Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: acetylcholine    02/04/2013    0 recensioni
Violeta, intrappolata in una casa bellissima. Fermìn intrappolato in una vita decisa per lui da suo padre.
Un amore che sboccia all'improvviso, travolgendoli. Un'amore puro, vissuto attraverso una siepe, senza la possibilità di vedersi o toccarsi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Violeta

KukzOml
 


Per quanto quella casa fosse grande, fin troppo grande per sole due persone, spaziosa, arieggiata e largamente illuminata, Violeta non riusciva a non vederla sempre più come una prigione, una gabbia per uccelli, una casa per le bambole.
Era una costruzione antica ma mantenuta in ottime condizioni. Era la classica casa dei sogni: bianca, immacolata, immersa nel verde fitto di un giardino privato.
L’unica cosa che Violeta amasse veramente della sua abitazione era il vasto giardino, l’infinito rincorrersi delle piante davanti ai suoi occhi.
Gli alberi alti, troppo alti per consentirle di vedere oltre, i cespugli rigogliosi, le rose di tutti i colori, il piccolo stagno e poi, infondo, l’aiuola di viole.
Sua nonna aveva fatto installare un piccolo gazebo nel mezzo della coltivazione di viole così che Violeta potesse rifugiarsi in quel posto ogni volta che ne sentiva bisogno.
Quell’aiuola l’aveva creata sua madre quando era ancora una bambina, l’aveva curata e fatta crescere con amore infinito e lei, Violeta, riusciva a sentire tutto quell’amore attorno a sé quando sedeva nel gazebo a immaginare come sarebbe stato un abbraccio di sua madre.
Le viole erano fiori semplici, senza troppe pretese, che si mostravano esattamente per quello che erano ed erano il simbolo della modestia.
Era così che immaginava sua madre: una donna semplice, fin troppo modesta, piena d’amore e profondamente sincera. Sua nonna l’aveva sempre descritta come una sognatrice.
Violeta, a quel tempo, si sentiva molto simile a sua madre. La sentiva vicina come non mai ed era certa che anche la nonna vedesse quelle somiglianze nei suoi occhi.
Più passava il tempo e più sua nonna si faceva protettiva ed esigente nei suoi confronti.
Era sempre stata una ragazzina estremamente obbediente e riconoscente, sapeva quanto sua nonna avesse sacrificato per occuparsi di lei.
Sua madre era morta dandola alla luce e lei era convinta che una parte di sua nonna non sarebbe mai riuscita a perdonarla per averle portato via la sua bambina.
Violeta si era sempre sentita amata ma vedeva negli occhi della nonna quel dolore che aveva tenuto per sé tutti quegli anni.
Lei, dal canto suo, aveva sempre fatto di tutto per compiacerla e non farla pentire di averla tenuta con sé.
Non che avesse altro posto dove andare.
Suo padre, di cui non conosceva neanche il viso, aveva abbandonato sua madre poco prima che lei nascesse e non era più tornato indietro.
Violeta era riconoscente a sua nonna e si sentiva profondamente ingrata quando provava a chiederle di portarla in città, ma non riusciva a non desiderare di conoscere il mondo al di fuori di quei confini che le erano stati imposti.
Aveva sempre vissuto in quella casa e non aveva mai visto nient’altro oltre il giardino.
Le sembrava di trovarsi su un pianeta a parte, lontano anni luce dal pianeta Terra. Persino la strada che riusciva a scorgere dalle finestre del secondo piano le sembrava irraggiungibile.
C’era tutto un mondo da scoprire fuori da quel maestoso cancello e lei non poteva neanche sfiorarlo.
Aveva provato più di una volta a chiedere a sua nonna perché fossero rinchiuse in quella casa, perché non uscissero mai e tutto ciò che ottenne, ogni volta, fu la solita risposta: “il mondo ti spezza il cuore, Violeta.”
Capiva sua nonna e il suo desiderio di proteggerla, non voleva vederla soffrire come aveva visto soffrire sua figlia ma nel profondo, Violeta proprio non riusciva ad accettare che gli altri avessero scelto il suo destino senza interpellarla.
Il mondo magari l’avrebbe spezzata, l’avrebbe uccisa e ferita a morte, ma almeno avrebbe saputo cosa significava vivere.
Avrebbe voluto sapere cosa significava soffrire, amare, odiare, ridere di gioia, sentirsi in imbarazzo.
C’era una così vasta gamma d’emozioni là fuori e lei non ne aveva provate neanche la metà.
Aveva visto così tanti film, aveva letto così tanti libri e si era sentita invadere da quelle emozioni eppure non era abbastanza perché non erano vere, perché sapeva che quelle reali sarebbero state più intense, nel bene e nel male.
Le sembrava di non appartenere al mondo descritto in quelle storie e che lei avesse a disposizione una piccola finestra sul pianeta Terra dal quale poter spiare le vite altrui senza che gli altri se ne accorgessero.
Era una vita estremamente solitaria quella che conduceva nel suo palazzo immacolato.
Le persone che aveva visto da vicino si potevano contare sulle dita di una mano. C’erano sua nonna, Elena, Dorita, la custode della casa, la sua tata Lorita e Gustav che gestiva tutti gli affari della casa.
Era cresciuta circondata da adulti, non aveva mai interagito con qualcuno della sua età, non aveva mai festeggiato un compleanno con “gli amici” e non era mai andata a scuola. Lorita le aveva insegnato tutto quello che sapeva ed il resto l’aveva appreso da sé, tramite i libri, i film e la televisione.
Quella mattina si era svegliata con lo stomaco contratto, era uno di quei giorni in cui la solitudine si faceva soffocante e un groppo in gola l’accompagnava per tutto il giorno.
Era uscita di casa senza fare colazione e si era rifugiata nel suo piccolo paradiso.
In quei giorni in cui anche solo la vista delle mura della sua camera le dava la nausea, Violeta scappava dentro al suo gazebo, ci rimaneva per ore a piangere e a pregare sua madre perché l’aiutasse.
Voleva vivere, anche se significava soffrire. E sua nonna questo non riusciva a capirlo.
Quella mattina però successe qualcosa di inaspettato: qualcuno si trasferì nell’abitazione accanto alla loro.
Da quando era nata, Violeta non aveva mai visto né sentito qualcuno nella casa vicino. A volte aveva sbirciato i contorni della casa dalla finestra della biblioteca e l’aveva sempre trovata desolata.
Ma erano voci reali quelle che stava sentendo, c’erano urla, macchine, rumori di mobili posati davanti all’entrata. C’era vita, lì, affianco a lei, a portata di mano.
Passò tutto il giorno a rubare voci e parole, cercando di immaginarsi i volti dei suoi vicini, inventando una storia per loro.
Avrebbe passato la notte in giardino se non fosse stato per Dorita che la costrinse a rientrare in casa.
Quella sera, seduta composta al tavolo con sua nonna, Violeta provò a chiederle se sapesse qualcosa dei loro nuovi vicini, provò anche a chiedere se fosse possibile andare a conoscerli ma sua nonna fu inamovibile e si chiuse nel suo solito silenzio.
Violeta pianse tutte le sue lacrime quella notte, odiò  sua nonna e la vita a cui la stava costringendo e pensò che non potesse esserci colore più adatto a lei del viola, il colore della regalità, della crudeltà e della penitenza.
Aveva sempre amato il viola, il suo colore, quel colore che sua madre aveva scelto come nome per lei come simbolo della passione e dell’amore. Ma come potevano lei e sua nonna essere la stessa cosa ed essere così distanti al tempo stesso? Come poteva il viola descrivere lei e la donna che l’aveva cresciuta?
Sua nonna l’aveva cresciuta nell’idea che la vita fosse o nera o bianca ma lei ora sapeva di trovarsi nel grigio, nella sfumatura, nell’imperfezione. Si sentiva racchiusa in una contraddizione vivente.
Perché nelle sfumature tutto può essere tutto, non ci sono confini, non c’è niente di netto, niente di vero, niente di falso.
Violeta non capiva, non sapeva più cosa pensare della sua vita, di sua nonna, del suo destino, di quello che era stato scelto per lei.
Non riusciva a concepire che un’altra persona, che diceva di amarla, potesse privarla proprio dell’amore stesso e di tutte le altre emozioni che erano pronte a travolgerla fuori da quel cancello.
Non riusciva a capacitarsi che a venti anni lei non avesse potuto sfiorare la mano di qualcun altro. Non riusciva ad accettare che non le fosse concesso neanche un abbraccio, un briciolo di calore umano.
Voleva toccare, sfiorare, abbracciare un’altra persona, farlo con amore, voleva poter toccare le labbra di qualcun altro e scoprire cosa si sentisse veramente.
Voleva fare l’amore per la prima volta, voleva essere felice e desiderava con tutta se stessa essere amata, amata veramente e senza limitazioni.
E si disse che non importava del dolore che poteva infliggergli il mondo quando soffriva lo stesso e si disse soprattutto che ne valeva la pena. Soffrire avendo vissuto era meglio che soffrire senza aver mai conosciuto la vita stessa.
Passò giorni nella sua stanza, a spiare dalla finestra la casa vicina, rubando ogni suono che riusciva a percepire, ogni parola che riusciva a captare.
Tutti in quella casa erano abituati alle stranezze di Violeta e nessuno andò mai a persuaderla per tornare alla quotidianità, ai pasti consumati con sua nonna piuttosto che nella solitudine della sua stanza.
Era un pomeriggio tranquillo, la casa era silenziosa come sempre e le permetteva di rubare tutti i rumori esterni che riuscivano ad arrivarle alle orecchie.
Poi lo vide. Era una figura indistinta, avrebbe detto quasi certamente maschile, che si aggirava nel giardino, proprio accanto al suo, di giardino, vicino all’alta siepe che divideva le due case.
Violeta corse a perdifiato lungo le scale decidendo che se sua nonna non voleva darle la possibilità di conoscere la vita, lei se la sarebbe presa a modo suo.
Raggiunse velocemente la siepe cercando di individuare il punto esatto in cui doveva essersi fermata la figura che aveva intravisto qualche istante prima.
In realtà fu la figura stessa ad andare da lei. La sua voce, calda e immensamente triste, la chiamò a sé tramite una canzone, un susseguirsi di note appena accennate.
Era così malinconica quella voce e la sentiva così vicina a sé che fu sul punto di piangere.
Si sedette in terra, poggiando le mani sulla siepe, desiderando che non smettesse mai di cantare, di parlarle attraverso quella musica ovattata.
Non seppe dire quanto a lungo rimase in quella posizione ma, quando la voce scemò nel silenzio, le sembrò che fosse durato un solo istante, decisamente troppo poco.
Non riuscì a trattenersi e riempì quel silenzio con la sua voce.
-Non smettere!
Sentì un movimento brusco aldilà della siepe. Immaginò la sua figura maschile che si guardava attorno, cercando di capire chi stesse parlando.
-Sono aldilà della siepe- sussurrò cercando di fare breccia fra i rametti delle foglie per creare un foro che le permettesse di vedere il suo interlocutore.
-Chi sei?- chiese il ragazzo, doveva essere un ragazzo perché la sua voce suonava giovane, smuovendo le foglie per cercare il suo profilo.
-Mi chiamo Violeta, e tu?
-Fermìn- rispose, incerto, lui –Perché stiamo parlando attraverso una siepe?
-Non mi è permesso andare oltre il cancello- sussurrò Violeta con una punta di vergogna nella voce.
-Non ti è permesso?
-Mia nonna non vuole.
-Non sei mai uscita fuori?- chiese nuovamente lui, evidentemente stupito.
-No.
Violeta sentì le lacrime affiorare e  impedirle la vista. Si vergognava della sua situazione, si sentiva così profondamente lontana dal resto del mondo.
-Perché?- chiese semplicemente lui.
-Perché il mondo mi spezzerebbe il cuore- rispose lei, automaticamente, come avrebbe detto sua nonna, come un disco rotto.
-E ti rende felice essere rinchiusa in questa casa?
-No- sussurrò di nuovo.
-Allora direi che questo piano “anti-sofferenza” fa un po’ schifo, no?
Violeta rise, come non rideva da tempo ed annuì dimenticandosi che il suo interlocutore non poteva vederla.
-Quanti anni hai, Fermìn?
- Venti, e tu, Violeta?
- Venti … Hai visto molti posti Fermìn?
-No, non moltissimi, ma voglio vedere tutto il mondo.
-Anche io Fermìn.
Continuava a ripetere il suo nome perché le sembrava che lo rendesse più reale, più umano, meno frutto della sua immaginazione.
Era quello che temeva. Che fosse impazzita e stesse  parlando da sola.
-Perché allora non scappi?
-Perché …
Violeta non sapeva rispondere a quella domanda. Non lo sapeva perché, solo che non poteva.
-Mia nonna mi ha cresciuta, non posso … -sussurrò abbandonando le braccia a terra.
-Capisco.
Calò il silenzio fra loro ma Violeta riusciva a sentire la sua presenza anche in questo modo. Si sentiva più vicina a quello sconosciuto che a sua nonna, ed erano bastati due minuti di conversazione.
-Devo andare, Violeta.
Sussultò e si portò le mani alle labbra per trattenere un singhiozzo. Non poteva andare, non voleva tornare alla sua solitudine.
Fermìn sembrò capire la sua ansia e si affrettò a chiederle:
-Domani, alla stessa ora?
Violeta quasi urlò di gioia a quella  prospettiva e acconsentì prontamente.
Fu così che Fermìn e Violeta iniziarono a conoscersi e a rendere una routine le loro discussioni separate dalla siepe.
E Violeta scoprì che Fermìn si sentiva ingabbiato come lei in una vita che non gli apparteneva. Suo padre era un uomo importante, possedeva un’azienda molto conosciuta nel mondo e voleva che suo figlio divenisse amministratore delle filiali in un Paese che Violeta non aveva mai neanche sentito nominare.
Fermìn aveva un animo sensibile che poco si adattava al freddo mondo del business. Lui voleva vivere di musica, di parole ed emozioni vere.
Non voleva lasciarsi imbottigliare in una vita triste e solitaria. Non voleva che lo depersonalizzassero annientando tutto ciò che aveva sempre amato.
I mesi passavano ma Fermìn e Violeta avevano ancora milioni di cose da dirsi, progetti da fare per quando sarebbe riusciti a liberarsi di quella vita. Posti da vedere assieme, esperienze da fare insieme.
Fermìn le aveva promesso il mondo e non ci volle molto tempo prima che Violeta finisse per innamorarsi di lui, della sua anima.
Un giorno riuscì a far passare un fiore fra la siepe. Riuscì a dargli una viola del pensiero.
Aveva sempre amato i fiori ed il loro significato. Quel fiore significava “pensami”.
Violeta aveva paura che un giorno Fermìn sarebbe andato via e si sarebbe dimenticato di lei, della strana ragazza col nome di un fiore che viveva in una casa bianca, in mezzo a un giardino.
Nessuno dei due, però, avrebbe mai dimenticato il giorno in cui riuscirono a sfiorarsi le mani tramite il piccolo buco nella siepe.
Violeta iniziò così a lasciare dei messaggi a Fermìn con l’ausilio dei fiori che puntualmente lasciava all’interno del buco.
Fra questi, decise di regalargli un fiore di biancospino, come simbolo della speranza che avevano entrambi di una vita migliore, di una vita che avrebbero scelto per loro stessi.
Nacque così, un po’ per caso, il loro progetto di scappare assieme, di liberarsi da quella cattività fisica e mentale a cui erano costretti.
Violeta aveva, col tempo, smesso di preoccuparsi di sua nonna e del dolore che le avrebbe inflitto scappando.
Non riusciva ormai più a sopportare quella mezza esistenza e sapeva che il dolore che avrebbe causato a sua nonna sarebbe stato nettamente inferiore a quello che l’aspettava restando per sempre chiusa in quella casa.
Avevano stabilito una data come un’altra per la loro fuga e a Violeta non sembrò vero che fosse finalmente giunta l’ora quando, quella notte, corse alla siepe chiamando il suo nome.
Aveva appositamente creato un bracciale per Fermìn fatto di camelie, il mio destino è nelle tue mani, e glielo aveva passato tramite la siepe con mani tremanti.
Fermìn iniziò a tagliare la siepe che li separava con delle forbici da giardino. Un’impresa che durò ore ma che non pesò a nessuno dei due.
Avevano atteso la libertà per vent’anni, qualche ora in più non avrebbe fatto la differenza.
Ciò che Fermìn e Violeta non sapevano però era che Dorita, la custode della casa, aveva scoperto il loro segreto ed aveva anche intuito i loro piani.
Aveva quindi avvertito la signora Elena aspettando la notte in cui Violeta avrebbe messo in atto il suo piano.
Con il cuore leggero di chi non sa il destino che li attende, Fermìn e Violeta riuscirono finalmente a vedersi.
Le loro mani si sfiorarono e poi si unirono, frementi.
L’emozione era tanta che Violeta non riusciva a trattenere le lacrime.
Era vero, lui esisteva, poteva vederlo, toccarlo, stringerlo a sé.
Quando le loro labbra si unirono Violeta capì che ne era valsa la pena: vivere quella sua vita a quel modo. L’avrebbe fatto ancora se avesse avuto la certezza di poter vivere quel singolo momento.
Rise e pianse nello stesso momento, con lui che le stringeva la mano mentre la guidava lontano da quella vita.
Il silenzio della notte fu spezzato all’improvviso da qualcosa di simile ad uno sparo.
Violeta si voltò verso la sua ex-casa e vide sua nonna sulle scalinate e con orrore riuscì a distinguere anche la figura di Gustav con in mano un fucile.
Solo in quel momento si rese conto che Fermìn non stringeva più la sua mano.
I suoi occhi saettarono in terra e fu esattamente ai suoi piedi che trovò l’amore della sua vita.
-Fermìn?- chiamò con voce tremante.
Ma non ebbe nessuna risposta.
C’era solo il silenzio ad accoglierla ed il suo corpo riverso in terra.
Si gettò su di lui, lo scosse, lo baciò, cercò i suoi occhi ma non trovò altro che silenzio e sangue che sgorgava incessantemente dalla schiena. Il proiettile si era conficcato fra le scapole, gli aveva attraversato il petto in un nanosecondo e l’aveva portato via da lei, per sempre.
Il tempo si annullò, si dilatò perdendo senso e consistenza.
Quasi non si rese conto delle braccia che la sollevavano portandola via da quell’orrore, portandola via dall’unica persona che l’aveva mai capita ed amata.
Passarono giorni senza che Violeta riuscisse ad alzarsi dal letto.
Aveva pianto incessantemente per giorni, non aveva mangiato niente per giorni, non aveva parlato per giorni.
-Devi capire, Violeta. E’ stato per il tuo bene. Ti avrebbe spezzato il cuore- disse un giorno sua nonna.
“E’ stato per il tuo bene”. “Ti avrebbe spezzato il cuore”.
-Tu mi hai spezzato il cuore, Elena. TU!
Urlò come non aveva mai fatto, si scaraventò su quella donna che non riusciva a considerare più come una nonna. La picchiò alla cieca, senza sapere cosa stesse colpendo con i suoi schiaffi ed i suoi calci.
Continuò a dimenarsi fra le braccia di Gustav che tentava con tutte le sue forze di tirarla via.
Fu quello l’ultimo giorno in cui Violeta vide sua nonna Elena. Fu l’ultimo giorno di prigionia nel palazzo bianco che non aveva mai considerato come casa.
Nonostante tutto sua nonna la lasciò come unica erede della sua fortuna ma Violeta non tornò mai in quel posto, in quella casa.
La lasciò a marcire, disabitata e fatiscente. Perché lei non avrebbe mai voluto. Penitenza.
Aveva infine impartito una lezione a sua nonna: le aveva insegnato che la vita non era solo bianca o nera, ma anche grigia.
Violeta non smise mai di viaggiare, non rimase mai troppo a lungo nello stesso posto, non si creò mai una famiglia e non ebbe mai un posto da chiamare casa.
La sua casa era il mondo, era Fermìn e i progetti che avevano fatto insieme e che ora lei avrebbe portato a termine per entrambi.

note: questa è una di quelle storie che ti vengono in mente così, per caso, e con cui ti fissi fino a quando non la scrivi. Non so perché, non so come. Ma quando ho letto il tema di questo contest su FB, che ha per soggetto il colore viola, non sono riuscita a pensare ad altro che a Violeta e la sua casa bianca, il suo giardino e l'aiuola di viole. Poi è arrivato Fermìn e il loro amore e non c'era altro modo di scrivere questa storia. Dico veramente! Non sono riuscita a togliermela dalla testa! Spero vi piaccia ♥

Per chi ancora non lo sapesse potetete trovarmi su questo gruppo di FB:  in the shadow of your heart

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: acetylcholine