Anna
Alla mia Anna. Perché lei hai le ali.
Lei trova tutto nel nulla. Una di quelle persone prime in tutto ciò che vorrebbero gli altri, ma ultime in quello che vorrebbero per loro stesse. Una di quelle persone che possono darti tutta la luce di un sorriso che scalda dall’interno. Una di quelle persone che possono ascoltare il battito del tuo cuore e farlo fermare per un attimo, un attimo solo, quando decidono di colpirti con qualcosa che credevi non avrebbe mai potuto intaccare la tua corazza.
Una certezza ed un costante controsenso.
La maschera cade e sai che non ti è rimasto abbastanza
per nasconderti, niente più ceramica fredda per celare ferite mal cicatrizzate.
Senti il sole che riscalda la pelle e vorrebbe bruciarla, dilaniarla, ma sei
così fredda...troppo fredda e tutto ciò che hai attorno sono cumuli di neve.
Apri gli occhi e sai di non avere la forza necessaria per tenerli aperti, non è
abbastanza vedere, non è abbastanza e tu lo sai.
Tu credi,
Anna?
Ti alzi dal letto la mattina, con le ossa troppo stanche perché
possano reggere il tuo peso. La realtà ti tira colpi troppo bassi perché possano
essere parati, la realtà è un’infame, la realtà è bastarda, ti stacca la testa
appena ne ha l’occasione, ti colpisce nel punto più debole, ti pianta un
coltello nella schiena. Sai d’avere tanto da dire, ma non trovi le parole
adatte, perché a volte è meglio tacere e lasciare che i pensieri sfuggano, senza
neanche desiderare inseguirli.
Quella mattina per lei era difficoltoso alzarsi dal letto. Desiderava sprofondare tra la lana e le molle del materasso. Sparire del tutto. E non importava se, una volta dentro il materasso, avrebbe smesso di respirare. Aveva smesso di farlo anni addietro, aveva semplicemente detto “Basta” e il cuore si era fermato. I polmoni. Il sangue nelle vene. Lo stomaco. Tutto aveva smesso di funzionare. Non aveva più il desiderio di inspirare aria sporca e cercare di immaginare che dal naso uscisse anidride carbonica.
Se sei una persona che la gente normale definisce
“forte”, quando cadi sei costretta a rialzarti. Non puoi permetterti di rimanere
a terra e piangere mentre vedi il tuo mondo sgretolarsi. Il castello di carte
per loro può anche bruciare, tu devi rialzarti e non importa se il castello lo
volevi costruire con la sabbia e il fango che ti gettano addosso, perché loro
hanno ragione, sempre, e tu non puoi stare seduta a guardare il tuo piccolo
mondo fatto a pezzi. Devi alzarti, devi strepitare, indignarti, reagire, avanti
devi reagire. Re-a-gi-re! Devi per forza rialzarti. E magari non t’importa di
cosa pensa la gente di te, ma ti rialzi solamente per non dover vedere la
delusione sui loro volti, volti che prenderesti a sberle fino ad avere le mani
spezzate, vorresti prenderle a pugni quelle facce.
La gente normale la
definiva “forte”.
Lei, invece, si definiva “morta”.
Le era capitato, a volte, di vedere gli angeli nei cerchi
di luce. Aveva provato a disegnare due ali su un foglio di carta, di quelli
sottili. E mettere il foglio controluce, per immaginare cosa si potesse provare
a sentirsi liberi di scaldarsi alla luce del giorno.
Anna aveva una smodata
passione per le statuette di cristallo. Le collezionava. Le puliva dalla polvere
ogni giorno. Una per una. Quando era triste le sistemava sopra il tavolino di
vetro e poi posizionava una lampada sotto di esso. Si stendeva per terra e
guardava i riflessi che colpivano il soffitto.
Quella mattina Anna si sentiva come una delle sue
statuette.
Quando le capitava di sentirsi di vetro, immaginava di essere
rinchiusa in uno scatolone contrassegnato dal timbro rosso, quello che recita
“Fragile” e di essere spedita via posta prioritaria. Magari in un posto esotico.
I Caraibi, per esempio.
Quella mattina, tuttavia, la sua mente non aveva
minimamente preso in considerazione di immaginarsi dentro un pacco postale.
Aveva semplicemente deciso di spegnersi.
Ferma tutto. Ferma il treno. La stazione è troppo lontana.
L’aria nella stanza era satura, al limite. Premeva
contro le sue tempie. Chiedeva aiuto.
Anna, se ne avesse avuto la forza, si
sarebbe alzata ed avrebbe spalancato la finestra.
Quella mattina però non lo
fece.
C’era una farfalla nella stanza. Volava tutta storta, con traiettorie
mal tracciate dalle mani di un navigatore inesperto.
Anna correva.
Anna correva sempre.
Era più facile
scappare, andarsene via senza mai dire addio. Poi tornare. Guardarsi indietro
senza pensare di commettere un errore.
Era più facile correre.
Mai dire
addio. Mai chiudere gli occhi. Mai inciampare. Mai cadere. Mai rialzarsi.
Prendi la solitudine, un po’ di rancore, un pizzico
d’istinto di sopravvivenza. Mescola il tutto. All’occorrenza aggiungi un po’
d’odio.
Questa era Anna.
Un concentrato di pazzia mescolato al sangue di
ferite mai aperte. Ma nemmeno chiuse.
Allora lei correva. Guardava scorrere
tutto davanti e dietro senza mai fermarsi.
Anna correva, ma voleva
volare.
Girati. Devo cadere.
Tu non hai mai
capito.
Fammi male. Devo sbattere la testa.
Il sangue non è una
via.
Ora dovrei volare?
Guarda: sotto c’è il Paradiso.
Gli angeli non
sanguinano.
Il sangue non è una via.
Le ali vanno estirpate.
Perché non
sanguini?
Ti odio.
La caduta è dolorosa. E non c’è sangue. Non c’è
nessuna via d’uscita. La via giusta è dentro. Strappa le membra. Trova la via.
Taglia. Taglia qui. Nel libro che mi hai dato c’è un non-ti-scordar-di-me.
Facciamo un gioco e vediamo chi cade prima.
Gli angeli non sanguinano.
Anna correva. Correva nel vento. Nel vuoto. Uno
schianto.
Anna sapeva volare.
La caduta dimezza il dolore. La caduta fa male, ma ti
rende libera. Puoi scegliere. Puoi scegliere di stare a terra e ricostruire il
castello. Puoi aggiustare le cose e ridere in faccia a quelli che meritano
solamente un’alzata di dito medio.