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Autore: Louiss    05/04/2013    0 recensioni
Ancora oggi, a distanza di anni, mi chiedo se fu davvero il caso a mettermi tra le mani quel quotidiano lombardo datato inizio secolo.
Probabilmente nessuno potrà mai darmi una risposta, ma sta di fatto che da quel giorno la mia vita assunse un colore diverso.
Tutto ebbe inizio la mattina in cui accettai di accompagnare un amico in biblioteca. Non che avessi particolari interessi, accolsi il suo invito semplicemente per non essere scortese, e così, mentre lui era impegnato nella sua ricerca, io dedicai il mio tempo a sfogliare alcune raccolte di vecchi quotidiani.
Per oltre un’ora riuscii splendidamente ad annoiarmi, ma quando su quei fogli ingialliti scovai uno stravagante articolo a firma di un certo Olindo Trebossi, di colpo smisi di slogarmi le mascelle.
Il poverino (Il Trebossi), dopo aver sciorinato un corbello di amenità (Così credetti), concludeva il suo articolo pressappoco così; «Vorrei essere colui che scriverà l’ultima fiaba di questo millennio, poiché è probabile che nel prossimo potremmo non avere più a chi raccontarle»
Mi sentii rabbrividire, e in cuor mio ritenni quell’affermazione talmente scriteriata che, immaginando un mondo privo di bambini, mi premurai di fare i debiti scongiuri.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Ancora oggi, a distanza di anni, mi chiedo se fu davvero il caso a mettermi tra le mani quel quotidiano lombardo datato inizio secolo.
Probabilmente nessuno potrà mai darmi una risposta, ma sta di fatto che da quel giorno la mia vita assunse un colore diverso.
Tutto ebbe inizio la mattina in cui accettai di accompagnare un amico in biblioteca. Non che avessi particolari interessi, accolsi il suo invito semplicemente per non essere scortese, e così, mentre lui era impegnato nella sua ricerca, io dedicai il mio tempo a sfogliare alcune raccolte di vecchi quotidiani.
Per oltre un’ora riuscii splendidamente ad annoiarmi, ma quando su quei fogli ingialliti scovai uno stravagante articolo a firma di un certo Olindo Trebossi, di colpo smisi di slogarmi le mascelle.
Il poverino (Il Trebossi), dopo aver sciorinato un corbello di amenità (Così credetti), concludeva il suo articolo pressappoco così; «Vorrei essere colui che scriverà l’ultima fiaba di questo millennio, poiché è probabile che nel prossimo potremmo non avere più a chi raccontarle»
Mi sentii rabbrividire, e in cuor mio ritenni quell’affermazione talmente scriteriata che, immaginando un mondo privo di bambini, mi premurai di fare i debiti scongiuri.
Ad ogni modo dimenticai presto il Trebossi e le sue profezie, ma quando più tardi lasciai quell’oasi di silenzio per tornare al mio normale tran tran, convinto d’aver dimenticato tutta quella storia, mi accorsi invece che quel figlio d’un cane aveva spedito il «mio normale»a farsi benedire.
Nulla di tragico s’intende, anzi, credo proprio di dovergli un mondo di riconoscenza, poiché quella stessa notte, ebbi la fortuna d’incontrare, in sogno, una bambina dolcissima che mi chiese di scrivere una fiaba per lei, promettendo che se lo avessi fatto sarebbe divenuta mia nipote ([1]).
Il mattino successivo, quando mi svegliai, ero talmente eccitato all’idea di scrivere una fiaba, che non mi resi immediatamente conto d’essermi invece assunto un impegno che in qualche modo avrebbe condizionato il resto della mia vita.
Vi assicuro che non fu per niente facile venirne fuori, e sebbene da allora siano trascorsi più o meno tredici anni ed io sia ancora un nonno in attesa, ho davvero scritto una lunghissima fiaba… Si ho detto lunghissima… e se in questo momento qualcuno stesse pensando che è da sciocchi scrivere una fiaba tanto lunga per un mondo che appartiene soltanto ai bambini; con il dovuto rispetto credo proprio che quel signor qualcuno dovrebbe rivedere le sue idee.
Le fiabe non hanno mai avuto padroni, esse appartengono al mondo dei piccini così come a quello dei grandi, a patto però che i cosiddetti grandi abbiano mantenuta intatta, nei loro cuori, una piccola parte d’innocenza.
Però attenzione, perché se a volte una fiaba è capace di restituire agli adulti il loro passato, per i bambini non è la stessa cosa. Loro non hanno ricordi, siamo noi che dobbiamo costruirli giorno dopo giorno con pazienza e amore, e se non vogliamo deluderli e desideriamo che la sera si addormentino sapendo di aver riposto in buone mani la loro splendida innocenza, allora dobbiamo fare in modo che i loro ricordi siano senza ombre e soprattutto a due voci.
Mi spiego meglio con una domanda; vi è mai capitato, quando eravate piccini, di ascoltare ad occhi chiusi una fiaba raccontata da una persona speciale? Mi auguro di si, altrimenti potrete ben dire d’aver perduto qualcosa difficilmente recuperabile.
Io credo che ciò che veramente conti nei primi anni della nostra vita, è il segno che alcune persone sanno lasciare al di la di ogni condizione sociale o culturale, e che le fiabe siano lo strumento migliore per fissare nei nostri cuori un indelebile ricordo incantato, e non importa ch’esse siano più o meno lunghe, l’importante è che quelle persone trovino il tempo di aprire un libro e iniziare così «Oggi leggeremo la storia di...»
Quello è un momento importantissimo per ogni bambino… è il suo ingresso in un universo magico in cui vivono re e principi, fate e streghe, gnomi e piccoli maghi… il momento di tranquillità atteso per tutto il giorno… l’istante in cui potrà abbandonarsi al calore di due braccia e alla certezza d’essere amato.
Non so cosa ne pensi il resto del mondo, ma delle fiabe che mi sono state raccontate ([2]) ricordo perfino le atmosfere, i profumi, il timbro della voce e le tantissime risposte ai miei numerosi perché. Mentre di quelle lette personalmente ho memorie sbiadite.
Quando decisi di tentare questa avventura sapevo bene che avrei avuto bisogno di una grande capacità di sintesi, e a dir la verità dedicai un’infinità di tempo nella ricerca di una soluzione al mio problema, ma la cosa buffa fu che invece di trovare quanto mi interessava, scoprii che da oltre duemila anni l’umanità non ha fatto altro che scrivere di dei, di maghi, di fate e folletti, di escursioni nel tempo e di viaggi su altri mondi, di forme di vita aliene, di utopie e distopie, e per di più infischiandosene beatamente del problema che invece assillava me.
Vi assicuro che la scoperta fu talmente deprimente che se non fosse stato per il desiderio di rivedere quella bambina, avrei spedito tutto a farsi benedire.
Ovviamente non lo feci, e sebbene mi renda conto di aver impiegato troppo tempo per raccontare una fiaba in cui realtà e fantasia si sono fuse senza ricalcare schemi preconcetti, ho deliberatamente evitato che le fosse attribuito un voto, e non perché non meritasse una qualche considerazione, ma perché dovrà essere mia nipote a valutarla.
Perché lei?
Beh, forse perché sono convinto che quel musino impertinente che vidi in sogno, deve aver davvero guidato la mia mano, altrimenti non so proprio come avrei potuto riportare alla superficie della mia coscienza sentimenti come l’amicizia, la semplicità o la capacità di stupirsi, l’amore per ciò che ci circonda, il gusto di guardare il cielo, il coraggio dell’umiltà e quello del perdono.
E se quel signor qualcuno ora stesse pensando che simili sciocchezze non appartengono al nostro tempo, vorrei suggerirgli di chiudere il libro e andarsene al cinema, ma se al contrario fossi riuscito a destare in lui un pizzico d’interesse, oppure le sue tasche tendessero al verde, allora lasci che gli risponda con la frase di uno dei personaggi più amabili della fiaba, il dottor Victoria McNally, generalmente chiamata la vecchia; «Le sciocchezze rendono più interessante la vita»
Bene, ed ora che ho terminato di dire la mia parte di scemenze, e se siete ancora qua, lasciate che torni con i piedi sulla Terra per raccontarvi cos’è accaduto quando decisi di scrivere questa fiaba.
Innanzitutto fui costretto a rispolverare testi di grammatica, di sintassi, dialettica, morfologia e tutto ciò che ne consegue, (E non sono affatto certo di averli usati nel migliore dei modi)quindi, con una certa sfrontatezza, sottoposi una bozza del racconto ad alcune considerazioni esterne.
Il primo di questi signori fu un giudice severo, poiché dopo aver letto i miei appunti sentenziò – È alquanto irriverente, e non credo che duemila anni di ortodossia possano riconoscerti un tale privilegio, quindi l’unico consiglio che mi sento di dare è di fare attenzione; con l’aria che tira potresti fare la fine del Savonarola.
Il secondo parve più interessato, ma poi concluse con un lapidario – Lascia perdere, tanto non troverai mai un editore disposto a pubblicarla, troppo rischioso.
Il terzo si limitò a consigliarmi di attendere tempi migliori. (E benché avvertissi una prepotente esigenza di spiegazioni, preferii non approfondire l’argomento)
Il quarto (L’unico al quale raccontai del mio sogno)fu l’esatto rovescio della medaglia. Egli non volle neppure leggere gli appunti, ma preferì che fossi io stesso ad illustrargli la traccia di quella che ormai cominciavo a credere un’idea stravagante, e alla fine si espresse pressappoco così: – Se ciò che intendi scrivere dovesse procurarti di che vivere, ti suggerirei di allestire uno di quei racconti farciti di elucubrazioni mentali tanto amate dai politici e da alcuni editori, ma se il tuo desiderio è quello di raccontare a tua nipote una storia in cui risaltino valori di cui si sta perdendo la memoria, perché non dovresti farlo? Tanto prima o poi qualcuno dovrà pur dirle com’eravamo quando il mondo girava più lentamente e l’amore non era ancora un optional. In quanto ad attribuire meriti o demeriti alla storia, dovendo per di più utilizzare concetti governati da principi non assoluti, è a dir poco imprudente. Non a caso alcune delle convinzioni considerate eterodosse, hanno poi saputo smentire i critici più preparati o più imbecilli. Il vero guaio è che accettando il contratto sociale, non soltanto tendiamo a soffocare la nostra naturale spiritualità, ma perdiamo quell’umiltà di cui avremmo bisogno per comprendere che questo mondo non lo abbiamo ricevuto in eredità dai nostri genitori, ma lo abbiamo in prestito dai nostri figli. Cos’altro potrei dirti, che se fossi io a dover scrivere questa storia non ascolterei richiami di alcun genere? Beh, fallo anche tu, e se poi qualche parruccone dovesse farti notare che è pericoloso confrontarsi con certi argomenti, soltanto perché alcuni concetti rovesciano il suo status quo, tu fregatene, la cosa importante è che tua nipote comprenda.
Lo ringraziai per l’incoraggiamento ma me ne andai definitivamente convinto che la mia non fosse una storia da raccontare.
Mi nacque perfino l’idea di ricominciare con una storia meno problematica, ma non lo feci. In quel momento compresi che se l’avessi fatto non avrei salvato me, ma tradito la mia piccola musa.
D’altra parte ero perfettamente consapevole che raccontare la storia di esseri non comuni che, costretti a vivere sulla Terra come gente normale, vanno alla ricerca delle loro identità, avrebbe fatto tremare le ginocchia a qualsiasi principiante, ma non potevo fare diversamente, quella era la traccia che aveva seguito il sogno.
E allora mi dissi – Ma chi se ne frega se non troverà un editore. Io non ho nulla da insegnare, desidero soltanto che mia nipote sappia come e perché, in passato, alcuni uomini utilizzassero il cuore prima di cedere alla ragione il suo diritto sovrano.
Rinfrancato da quel pensiero e grondante d’entusiasmo scrissi la prima pagina, poi la seconda, la terza, e alla ventesima ero già fermo di fronte ad un ostacolo che impediva alla storia di marciare come avrei voluto. Era come se si rifiutasse di diventare grande, e per la verità impiegai un bel po’ di tempo per comprendere che il problema riguardava soltanto l’incapacità di manifestare i miei sentimenti.
Ciò che desideravo era tradurre sulla carta emozioni che sapevo esistere, ma per esser certo che fossero interpretate nel giusto modo dovevo farle emergere, provarle sulla mia pelle, e invece quello che scrivevo era soltanto cronaca.
A quel punto iniziai a rigirare tante di quelle volte la frittata che alla fine non riuscii più a identificarvi la mia storia.
Allora mi chiesi – Ora cosa debbo fare?
Una vocina dentro di me bisbigliò – Te lo avevano detto che non era possibile scrivere sui sentimenti, sul sesso e la religione (ohi, ohi!)senza pestare i piedi a qualcuno.
Ebbene non fu né quel «Te lo avevano detto», e né tantomeno il disappunto di dover abbandonare un’idea così a lungo inseguita a darmi lo stimolo per continuare, ma più semplicemente non volli recare offesa ai miei sentimenti e a quel turbamento che mi prendeva quando, sognando di osservare mia nipote leggere questa fiaba, immaginavo di scorgere sul suo volto un luminoso cenno d’intesa.
Fu pressappoco in quel periodo che ebbi la bizzarra impressione che qualcuno stesse suggerendomi la via per raggiungere uno spazio entro il quale potermi muovere liberamente.
Fino ad allora avevo creduto che per confezionare un racconto fosse sufficiente una discreta conoscenza della lingua, un’idea fresca, dinamica, ben curata e soprattutto sorretta da un robusto plot, ma andando avanti con la storia compresi che per quanto la nostra sensibilità si affanni a sviluppare immagini perfette, non sapremo mai renderle vive se non avremo imparato a dialogare con quella impalpabile entità che vive in ognuno di noi, e che purtroppo non ci è sempre dato raggiungere.
A quel punto decisi di fare tre scelte precise.
La prima fu di riprendere la storia che era scaturita dal sogno.
La seconda fu di lasciarla libera di spaziare attorno ai quattro protagonisti; Fred, un uomo già avviato alla vecchiaia, Mary, una donna ancora giovane, Cristi, una bambina di circa otto anni, e per ultimo (Ma non per questo meno importante)un ambiente terrestre sconosciuto a buona parte degli uomini.
Ai primi tre scelsi di dare figure tridimensionali, spesse esattamente quanto lo furono quelle della gente che visse gli anni 40, lasciando però ruotare attorno a loro altri personaggi, (Non molti per la verità)ai quali, pur non dando specifica consistenza, concessi un’atmosfera di pura ispirazione soprannaturale.
La terza scelta fu d’immergere direttamente o indirettamente tutta la storia nel quarto protagonista; la valle Champlain, la più grande valle del Vermont.
Perché il Vermont e perché la valle Champlain?
Iniziamo con il dire che ormai avevo tutta la storia nella testa, ma non il luogo al quale legarla. Per lei desideravo un ambiente assolutamente straordinario dove nulla fosse stato facile, incluso quello di condurre una esistenza normale. Un luogo dove perfino procurarsi il cibo poteva diventare un problema, e dove soltanto una forza eccezionale poteva sostenere l’unica ragione per non mollare.
A risolvere il problema intervenne un banalissimo viaggio aereo. Infatti ero in attesa di un imbarco quando, tra un giornale e una rivista, mi saltò agli occhi un servizio che illustrava quel piccolo stato di cui conoscevo a malapena l’ubicazione. E fu così che, mentre osservavo le foto che corredavano l’articolo, m’innamorai di quella valle. E badate che non si trattò di una semplice infatuazione, ma di un’attrazione travolgente che mi spinse ad una infinità di ricerche su quella terra semplice e meravigliosa.
E fu proprio durante quelle ricerche che nacque in me la certezza di aver scoperto un luogo incantato; un posto dove la neve cade ininterrottamente da Novembre a Marzo, dove il clima nordico rende ad ogni stagione la sua giusta armonia, e dove in una incontaminata e maestosa natura mi parve di scorgervi, intatte, tutte quelle qualità necessarie a maturare nell’animo i sentimenti migliori.
Per quanto mi riguarda, benché mi punga il rammarico di aver apprezzato quella terra soltanto avvalendomi delle suggestioni suggeritemi dai lavori di autori quali Kipling, Robert Frost, Sinclair Lewis ed altri, ho l’impressione che tutto ciò mi sia stato imposto; come se la mia piccola musa avesse voluto spingermi a ritirare una valigia dimenticata, ad aprirla e ritrovarvi cose appartenute al passato, ma così vive e fresche da riuscire ancora a goderne l’essenza.
Si è trattato di un viaggio attraverso una galassia amica, un fantastico percorso lungo il quale ho riscoperto emozioni dimenticate, e per quanto possa sembrare bizzarro, compiendolo ho avuto la sensazione di calcare orme conosciute.
Immagino saranno davvero in pochi gli sprovveduti che leggeranno questa storia, ma se nel farlo qualcuno dovesse sentire il proprio credo o il pudore offeso… beh, spero accetti le mie scuse, e nella speranza d’essere perdonato, chiarire la ragione che mi ha spinto a scrivere, in tutto il racconto, il nome di Dio utilizzando la prima lettera minuscola. (A questo punto lo sprovveduto dovrebbe aver già capito l’antifona e chiuso il libro)Ebbene non ho assolutamente voluto mancarGli di rispetto, ho semplicemente scelto di essere coerente con i miei personaggi, soprattutto quando m’è parso d’intuire che nel rivolgersi a Lui, non si riferissero a qualcuno o qualcosa cui si deve soltanto ossequio e acquiescenza, ma ad una entità che apparteneva al loro stesso essere. Un’essenza innegabilmente spirituale, ma così straordinariamente presente da dividere con loro gioie e dolori, e quando ne avevano, anche il pane.
Lungi da me l’intento di commettere peccato di presunzione, ma se la memoria non mi tradisce, anche uno degli evangelisti scrisse, in alcune sue lettere, il nome di Dio utilizzando la prima lettera minuscola, e certamente non fu per mancarGli di rispetto. (Perdonate l’accostamento)
 
A tutti gli sprovveduti con simpatia.
 
                                                                                                             L’autore
 
Roma 7 Novembre 1993


1.   A  proposito di questo sogno prometto di scriverne un racconto, prima o poi
2.   Ho avuto la fortuna di avere una zia meravigliosa
  
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