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Autore: _morph_    31/03/2013    2 recensioni
"Viaggio senz'occhi, e non ho la lingua, e grido."
Se il dolore si potesse misurare, non ci sarebbe sicuramente una bilancia adatta per ogni anima he ne richiamerebbe il responso.
Il dolore è imprevedibile.
L'imprevedibilità è spesso violenta.
I risultati indecifrabili.
Il dolore è un'ape.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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And I’m dying to know: is it killing you like it’s killing me?
I don’t know what to say since we twisted our game
when it all broke down,
and the story of us looks a lot like a tragedy now.

Li odiava tutti.
Le davano la nausea.
Le facevano venire voglia di urlare.

Bee scese dalla macchina. Stava piovendo e la cosa non la sorprese minimamente. Si fece cogliere comunque impreparata, dovendo quindi ricorrere all'aiuto di sua sorella maggiore Jo, che teneva l'ombrello in mano -sbrigati, siamo in ritardo- le mormorò in un orecchio, zampettando sotto l'acqua che, con le sue gocce pesanti e ruvide, si schiantava contro il tessuto che le stava riparando. Suonarono due volte il citofono, in modo repentino, così da farsi riconoscere senza bisogno di inutili accertamenti di tipo vocale. Aprirono con uno spintone il portone del palazzo, nella contea di Surrey. Le due ragazze salirono velocemente le scale. Il dottor Simons operava al terzo piano dell'edificio, munito di scale, con tanto di tappeti antiscivolo, ma niente ascensore. Chiunque dovesse andare ad un piano che non fosse il primo, si ritrovava poi ad inveire contro chiunque si era offerto di amministrare quel posto.
Le ragazze trovarono la porta aperta, accedendo così all'appartamento.
Di certo quello non si poteva definire uno stabile "da ghetto". Tutt'altro. Ogni cosa trasudava imponenza, serietà, sobrietà, lusso. Una sorta di cultura costosa.
L'ingresso era accogliente, il parquet lindo e le cornici poste sul mobile che le accoglieva, perfettamente lucidate. Seguì un lungo corridoio, che portava così allo studiolo del professore.
Bee non poteva lamentarsi del trattamento, anzi, riteneva il suo lavoro uno dei migliori svolti su di sé. Non che lui avesse operato in modo incisivo sul suo più grande ed evidente problema, ma era almeno riuscito a mettere un punto ai fantasmi che le comparivano sul muro durante la notte, facendole raggiungere anche un certo equilibrio con il resto del mondo. C'era una specie di accordo tacito tra di loro, che consisteva nel reciproco rispetto degli eventi avvenuti prima che si conoscessero; al dottore erano state divulgate le informazioni che il padre di Bee aveva deciso di dargli, a lei non si poteva chiedere null'altro. Con Bee, bisognava misurare con cautela ogni minimo passo.
Sua sorella Jo la salutò con un bacio sulla guancia, tornando poi indietro. Se non veniva accompagnata, c'era il caso decidesse di tornare a casa all'ultimo. 
La ragazza abbozzò un sorriso a quel gesto affettuoso, scostandosi prima che le labbra potessero sfiorarle la guancia. Non sopportava i baci, quel calore sulle gote le provocava solo una profonda irritazione e la rendevano profondamente inquieta.
Girò con cautela il pomello della porta, facendo entrare per prima la testa, come per tastare il terreno.
L'uomo era seduto alla sua scrivania, intento a leggere dei documenti. Entrò silenziosamente, chiudendo si con altrettanta dedizione la porta alle spalle. Il dottore sollevò appena lo sguardo nel notare la sua presenza -buongiorno Beatrice- gli fece un cenno in risposta, per poi roteare lo sguardo per la stanza. C'era qualcosa di diverso dall'ultima volta, qualcosa che migliorava in modo decisivo l'arredamento. Assottigliò gli occhi, concentrandoli sulla parete, per poi indicarla, guardandolo con un'espressione esplicitamente interrogativa -il crema l'ho sempre ritenuto un colore scialbo; il verde acqua dona tranquillità alla stanza- annuì, trovandosi d'accordo con l'affermazione -si accomodi pure Beatrice-.
Da quando si erano incontrati, non aveva mai osato darle del tu, trattandola come se meritasse davvero rispetto per la propria privacy, nonostante alla fine sapesse tutto di lei. La prima regola di un muto è il silenzio -sbaglio o non mi ha ancora salutato, Beatrice?- utilizzò volutamente un tono che solitamente si adoperava con persone che, più che essere mute, erano semplicemente testarde.
~
L'aria mattutina sferzava contro il suo volto, fredda e insolente. Rallentò di poco il passo, per godersi quel momento, osservando come le nuvole avessero concesso finalmente una pausa alla cittadina di Surrey.
Il breve temporale aveva causato dei disagi alla strada principale che percorreva l'autobus che ogni giorno la accompagnava a casa, dovendo quindi ricorrere ad una via che li aveva fatti ritardare di cinque minuti. La ragazza strinse il bavero del trench al petto, guardandosi con circospezione intorno. Il viale di casa sua era completamente infangato, la terra si sarebbe avviluppata alle sue scarpette di tela, senza più andarsene.
Una smorfia spontanea si disegnò sulle sue labbra, e non le piacque quel rumore acquoso che emisero i suoi piedi non appena iniziò a camminare in quella fanghiglia: se non si fosse ammalata, avrebbe comunque dovuto fare i conti con delle macchie che avrebbero abbracciato le sue vesti. Ma tanto cosa le importava? Un paio di jeans non le avrebbero abbattuto l'umore, amava la pioggia.
Saltellò per evitare le pozzanghere, ansiosa di fare ritorno a casa.
Chissà quale corso seguiva la pioggia.
Avrebbe volentieri stretto qualcuno sotto la pioggia, lo avrebbe baciato.
Un rumore così prepotente nelle orecchie, le avrebbe sicuramente fatto smettere di pensare alla durezza del mondo quando questa smetteva di battere sulle teste di chi, fermo nella propria via, abusava del buio.
Lei amava il buio, amava sentirsi ovattata. Ma il buio era stato complice di un silenzio soffocante.
Si rese conto di essersi bloccata solo quando una ciocca di capelli, a causa del vento, le coprì la visuale per qualche istante.
Si ridestò, riprendendo il proprio cammino.
Bussò alla porta, forte, così che qualcuno sentisse la sua urgenza di entrare.
Il padre non si fece attendere per spalancarla e circondare le spalle amate e infreddolite della figlia nella sua morsa.
Strofinò la mano sulla sua schiena, osservando quel minuto fantasma varcare la soglia, nella sua impassibile trasparenza -dove hai la testa? Perché non ti sei fatta lasciare l'ombrello?- Bee gli avrebbe volentieri fatto presente il fatto che non stesse più piovendo, ma ancora una volta preferì svicolare dal suo abbraccio, per andarsene in cucina. 
Un vociare infastidì la calma apparente della casa, facendole per questo aguzzare le orecchie. Spalancò la porta della stanza, osservando come suo fratello e altri tre amici si stessero amabilmente gustando la torta che la sera precedente Jo aveva preparato.
Torta al cioccolato. La SUA torta. Fulminò quei piattini pieni di briciole e gola, minacciando silenziosamente di far ingoiare una mela intera a chiunque si fosse mangiato l'ultima porzione (nel caso fosse finita, chiaramente). Si diresse verso il vassoio, pregando che un qualsivoglia individuo non avesse finito la SUA torta. Sollevò il coperchio. Vuoto. Aveva un disperato bisogno di mele.
Si volse di scatto, facendo intuire a Josh, suo fratello, il motivo di quella rabbia improvvisa -buona- commentò, strizzandole l'occhio. Oltre che di un logopedista, pensò di avere anche un disperato bisogno di qualcuno che le insegnasse a gestire la rabbia. Insomma, il desiderio impellente di azzannarlo le sembrò un pochino eccessivo. Scrutò i ragazzi, uno alla volta, assottigliando appena lo sguardo. Si soffermò su uno di questi, che continuava a fissarla imperterrito, sfidando la reazione che avrebbe avuto. Probabilmente non sapeva che una mela poteva perfettamente bloccarsi nell'esofago, se ingoiata intera. Era lui, senza ombra di dubbio.
Lui aveva mangiato una seconda fetta di torta. Lui l'aveva finita. Lui ammiccava di fronte alla sua rabbia.
Sfilò davanti a quegli individui, incrociando le braccia al petto. Loro erano tornati ad ignorarla, lui aveva mangiato la sua torta, lei non aveva una mela. Non c'era motivo di rimanere lì -come si chiama tua sorella?- pensava fosse sorda? No, probabilmente non pensava -Beatrice!- il richiamo la fece infuriare. Un richiamo derisorio. Suo fratello aveva risposto bisbigliando, non lo aveva sentito pronunciare il suo nome. Si voltò lentamente, notando fosse stato il mangiatore-di-torte a reclamare la sua attenzione -scusami- davvero pensava fosse divertente?
Strappò uno dei post-it situati accanto al telefono, scribacchiandoci sopra qualcosa. Si diresse poi a passo spedito verso di lui, spaurita dal fatto che non poteva farle assolutamente nulla. Il territorio era il suo. Consegnò il biglietto al ragazzo, marciando poi verso l'uscita e successivamente in direzione della rampa di scale, così da rifugiarsi in camera, chiusa a chiave.
Questo ridacchiò sotto lo sguardo severo di Josh, pensando a quello di lasciare un biglietto come un gesto infantile. Lui non sapeva. Bee non era solita comunicare in quel modo. Bee non era solita comunicare. Ma lui non sapeva.
Accompagnato da un sopracciglio inevitabilmente inarcato, lesse.
"Mia la casa, mie le regole, mia la torta. Strozzatici."
   
 
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