Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Maya98    09/04/2013    0 recensioni
C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è una ragione. E anche all’amore perduto. Se la morte ce lo porta via rimane sempre un amore. Assume una forma diversa, nient’altro. Non puoi vedere la persona sorridere, non le porti da mangiare, non le arruffi i capelli… Ma quando questi sensi si indeboliscono, un altro si rafforza. La memoria. Essa diviene tua compagna. Tu l’alimenti, tu la serbi, ci danzi assieme. La vita deve avere un termine, l’amore no. [ Mitch Albom ]
" -Tesoro, dobbiamo parlare."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Each time I fell, I fell for you'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Let me leave

 

C’è una ragione per ogni cosa. Anche alla morte c’è una ragione. E anche all’amore perduto. Se la morte ce lo porta via rimane sempre un amore. Assume una forma diversa, nient’altro. Non puoi vedere la persona sorridere, non le porti da mangiare, non le arruffi i capelli… Ma quando questi sensi si indeboliscono, un altro si rafforza. La memoria. Essa diviene tua compagna. Tu l’alimenti, tu la serbi, ci danzi assieme. La vita deve avere un termine, l’amore no. [ Mitch Almbom ]


-Tesoro, dobbiamo parlare.
John Watson indossava uno dei suoi maglioni di lana caldi e batuffolosi, con una strana fantasia di rombi verdi e grigi che si espandevano partendo dal suo petto fino a raggiungere maniche. Aveva in mano una tazza di tè preparato due minuti prima, e non ancora bevuto, anche se il problema non era affatto il calore spropositato della bevanda, o la quantità di zucchero in più che vi era scivolata dentro. Picchiettava le scarpe sul pavimento di parquet lucido, e fu quello a dare il segnale che c’era qualcosa che non andava: John Hamish Watson non picchiettava mai le scarpe sul pavimento, se andava tutto bene. Quando invece diventava nervoso, sporgeva in fuori le labbra in quella smorfia buffissima, oppure le restringeva facendo far capolino alla lingua, oppure cominciava a tremargli la mano sinistra. Se era davvero grave, il suo piede destro sembrava avere una specie di lampo che — flash! — lo costringeva a iniziare a battere freneticamente, con ritmo sostenuto, la scarpa di cuoio sul pavimento. E adesso era una di quelle volte.
Alzò lo sguardo dai compiti che stava correggendo, per fissarlo in viso. Quello di John era un viso tranquillizzante, calmo e temperato eppure determinato, quando le sopracciglia bionde si arcuavano, aggrottandosi, ed era fisicamente attraente per una donna. John Watson aveva un qualcosa che urlava “casa!” dappertutto, un enorme e gigantesco cartello che gli spuntava dalla testa dicendo: “rifugio sicuro”.
Così lei si sentiva, quando lo guardava. John era un’idea di caldo camino scoppiettante davanti ad un divano con una calda coperta, la sembianza della pazienza e della domesticità in persona. Era un uomo composto, sincero, spiritoso e affascinante quando voleva esserlo. Al loro primo appuntamento lo era stato: accomodante, galantuomo, attento a non farle mancare niente. Ciò che non si era accorto che mancava, quella sera, non era la candela sul tavolo, non erano le sedie, né le luci o i piatti buoni, in quel ristorante scadente, e neanche apparteneva a lei, ma a lui: la scintilla di ardore che brillava una volta nei suoi occhi. Mary lo aveva riconosciuto dalle foto sui giornali, ma non aveva mai seguito né il suo blog, né si era mai interessata alla faccenda del Reichembach. L’unica cosa che si ricordava, l’unica differenza che aveva notato tra quell’uomo in carne e ossa e quello stampato in bianco e nero sulla carta del Daily Mail, era il luccichio che danzava ammaliante dietro le sue pupille chiare. Mary aveva detto di tutto, aveva fatto di tutto: lo aveva baciato, lo aveva coccolato, lo aveva consolato, lo aveva fatto ridere, ci aveva scherzato, ci aveva fatto l’amore, l’aveva sposato, ma soprattutto lo aveva amato come non aveva mai amato nessun altro uomo in vita sua. John Watson era l’uomo della sua vita, lo aveva capito dal primo momento in cui l’aveva visto, e non era intenzionata a lasciarselo andare. Ma non era mai riuscita — mai — a veder risplendere quel fuoco dietro al suo sguardo mite. Lei, con la madre morta da poco di cancro e il fratello in un centro di riabilitazione per drogati, si era aggrappata a lui come se fosse la sua ancora di salvezza. E lui l’aveva tirata su, accogliendola con il suo sorriso gentile e un complimento che l’aveva fatta arrossire. Con molta discrezione, lei aveva tentato di far parlare a John riguardo a lui, perché non ne parlava mai, perché non ne accennava mai, ma lei sapeva che ci pensava (perché era una donna, e lei era certa di queste cose) e spesso, anche. Ma John era un’ancora, e da solo si sentiva un’ancora anche per sé stesso, anche se un tempo non lo era stato; c’era stato un momento in cui lui era stato una zattera in balia del vento e c’era voluto Sherlock Holmes per tornare a farlo navigare. John non ha mai voluto essere aiutato perché credeva di essersi già aiutato da solo, come soldato, come medico, e lei non era riuscita a strappargli nulla di più. Ci aveva provato, comunque: si era buttata per tirare fuori dall’ombra che era l’uomo che era stato. Non ci era riuscita: ci aveva riprovato. Aveva fallito: si era buttata di nuovo. Era caduta: si era rialzata. John Watson era la sua sfida, il suo peso da tirare su, la sua anima da salvare: lo aveva sposato per avere tutta la vita a disposizione per salvarlo da sé stesso e dai suoi demoni. Non ci era riuscita, e in qualche modo quel “dobbiamo parlare” le fece intuire che per una volta, non ci sarebbe riuscita per sempre.
-Sono qui.-disse, spostando lentamente il fascio di compiti da correggere di lato. Erano verifiche di storia a domande aperte, e lei adorava vedere come i suoi allievi più brillanti reagivano agli stimoli che lasciava tra le righe. Prendevano particolari spunti per esprimere pensieri complessi su cui ci sarebbe stato da discutere. Adorava il suo lavoro, e la sua nuova classe non faceva altro che incentivarla.
John si sedette di fronte a lei, con calma, lo sguardo serio e le mani ferme, appoggiando la tazza intoccata sulla superficie del tavolo di ciliegio del loro soggiorno. (Loro soggiorno. Il primo anno di matrimonio solo pensare questo la rendeva colma di gioia).
-Mary...-iniziò, prendendo un profondo respiro e abbassando il tono di voce nel modo che solitamente utilizzava per rassicurarla: profondo, calmo, controllato.
-Ti ascolto, John.-disse lei, annuendo, e scostandosi i capelli biondi dal viso per fare un sorriso incoraggiante al suo uomo (suo marito, suo amore, suo per sempre):-Parla pure liberamente.
Rilassare le spalle non aiutava, e lo sguardo che le lanciò lui quella volta le instillò un senso di angoscia che piano piano dal petto scese allo stomaco. Sembrava davvero una cosa seria. E non presagiva nulla di buono: lei aveva spesso delle sensazioni, e la maggior parte della volta erano fondate. Chiamalo sesto senso femminile.
-Ci ho pensato su.-mormorò John, guardandola negli occhi:-E comunque non è servito a cambiare la mia decisione. Non credo che nulla che tu possa dire o fare servirà a mutare qualcosa, in effetti.-fa una pausa, per respirare a pieni polmoni, alzando lo sguardo su di lei e facendo cadere le parole come tanti piccoli macigni avvelenati sul suo povero cuore innamorato:-Ti sto chiedendo il divorzio.
Queste semplici parole ebbero il potere e la forza estrema di risucchiare con forza tutta la sua aria dai polmoni, rendendoli improvvisamente brucianti come le fiamme dell’inferno, doloranti e in cerca di disperato ossigeno che sembrava assurdamente evaporato dallo spazio circostante. Mille aghi appuntiti come ghiaccioli le penetrarono tutti insieme nel cervello, rendendolo una massa pungente di nervi e scariche elettrice che pulsarono lungo la sua colonna vertebrale fino ad arrivare ai calcagni, per poi risalire di botto sul davanti, lasciando dello stomaco un groviglio di membra distrutte e chiudendo il cuore in una morsa talmente ferrea da essere soffocante e dolorosa. Le pareva di sentire distintamente i suoi pensieri aggiustarsi le ali e filare via, allontanandosi da lei, lasciandola sola esattamente come stava facendo il suo uomo, con quel suo tenero sorriso rassegnato e di scuse che riuscì solo a farla sentire male.
Si impose di prendere un lungo respiro liberatorio, sbattendo le palpebre senza proferire parola. Deglutì forte, serrando gli occhi per qualche secondo per scacciare le lacrime che le stavano prepotentemente premendo lungo i bordi inferiori, desiderose di uscire almeno quanto lei sperava che fosse tutto uno scherzo. Non avrebbe riso, comunque.
Quando parlò, il suo tono era talmente preciso e lineare che per un attimo sembrò quasi insensibile a sé stessa. Come se ciò che John le aveva appena detto non la toccasse minimamente. Ma poi il senso di abbandono premette nuovamente sul suo petto con forza, e ogni tono ostentato svanì nella realtà:-Perché questa repentina decisione?-chiese, lasciando che la sua voce si frantumasse soltanto sull’ultima sillaba della frase:-Mi sembrava che le cose stessero andando molto bene.
Il suo abbassare lo sguardo con colpevolezza, forse, o il modo in cui la sua mano (quella che non era posata sul tavolo con il dorso all’aria, il bellissimo e liscissimo dorso della sua mano) giocherellava incessantemente sulla tasca dei jeans dove di solito teneva il cellulare, a farglielo capire. Respirò rumorosamente, e il suo respiro rapido eppure apparentemente calmo di irregolarizzò per un lungo secondo nel quale sentì anche un singhiozzo giungerle alla gola. Lo trattenne:-C’è un’altra persona, non è vero?
Dire che non l’avesse sospettato, che non l’avesse capito, che fosse stata così ingenua per tutto quel tempo davvero sarebbe stato troppo facile. Ma Mary se ne era accorta, nei suoi disperati tentativi di salvare John dalle fiamme ghiacciate del suo personale inferno mentale (che si auto-infliggeva, per l’altro). Se ne era accorta. John era l’uomo della sua vita, era un uomo buono e sincero, era uno che ci sapeva fare, che ti trattava con gentilezza e ti proteggeva, che ti salvava senza voler essere salvato. Ma c’erano stati dei momenti dove John le era sembrato distante — troppo distante — lo sguardo perso nel vuoto, la mente da un’altra parte. C’erano stati i momenti dove John usciva per le passeggiate, e tornava sembrando quasi spaventato da sé stesso e dai suoi pensieri. Poi c’era stato un periodo, dopo che Sherlock era tornato (perché era tornato, alla fine, era tornato con gli anni passati distanti sulle spalle, mendicando alla casa del suo migliore amico che aveva sempre creduto in lui, spiegandogli un contorto piano secondo il quale avrebbe scambiato la vita per la sua, salvandolo, salvandoli entrambi) in cui John aveva ripreso a vederlo, piano piano, e di conseguenza a seguirlo nei casi. Mary non era mai stata gelosa di questo, perché sapeva che tra i due c’era un rapporto speciale, sapeva che erano legati e sapeva che John aveva bisogno dell’azione e dell’adrenalina che lei con le sue verifiche di storia e latino non avrebbe mai potuto donargli. C’era stato quel periodo, quello dopo che Sherlock era tornato, in cui John aveva iniziato a passare molto tempo fuori casa, tornando la sera tardi, partendo la mattina presto, lasciando dietro di sé una scia di block-notes con una richiesta di perdono che Mary accettava sempre. Adesso lei si chiedeva dove fosse stato realmente, durante tutto quel tempo, tra le braccia di chi fosse stato, di come si fosse sentito. E bruciava, bruciava da impazzire quella ferita al centro esatto del petto, le sembrava quasi che le avessero accoltellato il cuore. Forse lo avevano fatto, e lei non se ne era accorta. Forse era già morta.
John annuì piano. Non disse nulla — forse non osò — e non tentò di giustificarsi. Compì solo quel lento moto con il capo, incessante e lineare, dall’alto al basso, che per Mary sancì il dolore dell’inferno. Le venne su dalla gola un urlo prepotente, che le si incastrò tra i denti. Avrebbe voluto graffiarsi il viso e urlare come una disperata, vomitando l’anima, scorticando la pelle per arrivare a quel cuore sanguinante che lui stava lasciandosi dietro. Non disse nulla, nel suo silenzio, che suonasse come un “non era previsto” che tanto non ti può mai salvare l’anima, lasciò soltanto questo: il nulla, il vuoto di parole a lenire una ferita così rapida eppure così profonda inflitta in così poco tempo. Mary si ricordò che fino a dieci minuti prima era entusiasta dei compiti svolti dalla sua classe, nella calda familiarità di casa, felice e serena. Vede in quell’ignara sé stessa una sorella minore che non sa ancora cosa l’aspetta, e che si perderà presto per la strada della vita.
-Quando tempo?-chiede, la voce che trema e minaccia di scoppiare in singhiozzi. Lo sguardo che John le rivolge è così addolorato e pieno di rimorsi che suona anche fin troppo sincero. John è un uomo buono, John sta male nel recarle dolore. Ma se il dolore di lei lo porterà alla felicità, bé, Mary è ben felice di soffrire.
-L’indispensabile per esserne sicuro, il minimo per tenertelo nascosto.-mormora, fissandola con i suoi occhi chiari così totalmente devastanti che Mary pensa di poter morirci sotto. Sono occhi da soldato, i suoi, sono tante mitragliatrici che sparano su un campo minato che non ha vittime se non lei. Perché lo dimostra davvero, che è un uomo buono, e lo fa anche quando ti sta uccidendo lentamente con un’ammissione dopo l’altra.
-La verità è che ti ho sposato nel momento sbagliato, Mary.-dice John, passandosi le dita dai lati degli occhi all’estremità superiore del setto nasale, nascondendosi nello sfregamento come se stesse cercando la forza per dire finalmente tutta la verità (che porta dolore, il proverbio è corretto):-Ti ho sposato quando avrei dovuto non farlo. Non fraintendermi, per favore, e lasciami finire tutto il discorso. Ha un senso. Ti prego, non considerarmi un avventato.
Perché un avventato lo è, uno di quelli che agisce d’istinto col cuore in mano, e te lo offre tra le mani sanguinanti poiché non è predisposto di un piatto d’argento. Ma è lì che dovrebbe stare, il cuore di John Watson, tra i gioielli e le stoviglie più luccicanti e preziose del servizio della regina, a Buckingam Palace. Perché nessun gioiello vale così tanto come il cuore così intensamente sensibile di John Watson. E Mary lo sa. Ma è un avventato che non fa comunque cose stupide per l’ansia del momento, o per una difficoltà non permanente. Il bruciante dolore necessario che questo nasconde è terrificante e magnifico al tempo stesso.
-Io tengo a te, Mary, non credere che sia una bugia.-dice John, con lo sguardo basso, mentre Mary vorrebbe piangere lacrime di comete per ciò che sta sentendo perché è tutto così dolorosamente reale che potrebbe buttarsi nel Tamigi e affondare, ne sarebbe felice:-Ti amo, e lo sai, se non fosse stato vero non ti avrei mai chiesto di sposarmi. Sei una donna fantastica, e sei anche una delle persone più importanti della mia vita...ed è proprio qui che sta il problema. Sei tra le più importanti, Mary, ma non sei in cima alla classifica.
Il preludio di un discorso che si preannuncia lungo e pregnante non riesce ad entusiasmarla come al solito. Rimane lì a fissare John con sguardo spento, nel vano tentativo di trattenere la miriade di emozioni che la stanno prepotentemente attraversando in quei pochi minuti, dove lui l’ha trascinata al limite dei suoi confini, spingendola oltre il burrone e tenendola per i capelli. Non ha più chance di aggrapparsi a nulla, perché è come se lui le stesse gridando tutto il tempo che non lo vuole fare, non vuole buttarla giù, ma è costretto. E fa male, fa un male cane.
-Ti ho sposato perché credevo che la persona più importante non ci fosse più. Sparendo, in quel momento eri tu sulle vette del mio pantheon mentale, bellissima nel tuo vestito da sposa con quel mazzo di girasoli in mano e il sorriso più grande che avessi mai visto. Se avessi saputo che quella persona esisteva ancora, da qualche parte, ed era solo in attesa...credo che non ti avrei sposato, Mary. Sapendo che ti avrei dovuto arrecare tutto questo male. Ma non ne ero a conoscenza, del dover portar pazienza, di ciò che avrebbe causato in futuro, e quindi ora mi sto ritrovando a trattarti malissimo e davvero non sai quanto mi addolora questo. Non ho mai voluto farti del male, Mary. Perché ti ho sposata quando non sapevo che lui...
Ed eccolo che salta fuori. Mary comprese in quell’istante tutto il resto, per un pronome sfuggito, per la lieve esitazione che seguì all’uso di quel pronome. Non c’era mai stato che un unico “lui” per John, nella sua vita, perché al confronto con “lui” tutti gli altri “loro” sfumavano e perdevano consistenza. Semplicemente, “lui” li annullava, con la sua luce tanto potente da far invidia alle supernove, con la sua adrenalina e l’eccitazione che trascinava tutti dietro di sé come una potente calamita. John era sempre il primo ad esserne irrimediabilmente attratto. E Mary davvero sentì quasi il bisogno di interromperlo, perché non c’era bisogno di spiegare il resto.
-...sarebbe tornato.-concluse John, sospirando pesantemente e tornando ad abbassare lo sguardo, mentre il tono si incupì fino a perdersi tra i meandri del silenzio che stava per tornare. Respirò lentamente, perché non aveva finito, e doveva dire tutto fino in fondo se voleva davvero essere chiaro su tutte le ragioni che l’avevano spinto a questo:-È successo da tre mesi, Mary. Giusto il tempo per capire che non mi stesse prendendo in giro, che stesse facendo tutto quello sul serio e non per un capriccio momentaneo. Il tempo minimo possibile per il quale mentirti. Odio mentirti, per questo te ne sto parlando ora: non voglio portare avanti una menzogna. Non posso continuare così. Io sto male, mi comporto male nei tuoi confronti, e tu magari eri anche ignara di ciò che stava succedendo...non era giusto nei tuoi confronti. Né nei miei. Né nei suoi. È che mi sono fermato a riflettere fino ad ora, riflettere sul fatto che stessi facendo una sciocchezza o meno, ma la realtà è che prima di ieri lui non aveva mai...detto espressamente che mi ama.
Allora era stato quello il moto di tutto. Mary sentì una stilettata al cuore percorrerle per intero il muscolo, ma non tornare indietro. Sentì il fioretto ancora incastrato tra le sue vene pulsanti, e il suo petto, e tanta carne bruciante e tanta carne trafitta e dolorante. Era un dolore che avrebbe impiegato tempo a svanire, e forse neanche mai sarebbe riuscito a sparire del tutto. Ma così forse era stato sempre dall’inizio. Magari è stato solo questo il suo destino: incontrare John Watson per essere salvata, e poi mettersi da parte (col cuore in pezzi) per lasciare che lui e Sherlock Holmes si salvino a vicenda. Aveva tutto un senso, ora, nella sua testa. Come un puzzle che torna improvvisamente in pezzi. O una tela che riacquista i colori sbiaditi da tempo. Era tutto così giusto...le sembrava così legittimo che quasi si sentì male a non essersene accorta prima. Sherlock Holmes era sempre stato l’unico che era riuscito davvero ad afferrare John Watson per le mani che si ostinava a nascondere dietro la schiena e a tirarlo su, fuori dall’acqua, per permettergli finalmente di respirare. Era stato l’obiettivo che Mary si era prefissata per la sua vita, e se non c’era riuscita lei, non aveva il diritto di ostacolare altri a ottenere il risultato proprio là dove lei aveva fallito. Se questo avrebbe portato alla felicità di John Watson, lei si sarebbe tenuta il suo cuore in pezzi e si sarebbe messa in un angolino. A guardarlo essere felice. A essere un po’ gelosa.
-Va bene.-disse, lentamente, e il tempo sembrò fermarsi quando sentì le sue parole scivolargli dolcemente dal palato alla lingua, impastate, e le sue corde vocali vibrare per far si che le parole uscissero, le prime parole da quando John aveva iniziato a parlare:-Va bene, se questo ti rende felice...solo va bene.-disse, e per un momento credette sul serio di stare per mettersi a piangere come una bambina:-La mia unica condizione è che io e te rimaniamo amici, perché sei un uomo così meraviglioso che non potrei sopportare l’idea di staccarmi da te per sempre.
-È okay,-mormorò dolcemente John, facendo il suo rassicurante e meraviglioso sorriso gentile come per tranquillizzarla e calmarla:-Se tu mi vorrai vedere ancora, per me va bene. Ho già detto che sei molto importante per me. È solo che dovresti odiarmi, adesso.
-Non potrei mai farlo.-sussurrò Mary, mordendosi forte le labbra, anche se il singhiozzò sfilò comunque e riuscì a scapparle tra i denti, risuonando secco e profondo nel silenzio che stava regnando nella stanza con le luci della sera che ormai erano calate da un pezzo:-Non potrei mai.-e spinse la sua mano verso quella di John, per stringerla. Fu un gesto che fece senza riflettere, poiché era un gesto che compiva sempre quando si sentiva persa e aveva bisogno della guida che l’avrebbe riportata a casa, del lume nella notte, della luce del faro nella tempesta, e non riuscì a percepire sul serio la quantità enorme di dolore che provò nel vedere John scostare con gentilezza la mano. Fu allora che capì, fu allora che comprese che John se ne sarebbe andato, se ne sarebbe andato per sempre, da lei, dalla sua vita, da ogni cosa che aveva lasciato lì con lei, dietro di sé. Abbandonata in un modo così gentile che avrebbe dovuto essere illegale, perché non faceva altro che procurare più male, molto più male.
-Bene.-disse, e la sua voce strozzata le provocò anche un attacco di tosse roca e profonda, che le sconquassò i polmoni ormai ridotti completamente a brandelli:-Va, ora. Ti prego. Se torni per prendere le tue cose...bé, fallo nei miei orari scolastici. Porta tutto e vai da Sherlock, ora. Non è che non voglia rivederti...solo dammi un paio di settimane. Per favore.-si ritrovò quasi a pregarlo:-Per un paio di settimane fa di tutto per non farti vedere qui.
John annuì piano, mentre lentamente si alza, le mani che correvano ai bordi della giacca, per infilarsela. Mary lo fissò per tutto il tempo, mentre si allacciava i bottoni e si sistemava il colletto, sollevando la cerniera, preparandosi per compiere uno dei più grandi passi della sua vita. Non staccò mai lo sguardo da lui, conscia che forse non avrebbe più potuto guardarlo così da vicino, coi suoi bellissimi occhi blu, i suoi capelli biondi, la sua mascella e il mento così mascolino, il suo profumo così intenso. Stette in silenzio tutto il tempo, guardando il sul miracolo, il suo salvatore, il suo Messia uscire dalla sua vita. Solo quando John posò la mano sulla maniglia della porta si decise a parlare.
-Dì a Sherlock che è fortunato.-la sua voce era talmente bassa che sembrava provenire da qualche parte laggiù in cantina, oltre le scale che scendevano verso il basso e verso l’oscurità, in qualche angolo sperduto e tremulo:-Che ha tra le mani un grande uomo. E che lo tratti bene, perché se lo farà soffrire troverò un modo per fargliela pagare.
John fece un segno affermativo, alzando per l’ultima volta i suoi occhi su di lei. Poi uscì nel silenzio e nell’ombra della notte, che avvolge ogni cosa, ogni respiro e ogni pensiero.
Probabilmente Sherlock lo stava aspettando a casa, impaziente di sapere come era andata. Magari era sdraiato sul divano, nella sua vestaglia blu, cercando di tenere la sua mente iperattiva e soprasviluppata in movimento per non fremere nell’attesa, forse sparando al muro, forse suonando il violino. Magari si sarebbe alzato, sentendo i passi di John sulle scale, e gli sarebbe corso incontro, con il suo temperamento acuto. E poi avrebbe dedotto tutto dalle stringhe della scarpe, chissà, o dalle pieghe del maglione, guardando John solo un attimo fermo sulla porta di casa (la loro casa). Poi gli si sarebbe avvicinato, facendo uno di quei suoi grandi e bei sorrisi. E John l’avrebbe baciato, abbracciandolo, per dimostrargli che per loro finalmente c’era un posto, nel mondo, un posto dove poter stare insieme senza soffrire la lontananza fisica o emotiva, o l’ostacolo di percorso costituito dal matrimonio, e che finalmente avrebbero potuto essere felici. John magari avrebbe anche lasciato il suo lavoro di medico all’ambulatorio per seguire Sherlock a tempo pieno nei casi. Avrebbero passato il resto della loro vita insieme, fino a vedersi vecchi e acciaccati con i capelli bianchi, prendendosi in giro su come una volta sapevano stare dietro ai killer seriali solo correndo.
La vecchiaia di John, Mary se l’era immaginata, certo. Ma era con lei, in una veranda, seduto su una scomoda sedia a dondolo in legno, circondata magari da figli e nipotini, con qualche cagnolino che scodinzolava qua e là allegramente. Magari con un sole del Sussex dietro, che brillava timido eppure caldo. Mano nella mano, avrebbero visto i frutti della loro vita insieme appassire piano piano, nel tepore caldo di un giorno estivo, quando per tutti e due sarebbe stato troppo. Ma John ora era lontano, e lei era sola, e tutto questo non sarebbe mai avvenuto. Mary scivolò dalla sedia, rannicchiandosi vicino al muro freddo che l’aiutava a darle un po‘ di sollievo. Allungò la mano alla cieca, alla ricerca della cornetta, e nella fretta quasi sbagliò a comporre il numero di Laura.
Rispose al terzo squillo:-Ehi, tesoro, come mai quest’orario? Tutto bene?-con la sua voce calda.
-No.-singhiozzò Mary, lasciando finalmente libere di scorrere sul suo viso pallido le lacrime che aveva così a lungo trattenuto:-Non va affatto bene.
-Ehi, che è successo, angelo?-aveva chiesto la donna, preoccupata, perché raramente aveva sentito l’amica piangere in vita sua.
-Se ne è andato.-disse Mary, stringendosi contro il muro:-John mi ha lasciato.
Ed era soltanto il silenzio, che Laura aveva da offrire alla sua migliore amica, mentre questa liberava un pianto come se lo tenesse dentro sé dall’origine dei tempi. Perché Mary aveva sempre creduto che John fosse l’uomo della sua vita, e probabilmente lo era anche stato, ma ciò che si era dimenticata di immaginare o di mettere in preventivo nei suoi bellissimi sogni di futuro era che anche lei fosse la donna della vita di John, cosa che in realtà non era affatto, poiché c’era qualcun altro, là fuori, qualcun altro che aveva la fortuna di essere l’unico uomo della vita di John Watson, che era una delle persone migliori che si potesse mai conoscere. E forse neanche lo sapeva.

 

FINE
 

 

 

Note della Skizzata:
Visto che quella rompiscatole di Mary ha assunto il volto di Amanda [ sentito le ultime e “bellissime” news sulla sua presenza nella terza stagione? Bene. ] dovevo sfogarmi in qualche modo. E quando ho letto la frase si Albom mi sono messa ad urlare “SHERLOCK! NO SHERLOCK NON LASCIARCI!” senza molta coerenza saltellando per tutta la casa. Ecco, sì, mi veniva da piangere. Per questo mi odio. Ho fatto finire una storia bene, che disgrazia D: Aaaahh qual demone mi possiede? Ah, e comunque ho cercato di farvela stare simpatica. Mary, intendo. Insomma, è una grande donna. Solo che ha scelto l’uomo sbagliato. Ecco tutto. E poi, non credo sia una persona frivola come spesso la dipingono, e soprattutto ce la vedo molto molto innamorata di John. Insomma, Mary ti voglio bene e ti odio, accidenti a te!
Sì, giusto: pazientate per la ricerca della verità. Sto scrivendo pezzi a caso, perché non ho voglia di scrivere il capitolo successivo, ma ho già scritto tutti i pezzi in rima (sì, ci sono parti in rima) e quindi aspettate la mia ispirazione divina. Lo stesso per A magic trick. Attendente, per favore, ora sto facendo altro (scrivo il mio libro). Se vi va di recensire questa, io non ho nulla in contrario :D

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Maya98