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Autore: The queen of darkness    28/03/2013    3 recensioni
Sono soltanto proiezioni, il più delle volte; strane figure che abitano la vita dei colpevoli, di chiunque abbia un peccato da confessare e cerca disperatamente di dimenticarsene,
Ma, forse, il crimine nemmeno esiste, ed è solo un'altra proiezione.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Flash and Flesh, Bang and Bones'
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Kenni  aveva  la brutta abitudine di rovinarsi davanti allo specchio.
Anche in quel momento era protesa verso qualche scheggia riflettente sulla parete, ridacchiando mentre snocciolava i versi di una canzoncina per bambini. Parlava di caramelle, di zucchero e d’estate, come se lei sapesse davvero cos’era, l’estate.
Le sue unghie erano più affilate di rasoi, lunghe circa un centimetro e dai bordi taglienti, quasi innaturali. Con l’indice aguzzo della mano destra, toccò leggermente la carne tenera che ricopriva lo zigomo, con attenzione, poi affondò uno di quegli artigli appena sotto l’occhio, tracciando un solco profondo che trascinò fino al mento.
Come perle di un rosario dannato, alcuni minuscoli e tondi zampilli fecero la loro timida comparsa lungo i bordi dritti, seguendo il filo di ciò che li aveva causati. Piano, descrissero un’elegante parabola lungo la carne bianchissima e levigata, fino a gocciolare sul collo.
Una volta le avevo chiesto se qualcuno l’avesse ricoperta di porcellana, ma lei mi aveva risposto di no. Credo mi avesse mentito.
-Smettila – le dissi, infastidita. Non riuscivo a smettere di guardarla, eppure mi ripugnava.
Sulla sua fronte, si allungavano cicatrici non del tutto guarite, affusolate stalattiti che, dall’arco delle sopracciglia disegnate, arrivavano fino all’attaccatura dei capelli tinti di un rosso acceso.
Senza voltarsi, lei lasciò scivolare lo sguardo su di me attraverso lo specchio. Ridacchiò, schioccando la lingua ridotta ad una poltiglia irriconoscibile e gonfia.
-Ah, nessun senso dell’umorismo, Attle! – mi disse. Sembrava un serpente, sinuoso e letale.
Sapeva bene quanto odiassi quel soprannome, lo avevo sempre detestato. Da quando lo aveva coniato per me non facevo che ripeterle che non mi piaceva, eppure si ostinava a rivolgersi sempre a quel modo irritante.
Vedendo quanto mi avesse urtato, rovesciò la testa all’indietro gorgogliando una risata spettrale. Poi, le sue iridi prive dell’abbraccio delle ciglia si fecero quasi derisorie. Sembrava che disapprovasse il mio modo di vivere, almeno quanto io evitassi il suo.
Kenni tornò a riconcentrarsi sul proprio riflesso. Dal labbro inferiore prolungò il profilo di un taglio grazie all’unghia del pollice.
Sotto ad ogni corniola candida c’era un cumulo di sangue rappreso, tanto da far pensare che avesse lo smalto solo sulla parte più alta di ogni artiglio.
Distolsi finalmente lo sguardo; vagai con il pensiero lungo la superficie del tavolo vicino a cui ero seduta, scontrandomi con la siringa ormai vuota. Lo stantuffo era rotto, dovevo aver premuto troppo forte.
Le convulsioni quel giorno erano state molto più violente di ciò che volevo credere, segno inesorabile della mia dipendenza dai Sogni: proprio in quel periodo si erano fatti sempre più realistici, rischiando di farmi cadere nell’illusione che Foshka fosse ancora con me. In realtà, ogni volta che tornavo lucida, sapevo benissimo che non era così, e tutto per colpa mia.
La risata di Kenni mi distrasse ancora una volta. Sembrava un’allegra bambina, mentre lasciava che un altro brandello di carne sfilacciata sporcasse il suo vestito bianco e leggero. Odiavo vedere il suo corpo, troppo scheletrico, ma non potei rinunciare, come sempre.
Gli arti sembravano sul punto di staccarsi da un momento all’altro, troppo sottili per potersi sostenere a vicenda, legati solo da tessuti logori.
All’improvviso, quel che restava di intonso nella sua faccia appuntita si crucciò: aveva finito lo spazio.
-Posso usare la tua? – mi chiese, senza voltarsi.
Io stavo fissando le striature giallognole dell’infezione sui suoi polpacci. –No.
Kenni pestò i piedi come una bambina. –Sei ingiusta, Attle! – piagnucolò ma, visto che non le stavo dando attenzione, prese un asciugamano lercio e se lo passò sul viso, spalmando il sangue delle varie ferite anche sulla restante porzione liscia e intatta.
Ne risparmiava sempre un pezzetto, in modo da frenare la voglia una volta che sarebbe tornata. Perché tutte e due sapevamo che tornava sempre, puntuale come un orologio.
 Quand’ebbe finito di aggravare la situazione, si dedicò alla pulizia delle unghie. Le teneva con cura quasi maniacale, dal momento che erano gli unici attrezzi che le permettessero di farsi del male. Una volta avevo provato a tagliargliele mentre dormiva ma, non essendomi accorta dell’altro braccio che si stava per abbattere sulla mia testa, mi ero ritrovata frastornata a terra. Kenni era saltata su dal letto ululando come un licantropo e poi aveva ingoiato la forbice, passando il resto della notte cercando di vomitarla fuori.
-Certo che potresti proprio regalarmelo, un coltello – disse ad un certo punto, sembrando seria. Osservava le sue guance da diverse angolazioni, per cogliere meglio gli sfregi che si era inflitta durante quella terribile ora. – Se mi vuoi bene ogni tanto dovresti farmi un regalo, non ti pare? E l’unica cosa che voglio è un coltello, mi basterebbe anche un serramanico, o una cosa del genere.
Io non replicai, limitandomi a prendere in mano la siringa e a passare la lingua lungo l’ago. Persino i residui dei Sogni andavano trattenuti, poiché erano troppo costosi per sprecarne anche solo una goccia.
In quei mesi ero diventata una vera e propria esperta di siringhe, più che altro per fuggire dall’odore di sangue e sesso stantio che abitava la casa come un’ospite fisso e sgradito. A Kenni non importava essere pulita, o vivere in un ambiente che lo fosse, e io ero troppo instabile per rimanere lucida il tempo necessario a rendere il tutto decente. Poi, da quando Folshka era morta, (o meglio, da quando l’avevo uccisa), nessuno si preoccupava dell’estetica della casa.
-Insomma, se davvero mi vuoi bene darmi un coltello non ti costerebbe nulla. È assolutamente un’ingiustizia che in casa non ce ne siano.
La ignorai di nuovo: la punta mi aveva pizzicato il palato, avvertendomi con la pressione leggermente più prepotente del previsto che qualche Sogno doveva essere rimasto all’interno. Senza indugiare oltre, mi portai l’oggetto davanti agli occhi.
Non mi ero sbagliata, sul fondo brillava ancora un po’ di liquido. Puro nettare proibito.
Sapevo che non dovevo, ma fu più forte di me. Rischiavo un overdose, ma all’improvviso non mi importava nulla. Volevo solamente sognare Folshka, di nuovo, e lasciare che lei mi abbracciasse come faceva sempre, prima che la lasciassi a casa da sola con Kenni.
Avevo sbagliato e stavo sbagliando ancora; ero l’unica a cui Kenni non faceva del male, era sempre stata troppo innamorata di me per trasfigurarmi; ed era gelosa dell’amore della mia vita.
Le aveva…tolto tutti i vestiti. A casa vidi bruciare la biancheria e i jeans che aveva indossato quella mattina, e capii fino in fondo quanto stupida ero stata.
 Arrotolai piano una manica fino al gomito, senza dire nulla. Evitai di guardare il grumo di vene bluastre che, continuamente bucherellate, avevano reso la mia pelle simile ad una delle tante infezioni che abitavano sul corpo ossuto di Kenni.
Tastai con il pollice, in cerca del punto giusto. Alla fine lo trovai, un pulsante passaggio perfetto per tutti i Sogni lì rimanenti; era abbastanza grosso e robusto, sarebbe stato difficile da perforare.
-Non credo che potrei mai morire prima di aver visto il colore delle mie ossa. Insomma, una persona vive con tutti quegli ossicini incastrati dentro la carne e non riesce nemmeno a toccarli, capisci? È tragico. Con un coltello potrei riuscire a sbriciare, solo un pochino, lo prometto. Sarebbe divertente, e poi richiuderei tutto quanto.
Poggiai la punta affilata del contenitore sul luogo che avevo scelto, prima di ricordarmi che la siringa era manomessa. Strinsi un po’ di più la cinta allacciata contro il mio braccio, poi lo appoggiai al ginocchio e cercai di tenere tutto ben chiuso con un bordo di cuio incastrato fra i denti. Lo stavo tenendo in tensione, e sentivo il sangue rimanere intrappolato in quella gabbia di carne.
Anche se con qualche difficoltà, riuscii a premere lo stantuffo, sentendo il familiare liquido entrare subito in circolo. Era un veleno che agiva in fretta, fresco e contrario alla direzione normale della circolazione sanguigna.
Il rilassamento fu tale che la cintura mi scappò via dalle mascelle, diventate per un attimo simili a tenaglie: lasciai che cadesse a terra, la fibbia rappresentata da un clangore tintinnante sul pavimento incrostato di sporco.
Il mio cuore pompava troppo forte, era stato un colpo inaspettato. Chiusi gli occhi e mi appoggiai allo schienale, intravedendo sul riflesso del forno il mio viso. Una maschera pallida, le cui occhiaie scure sembravano cavità su un teschio scarnificato, le labbra esangui e i capelli rasati in parte, per un momento di distrazione.
Kenni mi degnò per un attimo della sua attenzione, constringendomi ad aprire gli occhi: mi aveva sollevato le palpebre con le dita dall’odore metallico, immondo, osservando con curiosità infantile la dilatazione delle mie pupille scure.
-Allora, me lo compri? – chiese, speranzosa. Il suo alito puzzava di pesce.
Una sensazione di nausea serpeggiava subdola fra le mie viscere. I suoi tratti distorti da migliaia di ferite in parte sanguinanti mi ipnotizzarono, fino a comporre quelli di Folshka.
Era un delirio di suoni e odori, ma mi parve di sentire la sua risata fresca e allegra, che colorava le mie giornate.
Perché vivevo ancora con Kenni, il mostro che l’aveva uccisa? Perché non la abbandonavo, ma mi ostinavo a prendermene cura?
-Dovresti smetterla con tutta quest’eroina, Attle – borbottò contrariata. Si accomodò davanti a me, mettendo il broncio; afferrò un biscotto dal tavolo e prese a masticarlo, divertendosi quando sentì sopraggiungere l’agonia della sua lingua spappolata.
Volevo risponderle che si trattava di Sogni, ma non riuscivo a parlare. Respirai il profumo di Folshka; se avessi avuto forza nelle braccia l’avrei stretta a me, accarezzandole la schiena.
Nel suo sguardo profondo c’era una nota di rammarico, poiché sapeva che non saremmo potute rimanere vicine a lungo. Il liquido rimasto era poco, e non sarebbe bastato neppure per mezz’ora.
Non volevo abbandonarla, non volevo andare via. L’appartamento sporco di piscio e quella specie di diavolo sotto forma di tredicenne, sporca di sangue dalla mattina alla sera e che puzzava di marcio non potevano più comporre la mia vita. Io volevo lei, solo lei, e non potevo averla.
Era stata colpa mia, l’avevo uccisa con la mia stupidità. Kenni non aveva controllo di sé, doveva aver finito il posto sulla faccia e le serviva altra pelle. Fin troppo ovvio che avrebbe cercato la sua, così morbida e vellutata, una delizia che profumava di pesca.
Eppure…non lo sapevo, ma dovevo sicuramente aspettarmi quello che era successo. Nella commiserazione, lo spettro di Folshka superò il suono dei biscotti macinati nella schifosa bocca dell’altra, per abbracciarmi senza nessuna consistenza.
L’effetto stava svanendo, nonostante il mio cuore fosse sempre più affaticato.
Questa volta non sarei sopravvissuta, me lo sentivo nelle membra pesanti. E lo sapeva anche lei, perché ora cercava di non piangere. I suoi lunghi capelli marroni lambivano i miei, la cucina puzzolente era scomparsa, lasciando il posto ad un prato con centinaia di fiori ed erba fresca.
Le mani artigliate di Kenni mi stavano scuotendo affannosamente, ma la sua voce mi arrivava ovattata: -Non morire, Attle, per favore, non morire! – piagiucolava. –Se muori tu io cosa faccio? Cosa faccio?!
I bordi del suo viso tumefatto divennero isterici, ma non mi importava. Sapevo bene che lo stupro dell’inteliatura metallica dell’auto sulla carne giovane di Folshka era stato causato dallo scontro con un tir.
Kenni l’aveva messa in macchina dopo aver finito, ma non sapeva guidare: l’aveva abbandonata in mezzo alla strada e se ne era andata. Piangendo, aveva ammesso di voler andare da un dottore, ma che non ci era riuscita.
Tutte scuse, ovviamente, ma tutto quanto aveva perso il suo senso.
Mentre stavo per morire, appoggiata sulla sedia tremolante, dovetti ammettere che, in effetti, quelli non erano Sogni, ma solo volgare droga comprata da uno spacciatore senza nome, in un vicolo.
Folshka non smetteva di sorridere, senza poter dir nulla; la visione era realistica solo visivamente, il torpore derivava da altri fattori, di cui potevo prendermi il merito.
La sostanza sintetica era diventata la mia migliore amica, soprattutto per dimenticarmi di Kenni.
Bugia…non avevo bisogno di dimenticarmi di lei, ma di me.
Risposi un po’ incerta al suo sorriso, i muscoli della mia faccia non mi appartenevano più.
In realtà, dubitavo che Kenni fosse esistita davvero, anche perché non mi ricordavo nemmeno da dove fosse spuntata. Non sapevo nulla di lei, ma negli attimi di lucidità me la trovavo accanto, semplicemente.
Gli occhi mi si chiusero, ma riuscivo comunque a vederla lo stesso.
Forse era sempre stata colpa mia. Forse le infezioni erano mie. Forse la puzza di pesce veniva da me. Forse gli attimi di ragione erano solo un prolungamento del delirio.
Forse il viso di Kenni era il mio. Forse le cicatrici che la tagliavano le avevo tatuate io, sul mio corpo. Forse la tinta rossa ce l’avevo io.
Forshka smise di sorridere.
Al’improvviso, la morte mi trascinò nel suo turbine. Di chi era la colpa?
Sempre mia, anche se avevo cercato di scaricarla su Kenni.
Era tutto così…assurdo. Persino Folshka ora mi guardava incuriosita, forse chiedendosi se era esistita solo nella mia testa, come Kenni, oppure fosse davvero morta in un incidente stradale.
Mah, probabilmente mi ero inventata tutto. Se era stato così facile farlo con Kenni, allora cosa mi faceva pensare che non era accaduto anche con la persona più importante della mia vita?
I bordi del viso di Folshka cominciarono a dilatarsi all’inifinito, fino a diventare un parabrezza scheggiato. Le sue braccia candide mi cinsero, come solo un cruscotto sapeva fare. I suoi lunghi capelli scivolarono sopra la mia testa, oscurando la luce della lampadina nuda che oscillava in mezzo al soffito, facendola diventare parte del tettuccio. La sedia divenne più morbida, come un sedile; solo che ero bloccata, e la cinta che avevo usato per farmi mi attraversava il petto come per inchiodarmi meglio al mio posto.
Sentivo la testa pulsare, il cuore esplodere.
Un incidente d’auto, solo una tragica fatalità.
Un tir, che aveva invaso la mia corsia.
La puzza di pesce derivata dal suo carico, abbattuto contro di me.
Un vestito bianco, delle cicatrici. Le mie.
-Signorina, non si preoccupi, la tireremo fuori di qui – mi disse qualcuno, ma fu solo un ronzio.
Cercai di muovere la testa, ma mi sembrava che tanti piccoli ossicini si fossero frantumati in migliaia di schegge.
Chi era che aveva detto che nessuno ne avrebbe mai visto il colore, pur avendoceli addosso? Non lo sapevo. Era tutto troppo confuso.
All’improvviso ricordai, tutto quanto. La strada trafficata e grigia, il colpo di sonno, il volo lungo il pendio, le ossa spezzate dall’auto che si stava distruggendo, il veicolo che mi uccideva rotolando pigramente giù da una conca.
Prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta, definitivamente, le mie ciglia lasciarono che intravedessi un cartello, lo stesso visto tutti i giorni.
50 Km…
Da cosa? Verso cosa? Non potevo morire senza prima averlo letto nella sua interezza.
le…
Sentivo che se l’avessi scoperto sarei riuscita a morire in pace; all’improvviso la memoria mi stava tradendo, ma non potevo ignorare quell’informazione diventata, all’improvviso, vitale.
Ttle…
Attle….
50 Km per Seattle.
 
 
 
Salve a tutti quanti.
Non so trovare nemmeno io il senso di questa nonsense ( forse è per questo che l’ho inserita in questa categoria, dopo tutto), però avevo bisogno di scrivere, assecondando il mio delirio.
Essendo un parto della mia mente, non riesco a capire se, nel finale, sono riuscita a svelare tutto quanto. In poche parole, la protagonista immagina sia Kenni che Folshka, che non esistono, e alla fine è lei ad aver subito l’incidente stradale. Scusatemi se sono stata poco chiara :)
Per quanto riguarda questa storia, farà parte di una serie di nonsense non collegate fra loro. Non so quante storie avrà; può darsi che questa sia l’unica. Sarei comunque più che felice sapere il vostro parere, e chiedo scusa in anticipo per la crudezza di alcune scene.
Buona vita,
The Queen. 
  
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