Flash-fic scritta per il concorso di Writers
Arena sui “Malvagi di Dragonball”.
Questa storia mi è stata ispirata da un romanzo, “Stupore e tremori” di Amélie Nothomb.
E’ insolita, ma penso originale. Appena comincerete a leggerla vi chiederete: “ma questo che c’entra con Dragonball?”.
Dopo dieci righe, vi risponderete: “ma questo non
c’entra proprio nulla con Dragonball!”. Per cui,
andate fino in fondo. Vi garantisco che c’entra… commentate, mi raccomando!
Il Commendatore
di Gan_HOPE326
Quando la signorina
Asegawa consegnava le fotocopie appena fatte, il
Commendatore le diceva di rifarle: sempre. Sono troppo scure, diceva, o
troppo chiare; o i bordi sono tagliati; o la carta è troppo gialla; o andavano stampate
fronte-retro. La signorina Asegawa passava metà
della sua giornata alla fotocopiatrice. Nonostante
tutto, il Commendatore pretendeva anche che lei svolgesse tutti gli altri
incarichi che le competevano alla perfezione, perciò la costringeva spesso a
lunghi turni serali di straordinari.
Non solo lei doveva sottostare a
queste corvée: tutto il personale dell’ufficio subiva
simili vessazioni. Il ragionier Mifune,
ad esempio, subiva quella che aveva battezzato “la tortura del caffé”. Suo
compito era portare al Commendatore le tazzine di caffé, rigorosamente
bollente, che lui pretendeva al ritmo di una ogni mezz’ora, senza poi necessariamente
berle davvero. Il distributore automatico era parecchio lontano dall’ufficio
del Commendatore, che d’altronde pretendeva che Mifune
non usasse alcun vassoio o supporto per trasportare la caldissima bevanda. Come
conseguenza di ciò, il ragioniere lamentava continue e dolorosissime vescicole
e ustioni a entrambe le mani (nel tentativo vano di
trovare sollievo, spostava spesso la tazzina da una mano all’altra, ottenendo
il solo risultato di scottarsele entrambe). Solo una volta gli era capitato di
lasciar cadere la tazzina sul pavimento, e nessuno conosceva di
preciso quale terribile punizione gli fosse stata amministrata, dal
momento che egli stesso era restio anche solo a ricordare quel giorno funesto.
La signora Morino, telefonista, riceveva spesso l’ordine di chiamare numeri che si
rivelavano poi appartenere ad esotiche ditte di paesi di cui ignorava del tutto
la lingua, nonostante vantasse tra le sue referenze la conoscenza di decine di
idiomi diversi. Dopo la telefonata, le spettava l’immancabile strigliata.
Signora Morino, diceva il Commendatore, credevo di
aver assunto una poliglotta, non una balbuziente incapace di comunicare con
chicchessia. Umiliata, la signora Morino chinava il
capo, diceva sissignore, e tornava al suo posto.
Una sera, durante un effimero
momento di pace, gli impiegati si ritrovarono a discutere del perché il loro
capo fosse tanto spietatamente sadico. E’ perché non ha famiglia, sostenne la
signora Morino; ha un complesso di inferiorità per via
della sua scarsa statura, affermò con assoluta certezza il ragionier
Mifune; sta male, vedete che brutto colorito ha?,
azzardò la signorina Asegawa. Ma
tutte queste ragioni potevano spiegare la sua crudeltà, non giustificarla. Gli
impiegati continuavano a detestare il Commendatore; e questi ne
era felice, perché essere odiati è prerogativa dei potenti.
Alla sera, quando finalmente gli
schiavi erano liberi di tornare alle proprie case e alla propria
normale dignità, il Commendatore non era mai in giro ad abbaiare ordini o
urlare rimproveri. Si chiudeva nel suo studio personale e pretendeva di non
essere disturbato da nessuno, per nessun motivo.
Gli impiegati abbandonavano
l’ufficio uno ad uno, spegnevano le luci, chiudevano la porta a chiave. Tutto
era silenzio.
Alla sera, fissando il grande planisfero appeso alla parete del suo studio, il
Commendatore Pilaf ripensava ai tempi in cui sognava
di conquistare il mondo, e sospirava.