla mente. Non aveva più nulla da perdere, si sarebbe gettata da lì. Fosse stato anche un suicidio non sarebbe stato peggiore che morire per mano di un folle. Non volle nemmeno prendere in considerazione che avrebbe potuto anche solo spezzarsi una gamba. Quella eventualità la spaventava anche più della stessa morte. L’idea di guadagnarsi una speranza per poi perderla in quel modo era troppo angosciante. Cominciò a convincersi che avrebbe rischiato il tutto per tutto. Cominciò anche a pensare che non ce l’avrebbe mai fatta.
Attese immobile un istante di troppo, paralizzata dalla consapevolezza più che dalla paura. I singhiozzi si fecero più regolari e infine scemarono, lasciando il posto a lacrime silenziose e malinconiche. Non riuscì a non pensare a lui nonostante tutto, ancora; avrebbe voluto che quel silenzio si riempisse della sua voce, cercò con tutte le forze di ricordarla.
Non era mai riuscita a perdonarsi per quello che aveva fatto, forse in quel momento le appariva chiaro per la prima volta, eppure allo stesso tempo sentiva che lo avrebbe rifatto ancora, anche un milione di volte. Che tutto ciò le tornasse in mente proprio in quel momento le apparve come una grottesca presa in giro. Non poté impedirsi di pensare vagamente, solo per un istante, che forse si stava meritando tutto quello, ma qualcosa dentro di lei la costrinse a ricacciare per l’ennesima volta indietro quella orribile sensazione, come se non volesse farsi del male ancora una volta, almeno non proprio questa volta. Forse era l’ultima occasione che aveva per tentare di essere indulgente con se stessa, cominciò a credere che almeno in quel momento se lo doveva.
Il rumore secco di una porta sbattuta e di passi attutiti che si avvicinavano senza fretta spezzarono improvvisamente il silenzio dei suoi pensieri e la gettarono nuovamente nel panico. Doveva muoversi, fare qualcosa. Era tornato.


“Dove credi di andare?”
Il ragazzo aveva alzato svogliato la testa dal cuscino, mormorando quelle parole con la voce impastata dal sonno e un’aria di sfida divertita negli occhi. Melissa si era voltata a guardarlo sorridendo mentre si infilava i pantaloni; per un attimo si era soffermata sulla sua schiena nuda, appena coperta dal lenzuolo, e sui capelli scuri che gli ricadevano ribelli davanti agli occhi dello stesso colore. Aveva ignorato quella strana sensazione di non meritarselo; lei, così insignificante.
“Pensavo stessi dormendo.” Aveva risposto continuando a rivestirsi, mentre lui indugiava in quella posa rilassata.
“Così pensavi di svignartela senza che me ne accorgessi, eh?”
L’improvvisa allusione alla clandestinità di quel rapporto aveva avuto il potere di irritarla e di metterla repentinamente sulla difensiva. Fare i conti con tutte quelle menzogne e quel senso di colpa era già abbastanza dura una volta fuori da quell’appartamento, non aveva alcuna intenzione di iniziare a tormentarsi ancora prima di andarsene.
“Lo sai che non posso fermarmi a dormire…” Aveva replicato seccata. “Edward sarà già tornato a casa a quest’ora. È più di un mese che faccio continui straordinari a lavoro. Prima o poi dovrò anche trovare qualche altra scusa.”
“Oppure posso pagarti io gli straordinari…” Era stata la risposta allusiva e maliziosa.
“La pianti di dire stronzate Jimmy!”
La ragazza era sbottata nervosa, mentre finiva di recuperare i suoi effetti personali con una fretta che si era fatta più evidente all’improvviso. L’altro si era voltato in posizione supina per seguire i suoi spostamenti e aveva incrociato le braccia dietro la testa sistemando distrattamente un cuscino, con una naturalezza che non aveva tradito il minimo segno di inquietudine.
“E dai, Mel. Piantala tu di essere sempre così nervosa…” L’aveva rimproverata senza cattiveria. “Potresti anche mollarlo una volta per tutte quel tipo. Almeno la finiresti di essere sempre così insopportabile.”
Melissa si era soffermata ancora una volta un momento ad osservarlo, il sorriso che aveva sempre nello sguardo ogni qual volta le sbatteva in faccia la realtà aveva un che di adorabile e di invincibile. Si era sorpresa ad ammettere che avesse ragione. Ogni scontro verbale con lui non era mai un vero scontro, qualsiasi cosa lei potesse ribattere aveva sempre perso in partenza. E il bello era che Jimmy non pretendeva mai di aver vinto, né le rinfacciava nulla. Le faceva sembrare tutto facile, anche i suoi fallimenti, anche le sue mancanze, e soprattutto le sue colpe.
“Non posso farlo in questo momento, ne abbiamo già parlato…” Aveva risposto con un tono molto più calmo. “È troppo preso da quel caso, non riuscirebbe nemmeno a starmi a sentire. Lo sai, se c’è una cosa che voglio fare per bene nella mia vita è rompere con Edward. Anche se siamo stati insieme solo per un anno, non è uno qualsiasi.”
“Sì, lo so.”
La risposta di lui era stata come sempre sincera e comprensiva. Melissa non riusciva ancora a spiegarsi il perché avesse sempre quella strana sensazione di avere di fronte due persone diverse quando era con Jimmy. Riusciva sempre a dirle le cose con un tono e a comunicarle con le espressioni del viso qualcosa di diverso. Aveva cominciato ad abituarsi a quel suo modo di fare, ma qualcosa in lui continuava a sorprenderla e a spiazzarla in qualche modo. Come quel suo improvviso sguardo serio, in quel momento.
“E poi…” Aveva ripreso alleggerendo il tono. “Se continui a chiedermi notizie sul lavoro di Ed rischi di farmi riappacificare del tutto con lui, praticamente riusciamo a fare una conversazione decente solo quando mi informo sul suo caso. Non vorrei darti anche questa notizia.”
Lui aveva finto una smorfia disgustata e le aveva risposto ancora una volta vagamente ironico. “Ammetterai che non capita tutti i giorni di avere informazioni così particolareggiate su un caso di cronaca del genere, mi pare almeno il caso di guadagnarci qualcosa.”
Melissa non aveva potuto ancora una volta fare a meno di sorridere. “È meglio che me ne vada, prima che cominci pure io a squartare qualcuno. Devo scappare!”
Si era chinata frettolosamente a baciarlo, liberandosi un attimo dopo dalla stretta insistente di lui, che l’aveva trattenuta simulando un lamento disperato, prima di lasciarla andare.
“Dimentichi quello.” Le aveva ricordato poi tornando serio, quando ormai aveva guadagnato la porta, indicando con un cenno del capo il plico di fogli scritti a mano sopra il comodino.
Una espressione canzonatoria era apparsa sul volto della ragazza mentre tornava sui suoi passi sbuffando.“Finalmente mi decido a darmi da fare per realizzare il sogno di una vita e poi mi dimentico il mio libro in giro come fosse carta straccia. Sono proprio una scrittrice nata!” Si era schernita, sottolineando in modo eccessivamente pomposo la parola ‘libro’ e afferrando il manoscritto.
“Che vuoi farci, gli artisti sono così…” Era stato al gioco lui vagamente distratto. “Sempre con la testa da un’altra parte.”
“A proposito di ‘testa da un’altra parte’…”
Melissa aveva raggiunto nuovamente la porta quando le era balenata negli occhi una certa aria vendicativa e beffarda che l’aveva indotta ad indugiare sullo stipite. “Un giorno di questi me lo dirai come accidenti passi il tempo quando non ci vediamo, vero? Ok che lavori tanto, ma pensi che prima o poi riuscirò ad essere degna di condividere un tale segreto o dovrò rimanere ancora per molto a crogiolarmi nelle supposizioni e nel mistero?”
Il ragazzo aveva storto la bocca per un attimo in una smorfia impercettibile prima di rispondere col suo solito fare ironico.
“Certo. Non appena quel libro sarà esposto nella vetrina di una libreria in centro e avrai mollato il tuo fidanzatino.”
“Stronzo!”
L’aveva insultato fin troppo divertita, mentre gli lanciava per ripicca una maglietta appallottolata raccolta dal pavimento. Lui l’aveva afferrata deciso, del tutto impassibile, scostandosi appena.
“Ma non eri in ritardo?”
“Cavolo, sì! Ciao Jimmy, ci vediamo presto.”
“Ciao.”
Aveva fatto appena in tempo a salutarla, un secondo dopo aveva sentito la porta d’ingresso che si chiudeva rapida e leggera e i passi attutiti di lei sul pianerottolo. Era rimasto ancora un momento seduto sul letto assorto in qualche pensiero. Per un istante un’ombra gli aveva oscurato lo sguardo impercettibilmente, sembrava avesse voluto rivolgere quello sguardo indefinibile verso una qualche parte della stanza nascosta e altrettanto ineffabile, un angolo buio in cui solo lui riusciva a vedere.
“Un giorno di questi te lo dirò Melissa, non preoccuparti. Lo saprai presto.” Aveva mormorato tra sé e sé con una strana inflessione della voce. Poi quel buio nei suoi occhi era scomparso improvvisamente così come si era materializzato, aveva riso di qualcosa e si era deciso ad alzarsi e a prepararsi un caffè.



Lo scatto della serratura le sembrò un colpo dritto al cuore, lo sentì palpitare freneticamente come se volesse schizzarle fuori dal petto. Aveva fatto maledettamente in fretta, era stata lei a perdere un’infinità di tempo, non ebbe il tempo di pensare a nulla. La luce fredda inondò la stanza ferendole gli occhi violentemente. Fu costretta suo malgrado a serrarli istintivamente e a rifugiarsi di nuovo nel buio, ma l’inquietudine che la colse subito dopo la forzò ad aprirli di nuovo, lentamente. Tentò disperatamente di abituarsi in fretta alla luce, cercando al contempo di focalizzare il contenuto di quella stanza e soprattutto i movimenti di quell’uomo, che sentiva armeggiare con qualcosa di metallico sotto di lei.
Era come aveva immaginato, si trovava su un soppalco piuttosto stretto, forse un paio di metri di larghezza, a due, forse tre metri d’altezza rispetto al piano sottostante. Era del tutto spoglio, il pavimento era umido, ma quello che aveva scambiato per terra era in realtà una polvere sottile simile a sabbia, forse segatura. Una fugace occhiata al piano di sotto le confermò che probabilmente si trovava in una specie di scantinato o in uno di quei rifugi antiatomici, frutto delle follie dell’America di qualche anno addietro, quando si pensava di poter sopravvivere alla bomba atomica. Che assurda ironia finire prigioniera di un folle in un posto del genere. Quante di quelle casette in periferia ne potevano avere uno? Aveva sentito dire che molti di quei rifugi, ormai in rovina, erano diventati cantine, ripostigli. Le sembrò incredibile riuscire persino a ricordare i discorsi con i clienti in un momento del genere. Si sporse appena, il tanto che riuscì, per cercare febbrilmente di capire cosa stesse facendo l’uomo, scomparso alla sua vista, e notò che la parte inferiore della stanza era piuttosto ordinata e pulita, in modo quasi ossessivo, anche se l’arredamento era piuttosto spartano e i pochi mobili sembravano vecchi di qualche decennio. Era colma di oggetti di svariata natura stipati in scaffali di metallo bullonati al muro. I muri stessi sembravano di un qualche metallo, forse acciaio. Non c’erano finestre.
I passi lenti e pesanti dell’uomo che saliva per le scale e sembrava avvicinarsi la riportarono prepotentemente alla realtà in un batter d’occhio e interruppero quelle congetture meccaniche. Si ritrasse e gemette istintivamente quando una botola su pavimento si aprì e ne sbucò un uomo con un passamontagna scuro che gli copriva completamente il volto. Non riuscì a guardarlo negli occhi. Nulla poté il debole tentativo di sottrarsi alla sua stretta, quell’uomo pareva avere una forza al di là delle sue possibilità. Cominciò a sentirsi stanca e rassegnata al peggio, si abbandonò quasi quando l’altro la trascinò di peso come un sacco vuoto e la portò non troppo delicatamente al piano inferiore. Il dolore che sentì quando venne letteralmente scaraventata a terra con noncuranza non fu che un ulteriore prova che fosse ancora viva però, e questa ultima consapevolezza sembrò risvegliare in lei un po’ di quella ostinazione e di quel carattere irascibile che aveva sempre dimostrato. Quella parte di sé che era ormai rassegnata al peggio pareva averle concesso anche un ultimo moto di dignità.
“Chi sei? Che cazzo vuoi da me, brutto bastardo?!” Gridò arrabbiata e sprezzante al suo rapitore in un sussulto d’orgoglio.
Le movenze sotto quel passamontagna le suggerirono che il suo rapitore stesse sorridendo. Il tono della voce di lui, distorta da quella pesante copertura, confermò la sua impressione fin dalle prime parole che gli sentì pronunciare.
“Melissa, sempre con la testa fra le nuvole…” Disse l’uomo con un’inflessione divertita, scuotendo lievemente la testa “Non li leggi i giornali?”
Un tuffo al cuore le impedì di reagire come avrebbe voluto di fronte a quella verità. Forse per la prima volta, da che aveva ripreso i sensi in quel luogo buio, aveva avuto una reale conferma di ciò a cui finora, più o meno deliberatamente, aveva evitato di pensare e questo la gettò nel panico come non aveva pensato potesse mai accadere, nemmeno dopo quello che le stava succedendo. Ricominciò a tremare.
“Ti prego. N… non farmi soffrire…” Si ritrovò a mormorare piangendo, con un filo di voce, alla vista del coltello che l’uomo aveva estratto dalla tasca dei pantaloni. Il luccichio della lama sotto la luce al neon sembrò come ipnotizzarla e le prosciugò definitivamente ogni energia imprigionandone i sensi. Abbassò lo sguardo distogliendolo dall’arma solo quando l’altro cominciò a parlare, come se quella voce le facesse ancora più paura.
“Tu non sei come le altre, no… O meglio, sì, cazzo! Avresti dovuto essere diversa, ma sei proprio come tutte le altre puttane che ho sgozzato…” Replicò appena irritato l’uomo mascherato, giocando nervosamente col coltello fra le mani. “Piangete tutte, povere piccole, ma quando dovete darla via non vi fate troppi problemi…” Continuò poi con un tono che tornò spaventosamente calmo e suadente. “Tu però sei una puttana speciale, a te ho riservato un trattamento di favore.”
L’accento con cui la parola ‘trattamento’ risuonò nelle sue orecchie le sembrò la cosa più agghiacciante che avesse mai udito. Improvvisamente però, un barlume di coscienza si fece strada attraverso la nebbia di quel torpore e Melissa riconobbe quella voce. Quella scoperta fu estremamente più agghiacciante di ogni altra emozione che aveva provato in quelle ultime ore, tutte le sensazioni che aveva provato in quell’ultimo, angoscioso lasso di tempo la investirono centuplicate in intensità al punto che le sembrò di essere spazzata via, polverizzata, disintegrata in modo quasi fisico e tangibile. Un qualcosa, che aveva sentito rantolare sordo in qualche parte nascosta di sé per tutto quel tempo, era prepotentemente tornato a farsi sentire più intenso che mai, un terribile senso di colpa.


“Possibile che non riesci proprio a capire Mel?! Le cose stanno così per il momento, questo caso è troppo importante! Ho lavorato un’intera vita per realizzare il mio sogno. E ci sono riuscito...”
L’inflessione di quelle ultime parole, la velata allusione ai suoi sogni che non aveva mai realizzato l’aveva ferita profondamente, aveva cercato di scostare lo sguardo da quegli occhi, che tante volte erano stati comprensivi e avevano condiviso le sue stesse speranze. Non riusciva più a riconoscerli, e questo le infondeva un’enorme tristezza, al di là dei sentimenti che non provava più. Lo osservava in silenzio camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza.
Aveva trattenuto a stento un sorriso velato di amarezza. Quella era una reazione dopotutto, forse non quella che avrebbe sperato di vedere, però. A volte riusciva ancora a sorprenderla, aveva pensato con rammarico, quel tono nervoso e irritato non sembrava affatto da lui.
“Ho per le mani il caso di cronaca più notevole che sia mai capitato dalle parti della redazione da almeno dieci anni. Io, capisci?! L’hanno affidato a me! Dopo solo un anno che sono lì! Non posso giocarmi in un momento la carriera e la possibilità di mettere fine a questi brutali omicidi solo per dare retta alle tue patetiche gelosie, Melissa!”
Un lieve senso di colpa le aveva imporporato le guance nel sentire quella parola, ‘gelosia’. Forse Edward aveva ragione, forse aveva diritto almeno lui a farcela davvero, forse non meritava le sue menzogne. No, non le meritava affatto.
“Gelosie?”
Si era pentita un attimo dopo avergli fatto quella domanda, con quel tono provocatorio. Sapeva che costringerlo a rispondere avrebbe rovinato per sempre quello che c’era stato fra loro, se mai ci fosse stato qualcosa, eppure aveva quasi sentito il bisogno di farlo. Forse aveva provato il bisogno di placare quel senso di colpa, di attribuire una bella fetta di peccati anche a lui, sempre così nel giusto, sempre perfetto in ogni cosa. Perfino quando facevano l’amore non perdeva mai il controllo di sé e di ciò che gli succedeva intorno. Come erano diversi, non riusciva più a capire il perché le cose tra loro avessero mai potuto funzionare.
“Sì, Mel, gelosie…” Aveva risposto esasperato l’altro guardandola nuovamente negli occhi con rabbia. “Non è colpa mia se non sei riuscita a realizzare il tuo sogno. Non è colpa mia se lavori ancora in quella dannata tavola calda dopo tutti questi anni. E non è colpa mia, cazzo, se io invece sono riuscito a fare quello che volevo e tu sei una fallita! Ne ho abbastanza di pagare per queste stronzate!”
Quelle ultime parole erano rimaste in sospeso nell’aria, che si era fatta improvvisamente più leggera, taglienti come lame. Pareva essersi dileguata quella zavorra opprimente che da mesi continuava ad ammorbare ogni parola che si erano scambiati. Le lacrime di lei erano state altrettanto liberatorie, come quel silenzio. Per una volta erano state le sue parole a suonare come una fuga.
“Devo andare a lavorare. Ne riparliamo domani.”
Aveva parlato con un tono pacato che contraddiceva gli occhi umidi di pianto e il rapido gesto col dorso della mano che li aveva asciugati in fretta, poi aveva afferrato la borsa e si era avviata verso la porta senza voltarsi a guardarlo.
“Ok” Aveva risposto Edward ritrovando in un lampo la calma.
Melissa aveva stretto a sé quella borsa per quasi tutto il tragitto in metropolitana. La gente l’aveva osservata con indifferenza, come fosse una cameriera qualsiasi che temeva di essere scippata delle poche mance della giornata. Quella ragazza invece, con la divisa da cameriera e la faccia pulita da ragazza di campagna come mille altre, non si sentiva affatto una qualsiasi in quel momento, mentre stringeva tra le braccia il suo vero, primo romanzo. Non vedeva l’ora di dirlo a Jimmy di quel contratto, non riusciva più ad aspettare, avrebbe voluto vederlo subito, avrebbe voluto vederlo ogni giorno, ma si costrinse a portare pazienza fino almeno all’indomani. Era sempre lui a cercarla, ma questa volta si sorprese ad essere felice di avere davvero un buon motivo per chiamarlo.
Forse una parte di sé non vedeva l’ora di dirlo anche ad Edward. Forse quando tutte quelle menzogne avrebbero avuto fine, quando sarebbe riuscita ad essere finalmente sincera con lui, avrebbero anche potuto essere amici, lasciarsi alle spalle recriminazioni e rancore. Avrebbe potuto essere di nuovo il suo Eddie.
Uscendo dalla tavola calda a fine turno, quella notte, stava ancora pensando ad entrambi e stringeva ancora con fare protettivo quella borsa, quando aveva scorto un’ombra dall’altro lato della strada. Per un momento si era anche spaventata, dandosi della stupida un secondo dopo. L’aveva guardato con una certa diffidenza e un certo stupore, dopo averlo riconosciuto, le era anche quasi sfuggito un sorriso sollevato.
“Che cosa ci fai qui? Non avevi da fare?”



“Oh mio Dio, sei tu!”
L’altro rise divertito con una inflessione sadica nella voce. “Bene, ti sei ricordata finalmente. Sapevo che l’effetto della droga sarebbe svanito del tutto da un momento all’altro.”
Melissa, in preda al più bruciante sgomento, fu in un attimo sopraffatta dalla tristezza e dall’umiliazione. Non riuscì a trattenere di nuovo le lacrime e le parole le uscirono di bocca tremanti, rivolte istintivamente più a se stessa che all’uomo che aveva di fronte.
“Tutto questo tempo. Mi hai preso solo in giro, mi hai usato…” Sussurrò fissando il pavimento.
“Oh, non fartene una colpa, piccola…” Rispose fintamente comprensivo l’uomo. “Se leggessi i giornali sapresti che sono completamente pazzo.”
Distrutta e abbattuta dai suoi stessi pensieri, a quelle parole sollevò di nuovo lo sguardo come a volerle negare. Si sforzò di rivolgersi a lui come se fosse ancora quello che credeva di conoscere “Io ti amavo, come hai potuto…”
“… Ingannarti così? Anzi no, mi correggo, ingannare tutti così?” La interruppe con una insana allegria, la voce sguaiata e distorta dalla follia, come a suggerirle le parole. “Che ci vuoi fare, sono pazzo, ma sono anche maledettamente bravo!”
“Perché?!” Fu l’unica flebile parola che riuscì a pronunciare lei, con un filo di voce, eppure pesante come una montagna.
“Te l’ho detto, Melissa!” Rispose improvvisamente seccato l’altro “E detesto ripetermi… Le donne sono tutte delle maledette puttane… E tu non fai eccezione, mia cara…”.
Melissa lo osservò con la coda dell’occhio passeggiare nervosamente avanti e indietro come se stesse percorrendo una sorta di percorso immaginario. “Quanto credi che avrei dovuto aspettare, eh?! Credi forse che sia uno stupido?!” Gridò sguaiatamente avvicinandosi di scatto quel tanto da provocarle un tremito inconsulto. Si allontanò da lei subito dopo, altrettanto repentinamente, con un moto di disgusto. “Non hai idea di quanto ho fantasticato su questo momento, Melissa…” Continuò con tono eccitato, ricominciando a passeggiare nervoso, in silenzio.
“Tu non hai idea di un cazzo!” Concluse infine sprezzante, alzando di nuovo la voce.
Lei sussultò appena, ormai come inebetita. Chinò nuovamente la testa arrendevole restando in silenzio. Quell’ultima scottante rivelazione aveva spazzato via violentemente l’ultimo barlume della sua voglia di sopravvivere. Aveva ragione. Lui aveva ragione. Non era stata nient’altro che cieca e sorda a qualsiasi cosa, sempre e comunque, per tutta la sua insignificante vita. Non riuscì a provare rabbia verso quell’uomo che l’aveva tradita così brutalmente, non riuscì a provare rabbia nemmeno verso se stessa per non aver capito niente. Provò un’insopportabile stanchezza, smise persino di piangere, come se non avesse più la forza di fare nemmeno quello. Si scoprì per la prima volta a desiderare sul serio di morire, di porre fine per sempre a quella patetica esistenza. Quella sensazione di colpevolezza che aveva pesato come un macigno in quell’ultimo breve periodo della sua vita, che aveva aleggiato minacciosa sulla sua coscienza come un’ombra sinistra, sembrò emettere tutto a un tratto un’estrema e ineluttabile sentenza di morte. Pensò di nuovo a lui, senza rendersene conto.
Sentì appena le parole sprezzanti dell’altro, che la rimproveravano con finto rammarico, quando chiuse gli occhi e si rifugiò ancora una volta ostinatamente nel buio.
“Che ti prende tesoro? Ti facevo un tipetto più agguerrito, mi pareva di aver imparato a conoscerti…”
Non sentì nient’altro di quello che continuava a dirle. Percepì appena il tono cantilenante, ritmico, ossessivo, scandito dallo sbattere irregolare della lama del coltello sul palmo della mano di lui. Percepì appena anche i suoi passi sul pavimento mentre si avvicinava. Non sentì il gelido tocco di quella lama sfiorale la pelle e nemmeno alcun dolore, quando le lacerò la camicia, poi la carne. Continuò a non sentire niente e a tenere gli occhi chiusi. L’ultima cosa che vide fu il buio.



“… Signorina Hernandez? Melissa?! Tutto ok?”
“Eh? Uhm… Sì.” La ragazza aprì gli occhi di scatto, sembrò accorgersi solo in quel momento di averli chiusi e dell’uomo dallo sguardo preoccupato che aveva di fronte. Gli rivolse istintivamente un sorriso e si toccò involontariamente il fianco. Anche attraverso i vestiti le sembrava che quella cicatrice potesse vedersi. Quanto a bruciare, quello non aveva mai smesso di farlo.
L’uomo si lisciò con un gesto meccanico la barba e la scrutò con fare rassicurante per qualche istante. Prima di rivolgersi nuovamente a lei, gettò una rapida occhiata alla cartelletta che teneva sulle ginocchia.
“Dunque, durante le scorse sedute abbiamo parlato a lungo di quel giorno, ma anche di come si sente oggi nei confronti di Jim… E di Edward… Di come ha reagito al successo che ha avuto il suo libro… E di quanto sia stato doloroso apprendere molte cose che non sapeva e che pensava di sapere…” L’uomo fece una pausa più lunga come a dare un peso maggiore a quella ultima frase. “Non abbiamo ancora parlato di cosa prova realmente verso se stessa. Perché non iniziamo a farlo ora?”
“Cosa provo verso me stessa?” Ripeté meccanicamente lei come a ponderare il peso di quella domanda.
“Mettiamola così, Melissa…” L’aiutò l’uomo esortandola a parlare. “Razionalmente lei sa bene che le cose difficilmente sarebbero potute andare diversamente. In quest’ultimo anno lei è riuscita a perdonare un mucchio di gente e un mucchio di menzogne…” Un’altra pausa.
“Pensa di essere riuscita a perdonare anche se stessa, per non essersi accorta di quello che stava accadendo, per aver tradito Edward?”
Melissa si morse istintivamente un labbro e inarcò un sopracciglio, la sua espressione titubante tradì una fugace perplessità di fronte a quella domanda insolitamente diretta.
“Sì, credo di sì.” Fu la sua risposta non troppo convinta. “Credo di aver capito di non essere poi così forte come pensavo… Di avere più problemi con me stessa di quanto immaginassi…”
L’altro annuì e guardò l’orologio per un istante.
“Bene, per oggi abbiamo finito. Riprenderemo mercoledì da quest’ultimo argomento.” Disse alzandosi e accompagnandola con un sorriso alla porta.
In quest’ultimo anno lei è riuscita a perdonare un mucchio di gente… L’eco di quelle parole le risuonava ancora nella testa quando uscì per strada e lo vide appoggiato allo sportello della sua macchina. Aveva ancora quel modo di sorridere che aveva notato il giorno che l’aveva conosciuto, quel modo di fare apparentemente indifferente. Dopo tutto quel tempo credeva di averlo dimenticato e questo particolare le sembrò per un momento ironico e curioso.
“Cosa ci fai qui, Jimmy? Non avevi una riunione con i tuoi colleghi questo pomeriggio?”
“Sai come sono quelli dell’ F.B.I., tutti pronti a darsi malati in giornate come questa.” Rispose con la solita ironia, calcandosi con un gesto studiato gli occhiali da sole sul naso.
“Io pensavo fossero tutti bugiardi con ogni tipo di clima.”
La risata limpida e profonda di lui le giunse in risposta ancora una volta come un suono familiare. Sentì una sensazione di calore che la invitò a chiudere gli occhi e ad assaporare gli ultimi raggi di sole di quella giornata estiva.
“Me lo rinfaccerai a vita, vero Mel?” Le chiese con quello stesso sorriso ineffabile di sempre. Lei lo apostrofò con un sorriso simile, anche questo pensava di averlo imparato da lui o forse aveva semplicemente imparato ad esprimere una parte di sé che non conosceva.
“Probabilmente sì, fintanto che tu continuerai a rinfacciarmi di avermi salvato la vita… E soprattutto a ripetermi che me l’avevi detto di decidermi a mollare Edward.”
Lui rise appena, scostandosi dalla macchina.
“Mi pare un’ottima soluzione…” Replicò togliendosi gli occhiali da sole e infilandoli in una tasca della giacca. “Abbiamo cose terribili da rinfacciarci per un bel po’ di tempo. Praticamente tutto ciò che ci serve per essere una coppia perfetta.”
“Noi non siamo affatto una coppia Jimmy.” Gli ricordò leggermente infastidita.
Il ragazzo non mostrò il minimo segno di disagio. “Ci sto lavorando.” Rispose in modo pacato prendendole la mano e cominciando a camminare.
“Dove mi stai portando adesso?!” Protestò lei voltandosi sconsolata verso la sua macchina.
“A fare una passeggiata. Mai visto un sole così a New York, mi pare il caso di approfittare di questa luce prima che faccia buio.”






FINE



  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: lilac