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Autore: None to Blame    03/04/2013    1 recensioni
Caterina ha quasi diciotto anni ed una gran confusione in testa.
Non le piace il suo corpo. Odia il contatto fisico e la matematica.
C'è una sola cosa che la fa sentire a proprio agio: la solitudine.
Caterina era innamorata. Caterina forse lo è ancora - ma è qualcosa di diverso, lo sente nelle ossa.
Caterina non ha mai creduto nell'amore, perché non ne è mai uscita intera.
Caterina aveva amato, immensamente ed egoisticamente. Era l'amore possessivo e geloso, un mostro verde che la disturbava di notte.
Caterina ama ancora, ma è un amore delicato come una carezza. Quell'amore che lascia andare, che gode di un sorriso anche da lontano, un amore che dona aiuto e non desidera niente in cambio.
Anno della maturità, anno precario ed eterno.
L’anno delle fiamme che ritornano e di guance tumefatte, di scioperi e volantini universitari; un anno di panico e vomito nei bagni, di incontri scomodi e prime canne; l’anno delle decisioni importanti e dell’impegno; l’anno della resa dei conti;
l’anno di chi decide di cadere in piedi.
Ma il fatto è che quando la vita cala il suo pugno non avverte mai.
Genere: Angst, Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
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Note introduttive
 
La storia ha il titolo dell’omonima canzone dei Velvet.

È quasi interamente ispirata a fatti realmente accaduti, ma utilizzo nomi e luoghi fittizi. Qualsiasi riferimento è puramente casuale.
Se qualcuno dei diretti interessati si dovesse riconoscere nei personaggi di questa storia o riconoscesse alcuni dei fatti, non me ne volesse a male – in fondo, ci siamo tutti, qui dentro.
È tutto frutto di un breve periodo di intensa nostalgia e l’unica cosa che potessi fare era mettermi a scrivere.
Ed eccomi qua, con una cosa decisamente troppo autobiografica per i miei gusti – ma chissene.

Ai miei venticinque lettori: buona lettura!

 
 















 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ciò che Caterina preferiva del suo nuovo cellulare era la possibilità di puntare più di una sveglia. Era una astuta strategia, perché era rischioso inserirne solo una – il tasto stop e quello posponi erano davvero troppo simili e non poteva permettersi ulteriori ritardi. Così, ogni sera puntava all’incirca dieci sveglie, dalle sette meno venti alle sette e dieci.

Le piaceva definirsi mattiniera, ma, senza un irritante suono che le penetrasse le cervella ripetutamente, alzarsi dal letto era davvero difficile. Il piumone era caldo e avvolgente ed il materasso comodo ed accogliente. Il cuscino, poi – ah, Caterina amava il suo cuscino e mai l’avrebbe abbandonato se non sotto costrizione.

Quando Burnin’ Alive degli AC/DC prese a suonare per la quinta volta, Caterina grugnì ed estrasse un braccio nudo dal bozzolo di coltri, tastando la superficie del comodino e, trovato il cellulare, pigiò parecchi tasti prima di trovare quello giusto.


Contemplando per qualche secondo di troppo il soffitto coperto di umide macchie di muffa – perché quella casa « ha resistito al terremoto dell’80 », al contrario di molte più moderne, ma aveva pur sempre quasi un secolo – raccolse l’energia necessaria ad uscire dal letto.

Sbuffando pesantemente, si scostò il piumone dal corpo e si tirò a sedere, con fatica. La t-shirt rosa shocking di Milano che usava come pigiama le era salita fin sotto al seno. Se la tirò sulla pancia con un brivido, riaggiustandosi anche l’elastico del pantalone giusto sotto l’ombelico e mise il primo piede sul pavimento, cercando da qualche parte gli occhiali. Voltando la testa, li notò sulla scrivania, sul libro di geometria ancora aperto – se li era tolti in un moto di violenta disperazione, la notte prima, quando aveva capito che gli archi speciali non diventavano assolutamente più comprensibili dopo la mezzanotte.
Per quanto fosse possibile, cercava di non studiare dopo le nove della sera. Dopo quell’orario, le parole iniziavano a danzarle sotto gli occhi e la testa si svuotava. Preferiva mettersi nel letto alle dieci e puntare la sveglia alle quattro, per ripetere o, più frequentemente, studiare prima di compiti e interrogazioni varie. Poteva non essere un regime di vita salutare, ma a Caterina mancava il senso dell’impegno e della disciplina, perciò fare le cose all’ultimo minuto era quello che le riusciva meglio – anche perché era la sola cosa che faceva, in effetti.

Una volta in bagno, cercò la sua adorata pinza marrone. Era l’unico fermaglio in grado di tenere a bada i suoi capelli – biondi e poco curati e tanto lunghi da risultare un peso piuttosto che un vanto. Se li tirò via dalla schiena e li raccolse in una bizzarra ed incolta pettinatura, ma efficace a lasciarle libero il campo per una breve doccia rinvigorente – con il suo Felce Azzurra. A Caterina piaceva la doccia fredda, anche in inverno. Forse perché le si addiceva di più, forse perché odiava il contatto del caldo sulla pelle. Si permetteva, di tanto in tanto, dei bagni caldi solo perché rilassano i muscoli e sciolgono la tensione.
Inveendo contro sua madre, che aveva fatto il bucato senza interpellarla, quindi lasciandola priva di accappatoio, si asciugò il corpo senza troppa meticolosità, indossando l’intimo che aveva scelto – culottes nere ed il suo reggiseno preferito, uno blu a doppio gancio con un fiocchetto verde fra le coppe.
Caterina amava la biancheria che aveva nel cassetto. Non le interessavano i completini, quanto la consapevolezza di avere indosso almeno un capo la cui bellezza potesse essere universalmente riconosciuta – nascosto, però, agli occhi di tutti.
Si sarebbe sentita ancora più fiera della sua biancheria se avesse avuto un bel corpo sul quale mostrarla, ma le sue cosce di pollo erano ben lontane dall’ideale di bellezza da passerella, così come le sue braccia flaccide ed i fianchi che continuavano inesorabilmente ad espandersi. Forse, solo i suoi seni abbondanti avrebbero fatto la loro figura in una pubblicità di intimo femminile.
Tuttavia, non contribuivano a farla sentire niente meno che un pallido budino di tremolante gelatina, che odiava le magliette scollate ed i pantaloni a sigaretta.

Finito il processo di auto-denigrazione, Caterina sgattaiolò fuori dal bagno, silenziosamente, per evitare di svegliare suo padre.
Sua madre era già a lavoro dalle cinque di quella mattina – le gioie dei turni.

La lancetta dei minuti, che si avvicinava pericolosamente alle V, le ricordò che il treno sarebbe passato di lì a poco.
Nel giro di tre, quindi, Caterina si infilò tuta e scarpe da ginnastica, una maglietta nera qualsiasi – che recava la scritta “Go fuck yourself” – legò i capelli in una coda ed arraffò i libri dalla scrivania, ficcandoli alla rinfusa nello zaino. Si mise le chiavi in tasca ed uscì, saltando le scale due a due – alla prima ora avevano la Monfrecola, terribile Vicepreside e professoressa di Matematica e Fisica, che poco tollerava i ritardi.

Due anni prima, il vecchio preside – un tipo anonimo che non si presentava mai a scuola – aveva lasciato il posto ad una donna piccina e con la faccia da gatto.
Tempo un mese ed il liceo ne uscì rivoluzionato.
Uno degli aspetti peggiori era il permesso di entrata.
Il Liceo Classico Linguistico Socio-Psicopedagogico Dante Alighieri era frequentato non solo dagli studenti di quella città, ma anche, e soprattutto, da giovanissimi pendolari di zone tanto lontane da essere raggiungibili solo in automobile. Chi dipendeva dai mezzi pubblici, infatti, contava principalmente sulla cosiddetta botta di culo. Solo ai più lontani era, quindi, consentita una proroga dell’orario di entrata. Chi abitava nei comuni limitrofi, doveva trovarsi entro i confini del Liceo alle otto in punto, altrimenti la preside in persona avrebbe telefonato a casa dei genitori dello studente – anche se maggiorenne – per avvertirli che « suo figlio è entrato alle otto e cinque ».

In breve, era una brutta storia. E a Caterina non giovava.

Arrivata in stazione proprio mentre il treno si fermava, tirò un sospiro di sollievo. Passeggiò sulla banchina nell’attesa dell’apertura delle porte e si infilò nel vagone.
Era una sola fermata ed il Liceo era giusto di fronte alla stazione. Ponderò se fosse il caso di tirare fuori il libro di Matematica per ripetere – o, almeno, provarci.

« Cati! »  la chiamò una voce alle sue spalle.

Caterina si voltò, ritrovandosi di fronte il volto illuminato e la chioma folta di Riccardo.
Gli rivolse un cenno ed un sorriso tirato.

« Ricca’ »

« Sei preparata per matematica? »

« Al solito. »

Riccardo ridacchiò, passandosi una mano fra i capelli – quel gesto che lei aveva amato con passione. Caterina deglutì, il cuore che le affondava mentre quello le circondava le spalle con un braccio.
Si intimò di non lasciarsi fuorviare dal suo comportamento – non di nuovo.

In quel momento, il treno si fermò e le porte si spalancarono.
Caterina corse fuori dal vagone in un ultimo disperato tentativo di liberarsi di lui, ma Riccardo fu subito accanto a lei, in faccia l’espressione di uno che è in completa armonia con se stesso.

“Faccia da schiaffi”  pensò lei.

« Se ti chiama ci vai o ti prendi il due? »

« Due, ovvio. Sarebbe il quinto, per quest’anno. »

« Eh, ma Cati, non puoi permetterti questo atteggiamento prima della maturità! È rischiare grosso.»

« Ricca’, mancano sei mesi all’esame! »

« E quando hai intenzione di fartela l’interrogazione? »

Lei sbuffò.

« Il tempo c’è. Già con la Monfrecola c’ho l’abbonamento al quattro e mezzo. Ora se n’è uscita anche col fatto che non chiama chi è già stato interrogato, insufficienza o no. Tanto vale che non ci vado, mi prendo il due, che non conta niente, e mi lascio aperta una possibilità per la prossima volta, no? »

Riccardo le rispose con una smorfia dubbiosa e lei represse ancora una volta un insulto rabbioso.

Riccardo Marrazzo era lo stereotipo di studente perfetto.
Alto e scheletrico, con una massa di capelli castani ed occhi ambrati incorniciati da ciglia folte – occhi che lei si era soffermata troppo spesso ad osservare, occhi che aveva desiderato guardare in eterno.
Non c’era professore che non lo amasse e la sua popolarità presso il corpo docenti – e bidelli – non pregiudicava, come spesso accade, il suo successo nel campo sociale. Un po’ dipendeva dalla sua naturale indole a lisciarsi ed ingraziarsi l’interlocutore – da conoscenti a sconosciuti. Forse dipendeva dal fatto che assomigliasse in modo impressionante ad una volpe – o ad un serpente, ma a Caterina i serpenti piacevano, perciò non le andava di paragonarlo a qualcosa che le piaceva – visto il suo comportamento. Studiava l’opponente, ne studiava gli interessi e le mosse e poi partiva al contrattacco, forte delle sue facoltà oratorie e della non indifferente ampiezza del suo bagaglio culturale, pronto a dimenticare amor proprio e coerenza per cercare di adeguarsi al prossimo.
Nessuno sembrava accorgersene. Nessuno pareva capire di avere a che fare con un lecchino sociale. Molti, anzi, lo consideravano una persona dagli svariati interessi, aperta a nuove conoscente, un ragazzo interessante ed intelligente – ma intelligente lo era sul serio e lei questo non lo metteva in dubbio.

Ci aveva provato anche con Caterina. Non ci era riuscito – non era riuscito a farla fessa, da questo punto di vista. Non aveva mai mostrato di apprezzare sempre ciò che lei apprezzasse, si ritrovavano così spesso a discutere su tanti di quegli argomenti (religione e politica erano i loro preferiti; condividevano gli stessi ideali democratici ma lui era un fervente cattolico mentre lei un’atea profondamente anticlericale – ma queste differenze non facevano che stuzzicarla).

Lei era capitolata quasi immediatamente, prima che lui mostrasse di volersela in qualche modo ingraziare.
Lei era sua dal momento in cui Riccardo le aveva sussurrato, sorpreso e con uno sguardo così diverso dal solito, che aveva degli occhi splendidi - « e sono azzurri, non li avevo mai notati ».

Era iniziata così, nel più dozzinale dei modi – ma le scaldava ancora il cuore pensare a quei primi giorni di euforia.
Poi, quando iniziò a capire che le attenzioni non erano corrisposte, che lui non era genuino, a poco a poco il velo rosa iniziò a strapparsi.

Poi, il loro strano rapporto, che era diventato inopportunamente intimo, finì – nel più stupido dei modi.

« Cos’è quello? »

Caterina, che si era persa nei suoi morbosi ricordi, guardò Riccardo, che le indicò col mento un punto oltre la sua testa.

Dalla stazione, si aveva una perfetta visuale di uno dei fianchi dell’edificio scolastico, le scale d’entrata ed il cortile circondati da alte ringhiere verdi. 
Prima del suono della campanella, solitamente, un ammontare di circa novecento studenti si riversava davanti al cancello e, quindi, in mezzo alla strada, rendendo impossibile il passaggio delle automobili. Insomma, un incredibile caos dalle sette e quaranta fino alle otto passate che si ripeteva di nuovo all’uscita.

Quel giorno, alcune delle ragazze del linguistico erano salite sul muretto davanti alle ringhiere, cartelloni fra le mani.
Un lenzuolo era appeso a mo’ di striscione al cancello, ricordando alla folla che “Solo il latino deve farci tremare”.

« Sembra uno sciopero. »

Caterina sobbalzò quando sentì la voce di Riccardo così vicina al suo orecchio, si era chinato verso di lei, il fiato caldo che le solleticava la nuca lì dove la sciarpa lasciava scoperta la pelle.
Rabbrividì, sentendosi avvampare, e cercò di spostarsi senza dare nell’occhio.

« Dev’essere per i termosifoni. »

Lui annuì, lo sguardo fisso sulle ragazzine del terzo che gesticolavano furiosamente aggrappate alle ringhiere, incitando la folla a gridare contro i bidelli sulle scale, alla preside in piedi fra loro.

« Caterina! Riccardo! »

I due si voltarono alla chiamata.

Seduti su un muretto della stazione, stavano i loro compagni di classe – la mitica III B.
Colui che li aveva chiamati, Mattia, aveva un plico di appunti nella mano che sventolava sopra la testa – gli appunti di Riccardo, fotocopiati e passati sottobanco a tutta la classe perché era la documentazione più completa che si potesse desiderare – capelli biondi in testa ed un volto ovale.

Senza dirsi una parola, i due li raggiunsero.
Riccardo fu risucchiato dal gruppetto della fila centrale – sei ochette che chiunque si è ritrovato in classe, almeno una volta. Tuttavia, erano ochette organizzate, due delle quali avevano abbastanza materia grigia da formare mezzo cervello funzionante che mettevano al lavoro durante il processo di lecchinaggio e quello di copiatura versioni.
Naturalmente, Madre Natura, avendole private di un bene fondamentale quale l’intelligenza, aveva fatto loro dono di un aspetto fisico estremamente gradevole.
C’erano le due vamp – Federica e Raffaella, ma universalmente conosciute come Fefi e Lella – con le camicette svolazzanti ed i pantacollant effetto jeans.
C’era Grazia, un’ameba che difficilmente veniva presa in considerazione, super-fidanzata ed anonima.
C’erano le due finte brave ragazze, ottimi voti, niente trucco, capelli naturali, acqua e sapone, con i jeans e le felpe – Ambra e Adriana, quel tipo di ragazze che ti piantano i chiodi nelle mani dopo averti aiutato a portare la croce.
E poi c’era la ragazza casa-e-chiesa – Rosa Sannazzaro, la Rosa più biblicamente conosciuta del suo paese.

Caterina non era stupida e nemmeno troppo testarda. Aveva già capito che nei confronti della metà di loro non provava altro che invidia – cieca e furente invidia, per le loro gambe magre ed i ventri piatti, per le loro guance libere da acne e punti neri.
Le invidiava perché non era per il suo sedere che i maschi si giravano quando andava alla lavagna – era per quello di Fefi.

Solo per Ambra provava un sentimento più cocente dell’invidia – una feroce gelosia, perché la scusa degli ormoni è valida solo fino ad un certo punto, poi basta, si sfocia nel ridicolo.
Era per colpa di Ambra, era esclusiva mente per lei che Riccardo chiacchierava con quelle sei mentre parlavano di Amici e Uomini e Donne.
Caterina si concedeva di odiarlo con tutta se stessa, ma non poteva sopportare l’idea di un buon cervello lasciato a marcire per seguire i desideri del bassoventre.

« Oh, allora? »

Caterina sobbalzò di nuovo, distogliendo l’attenzione da Riccardo e dal suo sorriso per Ambra – un sorriso che doveva essere suo e di nessun altro.

Da basso, Marisa, il volto tondo e paffuto, la guardava da dietro gli occhiali spessi come fondi di bottiglia.

« Ehm, puoi ripetere? »

L’altra sbuffò, un ciuffo di capelli neri le scappò da dietro le orecchie.

« Ti ho chiesto se entri. »

« Ma allora è sicuro? Sciopero? »

Marisa annuì e Caterina si sentì un po’ più leggera – il fantasma dell’interrogazione di matematica che svaniva in uno sbuffo.

Fece segno all’altra di farle spazio e si lasciò cadere sul muretto, sfilandosi lo zaino.

« Speriamo che sia così, guarda. Non me la sento proprio di sorbirmi cinque ore. »

« Sono sei. »

« Sei?! Cazzo, hai ragione. Me n’ero pure scordata di Religione! »

Marisa rise, le dita sullo schermo del suo telefono. Allungando il collo, lesse il nome Clara sull’elenco degli sms.

Marisa era la sua compagna di banco dal quinto ginnasio. Avevano un rapporto da, appunto, compagne di banco, che man mano si era trasformato in un’amicizia.
Tutto era nato dagli affari di cuore di Marisa, follemente innamorata di un ragazzo che frequentava il suo gruppo parrocchiale ma col quale non aveva mai scambiato una parola. Ogni volta che c’era una novità, ogni volta che sembrava esserci un problema – principalmente, nel modo in cui Marisa affrontava la questione – Caterina era lì a darle consigli. Non aveva idea di come facesse il suo cervello a sapere cosa fosse giusto fare in una data situazione – e, soprattutto, del motivo per cui, nonostante questo, la sua propria vita sentimentale fosse così incasinata.
Era nata, quindi, come l’Agenzia Cuori Solitari, per diventare un Cabaret per Cuori Solitari – riuscire a risollevare il morale di una persona era quanto di più intenso ci fosse.
Poco a poco, anche Caterina iniziò a confidarsi con l’altra, sfidando e vincendo la sua ritrosia e l’inclinazione a fidarsi poco dell’altro da sé. A quasi diciotto anni, quindi, Caterina si ritrovava cresciuta e più estroversa, certamente più felice.

Riccardo era stato un duro colpo per la sua autostima, ma si stava risollevando pian piano.

« Come è andata sabato? »

Le ci volle un poco per mettere a fuoco.

« Sabato? »

« Non dovevi fare quella cosa con il PD? »

Caterina si illuminò.

« Ah! Sì, certo! La riunione! Beh, bene, bene. Sai, ho passato tutto il tempo a ribattere a battute scadenti su Berlusconi. Non ci vuole molto a capire perché Vendola- »

Marisa sollevò la mano.

« Ah, no, non sognartelo proprio. Io non sono Riccardo, con me non ci parli di politica. »

« Ma io ti lascio parlare dell’Inter quanto vuoi! »

L’altra la liquidò con un gesto vago della mano.

« È diverso. »

Caterina aprì la bocca per replicare, ma Mattia, seduto accanto a lei, la interruppe sul nascere.

« Mari’, l’hai vista la partita ieri? »

Marisa si fece raggiante, per svariati motivi – primo dei quali Mattia, il quale, pur essendo uno juventino, godeva di illimitate attenzioni da parte della sua amica.

« Ah, maro’, che partitone! Il goal di Sneijder… »

 Caterina attivò il muto – lo faceva spesso durante Scienze e partiva in automatico durante lezioni di Storia particolarmente noiose.

In lontananza, intravide Clara e Sonia, i caschi appesi alle braccia.
Clara era una ragazza modello, splendidi voti, semplice e dai buoni principi, tanto innocente da risultare incredibile, capelli biondi e grandi occhi verdi. Per Caterina, la sua pecca era quella di essere fidanzata con un berlusconiano convinto, bassino e dalla pungente parlantina, laureando in Giurisprudenza.
Sonia assomigliava ad uno stambecco, un poco più maliziosa ma meno attiva, era una sognatrice che sapeva mettersi d’impegno come ben poche persone. Suonava il violino in modo incantevole e, per quanto inquietante potesse sembrare, a Caterina piaceva osservarla mentre, non vista dal prof di Scienze, cacciava dallo zaino la sua musica e si metteva a studiare, le dita che si muovevano meccanicamente, mimando una sinfonia con le corde dell’aria.

Clara e Sonia erano diventate amiche – e compagne di banco anche loro – in breve tempo ed ormai ci si poteva riferire a loro come a Claraessonia.

« Ehi! »

Il saluto ufficiale di Clara era un vivace “ehi”, scimmiottato frequentemente da Marisa.

« Quindi non si entra, oggi? »

Caterina scosse la testa e Sonia esultò di gioia.

« Allora ce ne andiamo a Sorrento a farci un giro? »

« Perché no? Sì, ok. Voi andate col mezzo, no? »

Mattia riemerse dalla conversazione calcistica con Marisa, focalizzandosi su Claraessonia.

« Ci andiamo tutti? »

« E certo. Voi col treno, noi in motorino. E facciamo pure colazione. »

Nel giro di trenta secondi, l’intero gruppo fu messo a corrente del programma e tutti acconsentirono in massa.
C’era la classe al completo – quelli che partivano da Sorrento col treno delle otto furono avvertiti e fu detto loro di non muoversi da lì, che ci si sarebbe incontrati tutti in piazza. Mancavano all’appello, poi, Ciro, che aveva fatto filone, e Betta, a letto con la febbre.

Si spostarono sul secondo binario ed entrarono nel vagone del treno, che era arrivato in quell’esatto istante.

Presero posto e Marisa fece in modo da trovarsi opportunamente vicina a Mattia, sperando di essere interpellata in un qualsiasi discorso – preferibilmente, a sfondo sportivo.

Caterina discuteva di alcune questioni – forse politiche, forse religiose – con Stefania, un vero angelo fattosi carne, il bel volto incorniciato da capelli di un colore caldo e gli occhi profondi e gentili. Stefania sembrava essere ignorata da tutti – non per cattiveria, ma solo perché passava inosservata.

In ritardo, Caterina si accorse che mancava qualcuno all’appello.

Si voltò, sperando di vederlo fra i compagni, magari non vi aveva fatto caso – ma Roberto non c’era.

Picchiettò la spalla di Riccardo, estraendo il cellulare per avvertire il compagno disperso dei loro programmi.

« Ricca’, hai notizie di Roberto? »

Riccardo scrollò le spalle e tornò a parlare con Francesca, puntando il dito sul foglio con le spiegazioni dei teoremi degli angoli.

Caterina sbuffò, cercando il numero nella rubrica del telefono, ma la voce “Roberto” era inesistente.

Si avvicinò a Mattia, attirando la sua attenzione.

« Chiama Roberto, diglielo che stiamo andando a Sorrento. »

« Quello starà ancora dormendo… »

« Tu prova a chiamarlo comunque. »

L’altro annuì, seccato ma obbediente.

Lei non gli staccò gli occhi da dosso finché quello non scosse la testa, chiudendo la chiamata.

« Non risponde. Starà dormendo. »

Caterina represse un verso di frustrazione, lasciandosi cadere sul sedile accanto a Stefania, che la guardava con aria interrogativa.

« Tutto bene? »

Lei restò immobile per un momento ed annuì, pentendosene un momento dopo.
Si grattò la nuca, innervosita.

« Il fatto è che non mi va giù come si comportano con Roberto. »

Era una frase fatta per restare sola.

E Stefania lo comprese, limitandosi a sorridere comprensiva.
Abbassò la testa, cercando di aprire il suo zaino. Trafficò per un po’ con il contenuto, estraendovi, dopo, un libro.


Lo porse a Caterina, che lesse, sulla copertina azzurra, “Grazie, Jeeves”.

« Ho iniziato a leggerlo. È davvero geniale, sai? Hai mai letto niente di Wodehouse? »

Il brusco tentativo di cambiare argomento ed il palese obiettivo di risollevare il morale fecero sorridere Caterina, che si ritrovò ad assecondarla.

« Sì, Gas Esilarante. »

È incredibile che certi amici conoscano alla perfezione i tasti giusti da toccare quando l’atmosfera si fa irrespirabile.

Restarono così, a parlare di humor inglese e stili letterari, a fare confronti e a ripetere le migliori battute – perché, per far sentire meglio qualcuno, basta davvero poco, un pizzico di buona volontà.
E lei ne aveva da vendere – l’avrebbe esaurita tutta per Roberto, solo per lui.

Erano seduti al bar nella piazza, diciotto sedie attorno a quattro tavolini uniti, cappuccini e cornetti e gambe incrociate.
Si parlava e sparlava, futilità attorcigliate alla lingua.

Caterina sorseggiò il suo cappuccino, leccandosi via la spuma dalle labbra.

Sospirò, alzando gli occhi al cielo, contando gli sbuffi di nuvole che galleggiavano.

“Spero che stia bene”  fu l’unico pensiero che si concesse.


































NdA

Spero vi sia piaciuto il primo capitolo.
Potrebbero esserci errori di battitura e distrazione. Se ne trovate, fatemelo sapere.

Nel prossimo, conoscerete Roberto. ^^

Accetto critiche costruttive e distruttive!  
 





   
 
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