Salve.
Questa storia è nata un pomeriggio fa; non avevo il coraggio di pubblicarla perché mi sembrava fin troppo personale, però poi ho pensato a tante cose.
A Stephen King, che diceva che uno scrittore è uno che ricorda le proprie cicatrici e le racconta.
A me, che quattro anni fa già scrivevo 'i lividi dell'irrealtà feriscono più di quelli veri'.
E a mia madre.
E quindi poi l'ho pubblicata.
Spero solo che le mie tartarughe non siano morte, comunque. Mi farebbe tanta tristezza.
Viva il nonsense, Silvie.
A quel punto si spinge contro di me e non mi lascia respirare. Il suo avambraccio mi copre l’ugola, e urlare non è più una scelta da contemplare.
Tutto descritto psicologicamente parlando, eh? Ve lo devo dire in corsivo grassetto o non capite?
Lui mi bacia svariate volte, quasi fossi se stesso, poi però non lo fa più, tutt’a un tratto, puff, e via, via sotto terra a prendere il sole che non c’è senza lui. Quando piango mi sento tanto grassa e tanto imperdonabile, però lo so che da qualche parte su una stella un omino che perdona esiste, lo so perché splendono sempre, le stelle, e i rami dei salici mi accarezzano le scapole quando fa caldo e nel giardino non amo prendere il sole, ma solo bere l’aranciata in lattina sotto i rami. Avrei voglia di mettermi in topless, ma poi sono così bianca da accecarmi, e sono sola, e lui non c’è, e non lo so.
Lui che era me.
Io che sono però ancora lui.
E quegli anfibi acquatici di merda che mi guardano in cagnesco, forse sono morti addirittura.
Ho voglia di lui, o di uno sconosciuto, a questo punto è lo stesso, basta che il vuoto si riempi, che mi faccia amare ancora un po’, prima che dimentichi com’era stare con lui fra le lenzuola e sentirmi sulle labbra tutta una dolcezza nuova, e sulla pelle il venticello leggero, e la voglia di sparire fra le sue costole.