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Autore: Shy__    28/03/2013    0 recensioni
Una vita che grida per essere salvata, un cuore che crede di non sapere cos'è l'amore e la persona qualunque che porterà speranza ad entrambi.
[FRERARD]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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SELF-DISTRUCTION Shy__'s corner:
Bene gente, eccomi tornata dopo tanto, troppo tempo.
Prima di tutto voglio dire a coloro che fanno parte del MCRmy di restare forti e continuare a correre perché questo è ciò che loro ci hanno insegnato.
Siamo una famiglia, un esercito e per questo dobbiamo rimanere uniti.
I My Chemical Romance per me erano una salvezza, erano il mio sorriso come credo che fossero per molti di voi (se non per tutti).
Voglio che voi ricordiate le loro parole, i loro insegnamenti e tutto il bene che ci hanno dato e voglio che sappiate che ovunque voi siate vi sono vicina *virtual hug*
Non importa quanto andrà male, loro avranno sempre un posto speciale nei nostri cuori e proprio per questo non moriranno mai del tutto.
Detto questo, veniamo alla fanfiction.
Non saprei come descriverla, è solo un'idea che ho da un sacco di tempo e che ha finalmente iniziato a prendere forma come si deve.
Spero vi piaccia. Le recensioni (sia positive che negative) sono gradite, ovviamente. Mi scuso in anticipo per gli errori se ce ne saranno.
I personaggi non mi appartengono e non scrivo a scopo di lucro trallallà, ma questo già lo sapete tutti.
                                                 
                     xoxoShy__




*    *    *



 Capitolo I


 Pain.


I


La morte così vicina da poterne sentire la falce sul collo, pronta a colpire.
Un salto, uno solo, e avrei risolto tutti i miei problemi.
Era così semplice compiere quel passo che mi avrebbe liberato dal dolore. Eppure mi mancava il coraggio, su quel davanzale, davanti a quel panorama mozzafiato.
Scesi dalla finestra e mi sedetti sul letto. Cominciai a piangere senza quasi accorgermene.
Volevo morire, ma come poteva un ragazzo della mia età pensare al suicidio?
Il mio cuore era logorato dal dolore, la mia mente dal senso di colpa, e finii per addormentarmi con un nuovo taglio sul polso e la lametta sotto il cuscino, come ogni notte.
                                              
II

Non capivo perché mi ostinassi ad arrampicarmi sulla finestra.
Non avrei mai saltato, lo sapevo, ma c'era qualcosa di affascinante nel fissare il buio oltre il cornicione.
I capelli neri abbandonati al vento, la sigaretta che si consumava tra le mie dita.
Sarebbe stata una scena comune, se solo io non fossi stato in piedi sul davanzale.
Ero così attratto dalla morte che avrei voluto morire anche solo per curiosità.
Sarà forse che se ti abitui alla presenza di qualcosa poi finisci per amarla, ma io trovavo meraviglioso il fatto di essere così vicino all'autodistruzione definitiva.
E i miei occhi vagavano nel vuoto cercando risposte che la mia mente non era in grado di trovare, così mi ritrovavo a rivangare il passato e a perdermi nei ricordi che facevano male, consapevole che nessuno avrebbe potuto salvarmi.

  III

E anche quella mattina mi svegliai con la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato e mi domandai perché fosse capitato proprio a me.
Mi avvicinai alla finestra, guardai fuori e iniziai a piangere.
Non c'era un buon motivo per versare così tante lacrime appena sveglio, ma sembravano l'unico modo rimasta per sfogarsi.
No, veramente un'altra cosa c'era e me ne ricordai immediatamente.
Mi sdraiai di nuovo sul letto e infilai una mano sotto il cuscino.
Iniziai a tastare il materasso e mi fermai solo quando sentii qualcosa di freddo e metallico sfiorarmi la mano.
Chiusi le dita intorno alla lametta stringendo fino a farle sanguinare.
Dolore, dolore atroce.
Sentii il sangue caldo scorrermi tra le dita e colare sulle coperte sistemate alla meno peggio sul letto.
Quando trovai il coraggio di aprire la mano e guardarla mi stupii di quanto quella visione mi facesse piacere.
Mi scese una lacrima, una sola, l'ultima, e andò a mischiarsi al sangue che aveva iniziato a coprirmi il polso con goccioline che tracciavano scie incerte e somigliavano tanto ai destini della gente: si univano, si separavano, continuavano dritti o compivano bruschi cambiamenti di direzione.
Poco dopo mi ritrovai a ridere dei miei stessi pensieri e di quanto fossero stupidi.
Tornai a fissarmi la mano senza preoccuparmi delle gocce di sangue che mi macchiavano anche i pantaloni.
Ormai la lametta era diventata la mia unica amica e ne ero completamente dipendente.
Sembrava l'unica soluzione, sembrava l'unico appiglio sicuro a cui aggrapparsi nel momento del bisogno.
Ogni singolo taglio era l'espressione non di un sentimento, di un'emozione, bensì di un dolore immenso, incontrollabile e logorante che non trovava sfogo se non in una ferita.
E mentre sentivo il sangue scivolare sul mio polso, mi sembrava davvero di avere la soluzione ad ogni problema.
Smettevo di piangere, sistemavo il polsino in modo che non si vedesse nulla ed era tutto "apposto".
Sì, "apposto" era una parola molto grande per uno che passava le proprie giornate a pensare (e in alcuni casi anche provare) ad uccidersi.
Avevo promesso che non l'avrei più fatto ma avete presente quando ti affezioni così tanto ad una persona da non riuscire a separartene?
Beh, a me succedeva con quel pezzetto di metallo affilato.
Ogni sera avevo un taglio in più, l'ennesima cicatrice che mi avrebbe ricordato cosa significase soffrire.
E ognuno di quei segni indicava un giorno di agonia, di tristezza subita passivamente e di schiavitù dei ricordi che desideravo non avere.
Ci sono storie, nella vita di ciascuno di noi, destinate a rimanere nascoste, segreti celati nei nostri cuori che a lungo andare finiscono per distruggrci dall'interno come la più inguaribile delle malattie.
Già, perché il dolore è il peggiore dei morbi, ti si infila sotto la pelle come un parassita, succhia tutto ciò che ti tiene in vita e non ti abbandona mai.
Se mai pensassi di essertene liberato, lo vedrai tornare solo per farti sentire peggio di prima.
Ti lascia lì, più morto che vivo, logorato, devastato, distrutto.
Ed era così che mi sentivo io in quel periodo.
Sognavo di essere felice, di avere qualcuno accanto, ma era passato un anno dall'incidente che mi aveva rovinato la vita e nulla era cambiato.
Da un anno cercavo disperatamente di uscire dalla depressione, da un anno lottavo contro me stesso per rimanere in vita.
E a quel punto, dopo un fottutissimo anno, sentivo le forze che mi abbandonavano.

IV

Era strano, e me ne accorgevo solo allora, ma mi ero abituato a quell'orribile sensazione.
Non saprei dire con precisione se fossse dlusione, o rabbia, o mancanza di qualcosa; forse era una combinazione di tutti e tre, unita alla rassegnazione che non sarei più stato felice e al senso di colpa.
Eppure, malgrado riuscissi ad associare quella situazione soltanto alla parola "schifo", mi ci ero abituato.
In fin dei conti, per forza o per amore, si fa l'abitudine a tutto e quando si capiscono e si accettano le condizioni in cui si è costretti a vivere, sembra addirittura noioso.
Sì, noioso e banale.
La routine, come si suol dire.
E lo sai che c'è di meglio, che forse, con un piccolo sforzo di volontà uscirai da quella merda, ma ti ostini a rimanere lì tanto per farti più male di quanto la vita te ne abbia già fatto.
Poi arriva quel momento in cui ti stanchi di tutto e di tutti e ti ritrovi di fronte ad un bivio, costretto a decidere: morire o andare avanti e cambiare le cose.

V

Quel giorno tornai al fiume dopo molti anni.
Da piccolo ci passavo intere giornate, giocando con mio fratello e la nonna, l'unica che mi stesse vicina nei momenti peggiori.
Mi manca tanto, nonna Helena, lei che mi ha insegnato tutto ciò che so della vita.
Devo dire grazie solo a lei se ora sono quello che sono.
Fu proprio lei a portarmi al fiume per la prima volta, ci sedemmo sulla riva e guardammo i nostri riflessi perdersi tra le onde.
Era incredibile quanto tempo fosse passato ed era altrettanto stupefacente il fatto che, anche dopo tutti quegli anni, io fossi affezionato a quel posto come lo ero da bambino.
C'era qualcosa di incredibilmente romantico nell'ascoltare il vento e lo scroscio delle onde in quel luogo.
Ormai nessuno ci andava più se non qualche ragazzino per fumare senza che i genitori lo sapessero e qualche vecchietto annoiato.
E io? Perché ero lì?
Per rivangare il passato, per piangere su vecchi, tristi ricordi?
No, ero lì perché era l'unico posto in cui potessi trovare un po' di pace, di tranquillità, quella cakma che a casa mia mancava da tanto, troppo tempo.
Mi sedetti sulla riva e mi guardai intorno: erano cambiate così tante cose dall'ultima volta.. l'acqua non era più limpida, c'erano mozziconi di sigarette ovunque ed ero circondato dai vetri verdi di innumerevoli bottiglie rotte.
Non ci pensai troppo e subito iniziai a cantare quelle filastrocche che le nonne insegnano ai nipotini, quelle canzoncine senza senso che affascinano i bambini con i loro stupidi motivetti.
Mi sembrava di sentirla, la nonna.
Nel vento, nel fiume, nelle foglie colorate che cadevano.
                                                                                                                                                           Can you hear me?
                                                                                                                                                          Are you near me?


Sentivo la sua voce, il suo canto, le sue braccia che mi scaldavano.
Solo un attimo e poi, più niente se non, in lontananza, lo scricchiolio delle foglie sotto dei passi leggeri.
  
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