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Autore: Gan_HOPE326    31/10/2007    8 recensioni
Sulle note di "Mani giunte" di Paola Turci.
Il mondo è sull'orlo della rovina, devastato dai cyborg. Trunks, l'ultimo dei guerrieri, giace ferito dopo l'ennesima battaglia perduta. Bulma lavora per costruire la macchina del tempo, l'ultima speranza per tutti. Ma basterà davvero a salvare la Terra?
I pensieri, la fatica, e un amore disperato che oltrepassa anche i confini del bene e del male.
Genere: Drammatico, Song-fic, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Trunks
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La canzone da cui questa song-fic prende spunto, “Mani Giunte” di Paola Turci, mi è sempre piaciuta moltissimo, fin dalla prima volta che l’ho ascoltata

La canzone da cui questa song-fic prende spunto, “Mani Giunte” di Paola Turci, mi è sempre piaciuta moltissimo, fin dalla prima volta che l’ho ascoltata. L’idea per la fic l’ho avuta solo qualche settimana fa, quando, sentendo la canzone, ho “visto” chiaramente nella mia mente questa storia, scena per scena, praticamente nella forma definitiva. Io (come molti di voi, immagino) scrivo quasi sempre ispirato dalla musica, ma in questo caso il legame tra la storia e la canzone era così profondo che ho deciso di farne una song-fic, genere a cui di solito non mi dedico. Protagonista è Bulma, uno dei miei personaggi preferiti, anche per affinità, per così dire, “culturali” (ingegnere io, ingegnere lei…). Qui la vedrete all’opera nella sua impresa più difficile, la costruzione della celebre macchina del tempo. Ma questa non è certo una storia che tratta di scienza o ingegneria: è soprattutto una storia sull’amore tra madre e figlio. Spero davvero che vi piaccia. Ma se anche così non fosse, commentate lo stesso, eh! XD

 

Il futuro sarà tuo

di Gan_HOPE326

 

Lascerò tutti i miei figli ad un futuro incerto,
mangerò composta a tavola con mani giunte,
piangerò con discrezione e senza dar nell'occhio,
dormirò come se fossi morta.

Bulma respirava lentamente, seduta malamente su uno sgabello, il capo poggiato su un bancone di legno, tra fili elettrici variopinti, cacciaviti e saldatori. I suoi capelli lunghi, non più brillanti come un tempo ma ancora splendidamente azzurri, erano sparpagliati tra ferro e rame, impiastricciati sul piano del tavolo dalle macchie di grasso nero che lo ricoprivano. La mano teneva ancora, in bilico sul bordo del bancone, la penna con cui aveva ricoperto fogli e fogli di calcoli. L’equilibrio precario si spezzò, la penna e la mano scivolarono giù all’improvviso, e il movimento brusco risvegliò Bulma, che alzò violentemente il capo. Il dolore per i pochi fili di capelli che, rimasti impigliati nell’unto, si erano strappati con quel movimento la ridestò completamente.

-         Trunks! – gridò.

Ma non poteva essere stato Trunks a svegliarla. Trunks era al piano di sopra, ancora a letto, e insomma, era meglio che non pensasse a lui se voleva lavorare bene. Perché doveva tornare a lavorare, nonostante fosse tanto stanca da addormentarsi in quel modo, senza nemmeno accorgersene. Si sistemò sullo sgabello e tornò ai suoi calcoli. Scostò il mezzo panino, ancora avvolto nella carta, che era avanzato dal suo pranzo. Gettò via quei fazzoletti ancora umidi di cui ora si vergognava. Aveva bisogno di essere lucida. Un guerriero che affronta il più temibile degli avversari non può avere idea di quanto sia solitaria e disperata la lotta contro le leggi della fisica, la lotta che lei conduceva per sovvertire il corso stesso della natura e violare le regole del tempo.

Rimise mano ai circuiti, e cercò di non pensarci. Di non pensare a Trunks; ma più tentava, più non riusciva a scacciarlo dalla sua mente. Strano a dirsi, questo non le faceva perdere concentrazione. Le dava forza, invece, e una rabbiosa determinazione. Stava combattendo contro numeri e formule perché voleva salvare il mondo: ma voleva salvare il mondo solo perché Trunks potesse viverci.

Perché Trunks potesse crescere ancora saldava il cavo 13 al circuito 25B.

Perché Trunks potesse diventare così forte che il suo cuore di madre non sarebbe stato abbastanza grande da contenere l’orgoglio che avrebbe provato per lui, inseriva lo spinotto X4 nella porta 78.

Perché Trunks potesse essere felice, prendeva in mano il chip TRS e si preparava a collocarlo nell’apposita sede.

Perché Trunks potesse essere felice…

Bulma si fermò nel suo febbrile lavoro. Teneva il delicato circuito stretto tra pollice e indice e lo rigirava da ogni parte, osservandolo.

 

Pregherò affinché tu possa avere tutto ciò che vuoi,
soldi, macchine e una donna al giorno.
E la possibilità di avere tutto e subito
senza aver bisogno di essere mai perdonato
.

 

Il chip TRS portava sempre con sé un sacco di brutti e strani pensieri. Bulma si morse il labbro, fino a fare sgorgare una goccia di sangue. Si era ripromessa di scacciare tutte quelle assurde idee, ma quelle stronze non facevano altro che tornare a tormentarla. Idee folli e malvagie. Il pensiero che in fondo il mondo era bello che spacciato, che nulla avrebbe potuto salvarlo, o che magari la storia non si poteva cambiare. L’immagine di suo figlio, Trunks, proiettato indietro nel passato, solo perché potesse vivere quei giorni maledetti in cui l’inferno era giunto sulla Terra, giorni che per sua fortuna non ricordava. E magari morire lì, a vent’anni di distanza da casa, dove lei non l’avrebbe più potuto riabbracciare. Poi la pazza, impossibile soluzione che le si era affacciata alla mente. Che andasse a farsi fottere il mondo, lei poteva essere certa di salvare almeno Trunks.

Il suo amore per lui era ormai qualcosa di selvaggio, di disperato. Lui era l’unica cosa che avesse senso nel mondo. Davanti a lui era ancora rassicurante e sorridente: solo con lui ci riusciva. Per suo figlio, Bulma provava un amore che ormai non aveva più niente a che fare né con la ragione né tanto meno con il bene. Era invece un sentimento non diverso da quello che spinge (anzi costringe) una belva a sbranare chiunque osi avvicinarsi ai suoi piccoli, senza dubbi o esitazioni.

Strinse più forte il microchip tra le dita. Trunks era ancora il suo unico pensiero.

Adesso lo immaginava salvo. Lo immaginava forte, sicuro, invincibile. Lo immaginava, quasi in delirio, tanto potente da dominare intere nazioni, da uccidere chi gli si ribellava e gli altri sottometterli come schiavi; e assurdamente, questo pensiero che avrebbe dovuta darle solo ribrezzo (perché non era così, il suo Trunks: non era affatto così), le riusciva consolante, perché voleva dire che lui sarebbe stato vivo, vivo, e salvo in un mondo in cui avrebbe potuto avere tutto ciò che avesse desiderato. Non poteva sperare di meglio per lui. E il suo dito indice tremava, tremava premendo sulla superficie del chip, del famigerato TRS. Bastava solo… bastava

Bulma riuscì a resistere alla tentazione. Allentò la presa e posò sul tavolo il circuito, quel maledetto frammento di silicio e tormento. Fece un profondo respiro. Aveva assolutamente bisogno di calmarsi, mentre invece si sentiva sempre peggio; ora il cuore le batteva troppo forte e come sempre, dopo quelle crisi, si sentiva una merda, una vigliacca egoista che certe cose non avrebbe dovuto nemmeno pensarle, e invece guarda cosa le saltava in mente. Le salirono le lacrime agli occhi, ma non voleva inumidire altri fazzoletti per poi doversene vergognare ancora.

-         Vaffanculo. – bisbigliò, senza sapere bene contro chi, e si alzò per andare a prepararsi un caffé.

 

I say: fuck you! You will never know
what's goin' on with my mind,
so you better watch out!

 

La bevanda nera fumava e fumava, Bulma fissava quelle scialbe volute di vapore seguendole nelle loro contorsioni, mentre la sua mente era altrove. Non era diverso da quelle forme attorcigliate e mutevoli il flusso del tempo: altrettanto inafferrabile e imprevedibile. La donna non vedeva più il fumo svolgersi davanti ai suoi occhi, ma lo scorrere delle migliaia di intricate equazioni che governano il succedersi degli eventi. Da quando aveva cominciato a lavorare alla macchina del tempo, quelle sequenze di lettere e numeri erano entrate sempre più a fondo nella sua vita, e ormai avevano conquistato anche i suoi sogni.

Bulma scosse la testa bruscamente e decise che doveva smettere di pensare a quella roba, se voleva riposarsi un po’. Il caffé, si disse, è fatto per essere bevuto, non trasformato in equazioni differenziali. Voleva assolutamente scrollarsi di dosso quell’ossessione per il suo lavoro, che l’avrebbe portata all’esaurimento. Forse riuscire a rilassarsi un po’ le sarebbe servito anche a mandar via i brutti pensieri una volta per tutte.

Uno stridulo cicalino mandò il silenzio in frantumi. Era un suono petulante ed acuto; allo stesso tempo, una piccola luce rossa prese a lampeggiare sull’orologio al polso di Bulma. La donna si alzò dal tavolo e si precipitò su per le scale. Quell’allarme era collegato direttamente ad un interruttore a fianco del letto di Trunks. Quando lui aveva bisogno di una mano, premeva il pulsante per chiamare la madre. Bulma saltò i gradini quattro a quattro. Ogni volta che il cicalino suonava, anche sapendo che probabilmente non era nulla, si sentiva raggelare. Le condizioni di Trunks non erano delle migliori, lei non sapeva se e quando si sarebbe ripreso, di quel passo, e ogni giorno temeva che suo figlio potesse essere colto da brividi e spasmi, tendere la mano ormai tremante a premere quel pulsante per chiamare invano aiuto e poi perdere le forze. Quel giorno lei sarebbe entrata e lo avrebbe visto riverso sul letto, gli occhi sbarrati, e la vita non avrebbe avuto più senso.

Entrò. Trunks era vivo.

Vivo, e nient’altro.

 

Non reagisci più e hai lo sguardo spento,

stai sudando freddo e parli al vento.

Non fai più il superbo né l’onnipotente,

la tua voce incerta ti tradisce.

 

Era sdraiato e respirava con difficoltà, tenendo la bocca mezza aperta. Il corpo, le braccia, una gamba e metà del viso erano coperti da bendaggi e garze ingialliti dal disinfettante e intrisi, qua e là, di qualche goccia di sangue. Le ferite che i cyborg gli avevano inferto durante l’ultimo combattimento, quando lui si era illuso di poterli finalmente affrontare alla pari, erano gravi e difficili a rimarginarsi, ma Bulma non aveva potuto portarlo in un ospedale, perché nessun posto in superficie era più sicuro. L’aveva tenuto con sé nel rifugio sotterraneo in cui costruiva la macchina del tempo, cambiandogli le fasciature, imboccandolo lei stessa quando aveva bisogno di mangiare.

-         M…mma… - balbettò Trunks, muovendo appena le labbra gonfie.

Bulma gli corse accanto e gli sfiorò la fronte. Sembrava gli fosse salita ancora un po’ la febbre. Purtroppo le ferite si infettavano, e di antibiotici non se ne trovavano più.

-         Cosa succede? Stai male?

Trunks cercò di rispondere, ma non ci riusciva. Le parole gli si rompevano in bocca. Fece un breve cenno con gli occhi, indicando verso il fondo del lettino, poi li rovesciò di nuovo all’indietro. Seguendo la direzione di quello sguardo, Bulma osservò il figlio dalla testa ai piedi, e infine vide ciò che doveva. In mezzo alle gambe, all’altezza del cavallo, una macchia umida si spandeva sui bendaggi. Trunks mosse ancora le labbra, ma non riuscì a dire nulla, distrutto dalla vergogna.

-         Non fa niente, Trunks. – mormorò Bulma. Dovette stringere i denti per costringersi a non piangere – Davvero, non fa niente. Ora ti cambio le bende, d’accordo?

Prese le nuove garze e cominciò a strappar via quelle vecchie. Maledizione, non era giusto, per niente! Suo figlio era un Sayan. Lei che aveva sempre detestato questa parola, questa specie di marchio, ora invece la amava. Ne andava orgogliosa. Trunks era un Sayan! Come suo padre! Voleva gridarlo a tutto il mondo. Quando, quasi un mese prima, Trunks era partito per andare a combattere i cyborg, e lei aveva tentato di fermarlo, il giovane era stato irremovibile. L’aveva fissata con occhi decisi e superbi, gli stessi occhi di Vegeta: e Bulma aveva ceduto. Dopo aver passato una vita a cercare di piegare quell’insopportabile orgoglio in suo padre, ora la riempiva di fierezza, per quanto lei stessa cercasse di negarselo, vedere quell’identica forza in Trunks. Figlio di Vegeta, ma anche suo! Sayan e terrestre insieme! C’era qualcosa di immenso in quest’idea, qualcosa di speciale in suo figlio. Per questo non era giusto che quel figlio venisse ridotto così. Umiliato, ferito, inerme al punto da pisciarsi addosso se non riusciva a chiamare la madre in tempo. Occhi che tremavano di vergogna. Una voce che era solo un sussurro impastato.

-         Mi d…spia… - singhiozzò Trunks sussultando. – M… spiace…

Bulma finì le fasciature, posò un bacio sulla fronte del figlio e uscì dalla stanza. Non riusciva più a guardarlo, ridotto com’era. Era infuriata con i cyborg e con il mondo e con tutti quelli che avevano colpa in quella disgrazia che si era abbattuta su Trunks, compresa stessa. Voleva cambiare le cose, e che Trunks tornasse ad avere quegli occhi belli e orgogliosi che aveva suo padre, e che non avesse mai più bisogno di essere fasciato e imboccato come un bebé. Scese le scale con rabbia, pestando sui gradini e stringendo il corrimano come se avesse voluto stritolarlo. Arrivò al piano di sotto, corse verso il bancone di legno. Aveva preso la sua decisione, stavolta non era una crisi di depressione, non erano i soliti brutti pensieri, stavolta faceva sul serio. Trunks avrebbe avuto una vita diversa da quella. Frugò con frenesia tra i circuiti e i componenti ammucchiati lì, scostandoli con ampi gesti delle braccia, e infine lo trovò, eccolo lì, lo raccolse, lo strinse tra le dita, il dannato, perfido, stupido chip, il chip TRS.

 

Asseconderò ogni tua perversa inclinazione,
proverò
ad interpretare ogni tuo malumore.
Sarò pronta accanto a te quando verrà il momento,
quando il tempo ti restituirà quello che hai dato.

 

TRS stava per Time Run Stop. Quella piccola cosa, nella macchina del tempo, sarebbe servita a fermare la corsa attraverso gli anni al momento giusto: o forse all’unico momento sbagliato. L’epoca in cui sulla Terra sarebbero giunti i cyborg. Senza, la macchina non avrebbe potuto controllarsi, e avrebbe continuato ad andare indietro e indietro fino ad esaurire tutta l’energia immagazzinata. L’autonomia era di due, trecento anni. Si sarebbe fermata in un’epoca in cui non c’erano cyborg, né Sayan, né scienziati folli o alieni conquistatori, ma solo contadini, mercanti, qualche samurai. Un’epoca in cui Trunks sarebbe stato il più forte, il più forte di tutti, per tutta la vita. Non avrebbe mai avuto niente da temere. Avrebbe potuto vivere come preferiva. Continuare a difendere i deboli o farsi inebriare dalla sua forza, a Bulma non importava. Purché vivesse. Non avrebbe potuto più tornare: se ne sarebbe fatta una ragione, alla fine. Che se ne faceva, in fondo, di una vecchia madre che rimugina calcoli e di un mondo di rovine?

Sarò io, pensò Bulma, io e il mondo che offriamo la nostra vita in cambio della tua. Le andava bene così. Lo amava abbastanza da essere disposta a perderlo per sempre. Premette un’unghia contro la superficie del chip e lasciò una piccola tacca nella plastica nera che lo rivestiva. Quanto bastava perché quell’arnese non funzionasse più. Lo mise finalmente al suo posto nella macchina del tempo, che dormisse là dentro. Non appena guarito, Trunks sarebbe partito, e il chip avrebbe fatto il suo lavoro: o meglio, non l’avrebbe fatto. E il mondo sarebbe stato condannato per sempre alla distruzione per mano di 17 e 18. E Trunks sarebbe stato salvo.

Richiuse lo sportello della macchina per non vedere più quel che aveva fatto e non essere tentata di riparare il guasto mossa da stupida onestà.

Ti proteggerò dal presente, si disse, Trunks, ti proteggerò dal presente e dal passato, e finalmente il futuro sarà tuo.

 

Poi passarono due settimane.

 

-         Questa sarà una bella sorpresa.

Trunks era solo nella stanza e ripeté queste parole ad alta voce, anche se nessuno poteva sentirlo. Gli piaceva il suono e il significato di quella frase. Quel mattino si era svegliato e, all’improvviso, si era sentito certo di essere in grado di camminare di nuovo. Le ossa rotte non gli dolevano più. Si sentiva forte come prima: anzi, un po’ di più. Saltò giù dal letto, i piedi gli dolevano un po’ ma erano stabili, poi fece qualche passo e riprese dimestichezza con i muscoli delle gambe, intorpiditi dalla lunga degenza. Sul comodino c’era un bicchiere di vetro sporco e semivuoto, da cui proveniva un fastidioso odore di medicinale, e dentro c’era un cucchiaino d’acciaio. Trunks lo raccolse e lo strinse in mano per provare e sgranchire un po’ le dita. Quando allentò la presa, il metallo era accartocciato in un’unica pallina. Il ragazzo sorrise, felice di sentirsi di nuovo in forma. Scese le scale senza timore, proponendosi di spuntare all’improvviso davanti alla madre.

-         Sarà proprio una bella sorpresa, proprio bella. – ripeteva a mezza voce tra sé e sé.

Provava la pura e semplice felicità di sentirsi di nuovo vivo, e voleva che anche sua madre fosse felice allo stesso modo, e vedere il suo primo sguardo e il suo primo sorriso dopo tanti giorni di tristezza.

Giunse nel vasto hangar in cui Bulma stava allestendo la macchina del tempo. Lei, però, non c’era. Avanzò piano, quasi con timore, sentendo i suoi passi che riecheggiavano sonoramente tra quelle altissime pareti di cemento. La macchina del tempo, quasi completata, era in mezzo alla stanza, un insetto abbandonato e dormiente, irto di zampe e strane antenne e filamenti che gli uscivano dal corpo in ogni dove. Passo dopo passo, Trunks giunse a toccarla. Posò la mano sulla lamiera e la fece scorrere. Era la prima volta che vedeva la macchina così: quando era stato ferito e confinato a letto, di quel marchingegno esistevano ancora solo i disegni.

Sorrise. All’inizio lui nemmeno aveva creduto possibile che sua madre potesse davvero creare una cosa simile, e ora, invece, ce l’aveva davanti.

Forse poteva persino funzionare.

Fu assalito da una curiosità giocosa e incontrollabile, come un bambino che ha tra le mani un nuovo giocattolo. Non sarebbe mai riuscito a costruire una tale diavoleria, però ne sapeva abbastanza da riuscire a comprenderne il funzionamento. Aveva studiato anche lui i progetti, a fianco di sua madre, quando non era impegnato ad allenarsi o a farsi massacrare dai cyborg. Aprì uno sportello e cominciò a ripercorrere le linee di metallo e plastica. Chiudeva gli occhi, ricordava i disegni, poi li riapriva e trovava tutto lì davanti, trasformato in realtà.

-         CHE STAI FACENDO?

Bulma apparve all’improvviso sulla soglia. Non dimostrò sorpresa né gioia al rivedere Trunks finalmente in salute, sembrava invece infuriata. Il ragazzo la fissò perplesso, senza capire cosa avesse fatto di male, mentre lei avanzava verso di lui con passo nervoso. Trunks teneva ancora in mano un fascio di cavi, Bulma glieli strappò via con uno strattone.

-         Non devi toccare questa roba! – gridò la donna - Vuoi rovinare tutto?

-         Stavo solo dando un’occhiata… - fece Trunks, con voce incerta, più per la sorpresa che per altro.

-         Beh, io non voglio che tu metta le mani nel mio lavoro!

La donna si mise a cacciare i fili dentro lo sportello con frenesia, afferrandoli e ficcandoli dove c’era spazio, senza nessun ordine. Le mani le tremavano, e aveva le labbra scosse da fremiti di rabbia. Borbottava tra sé e sé codici, posizioni, ricordando come andava rimontato tutto quanto, e a questi inframmezzava delle sorde imprecazioni. Trunks tentò di parlarle:

-         Ascolta, mamma, capisco che tutto questo lavoro ti abbia stancata e che magari sei  un po’ nervosa, ma io non stavo facendo nulla di male.

-         Stavi incasinando tutto, ecco cosa! E io… io… non ho davvero tempo per riparare ai danni che tu fai, no. Lasciami lavorare!

-         Ma insomma, mamma!  - esclamò il ragazzo, offeso - So anch’io quello che faccio, cosa credi!

Ora la donna aveva la voce incrinata. Continuò a gridare, e allo stesso tempo gli occhi le si fecero lucidi. Era preda di rabbia e paura insieme.

-         Sai quello che fai, sai quello che fai… la macchina l’ho costruita io e solo io posso metterci mano, e questa è una regola!

-         Ma sei impazzita? Che ti passa per la testa? Non ti riconosco più!

 

I say: fuck you! You will never know
what's goin' on with my mind…

Fuck you,
so you better watch out!

 

Bulma non vedeva neanche più cosa stava facendo. Sistemava tutto alla rinfusa, e ad ogni momento i fili e i circuiti erano più disordinati di prima. Cominciò a tirare forte un cavo che si era impigliato. Qualcosa cedette, i fili si strapparono dove erano stati saldati, e ora la mano di Bulma stringeva solo uno stralunato ciuffo di rame e plastica.

-         Guarda cos’hai combinato. E poi sarei io quello che non ci sa fare! – fece Trunks, avvicinandosi, ma Bulma lo allontanò con un gesto brusco della mano.

-         Lascia! FACCIO IO!

Mentre la donna armeggiava con i fili strappati, Trunks ne approfittò per avvicinarsi allo sportello aperto. Non capiva il nervosismo di sua madre, ma ormai ne aveva fatto una specie di questione di principio, e non voleva dargliela vinta. Tanto più che, dopo tutta quella confusione, probabilmente c’era proprio bisogno di qualcuno che risistemasse le cose con più ordine. Bulma era andata a cercare su un bancone di legno gli utensili di cui aveva bisogno per riparare il danno fatto, e Trunks ebbe tutto il tempo di guardare con calma.

Nonostante il modo caotico in cui le componenti erano state rimesse a posto era più o meno tutto come doveva essere. Tutto, tranne…

Qualcosa attirò l’attenzione di Trunks, che allungò una mano dentro lo sportello, verso un circuito nascosto in mezzo agli altri.

 

Il saldatore, il saldatore. E poi lo stagno. Bulma rovistava con frenesia tra le mille cose utili e inutili che affollavano il suo banco da lavoro, gettando quello che non le serviva di lato, o direttamente giù sul pavimento. Aveva fretta di tornare nell’hangar e di finire il lavoro, richiudere tutto.

-         E’ qui, è qui.

Prese tutto fra le braccia e corse via, verso la macchina del tempo. Quando arrivò, Trunks stava frugando nello sportello aperto. Maledizione, gliel’aveva detto di lasciare in pace il suo lavoro! O avrebbe potuto scoprire…

-         Trunks, che fai, ti ho detto di smetterla! – gridò da lontano, affrettando ancora di più il passo.

Il ragazzo tirò fuori qualcosa dal groviglio dei circuiti. Qualcosa che ora teneva tra indice e pollice.

Bulma sentì il suo cuore fermarsi per un attimo.

-         Guarda qua, mamma! – disse Trunks, quasi trionfante – E tu che non volevi che mettessi mano nel tuo lavoro. Guarda un po’ cos’ho trovato!

Lanciò l’oggettino con un gesto rapido. Bulma tese il palmo della mano e raccolse un minuscolo rettangolo di plastica nera, un po’ ammaccato.

Piccolo sciocco, pensò; Trunks, piccolo sciocco mio. Io potrei non avere mai più il coraggio di salvarti, e tu ti condanni da solo.

-         E’ il chip TRS. – soffiò con un filo di voce Bulma.

Piccolo sciocco mio.

-         Lo so! – ribatté il ragazzo – Ed è rotto. Meno male che me ne sono accorto io! Ora dovremo sostituirlo. Ma ti figuri che guaio, se non l’avessi scoperto? Chissà dove mi avrebbe fatto finire quel trabiccolo!

Chissà dove. Bulma strinse il piccolo chip in un pugno.

-         Già. Sarebbe stato un bel guaio. – ammise.

-         Mi meriterei delle scuse, non credi?

-         D’accordo. Scusa.

Bulma andò a sedersi ai margini dell’hangar, su uno sgabello. Sentiva le gambe deboli come filo di ferro e temeva di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Tornò a guardare il piccolo microcircuito che stringeva in mano e restò ferma, ipnotizzata, per un tempo indefinito.

-         Grazie.

Si risvegliò dalla trance sentendo la voce di Trunks. Il ragazzo era ancora accanto alla macchina del tempo e la stava rimirando girandoci lentamente intorno.

-         Grazie. – ripeté – L’ho capito solo ora, vedendoti così stanca, e nervosa… deve essere stata una fatica terribile per te, costruire questa macchina.

-         In effetti… - ammise Bulma accennando un sorriso.

-         I calcoli.

-         Ho dovuto riscrivere buona parte della fisica del continuum temporale.

-         E poi progettare tutti quei circuiti.

-         Non farmelo ricordare, ho ancora gli incubi.

-         E correggere gli errori.

-         Per ognuno che ne eliminavo, ne spuntavano altri due!

-         E costruirla, saldare le lamiere, montare i pezzi!

-         Io non sono forte come voi Sayan, ho fatto una gran fatica e adesso la schiena mi fa un male cane.

-         E’ stata un po’ una battaglia, no?

-         Puoi dirlo forte.

-         E tutto questo…

Trunks tacque un istante. Si era avvicinato alla madre, e ora teneva le sue fragili mani, smagrite dall’età e logorate dal lavoro, tra le proprie, forti e segnate da poche, profonde cicatrici.

-         Tutto questo – concluse – l’hai fatto perché io potessi incontrare mio padre, e diventare abbastanza forte da battere i cyborg.

-         E per salvare il mondo. – gli ricordò Bulma.

-         Anche per quello.

 Scese di nuovo il silenzio. Bulma alzò lo sguardo sul figlio e lo vide concentrato. La sua mente era già proiettata verso lo scontro imminente, verso le difficoltà che lo avrebbero atteso nel passato. Si era appena ripreso da ferite quasi mortali, eppure non aveva perso nulla della sua determinazione. Era pronto a combattere. Non si arrendeva. Non si sarebbe mai arreso.

I soliti, stupidi Sayan: si sentono sempre onnipotenti, pensò Bulma, e sorrise.

 - Ascolta, Trunks. – disse all’improvviso – La mia battaglia era questa, e io l’ho vinta. Ora promettimi…

Afferrò con le mani il volto del figlio e lo girò verso di sé, fissandolo dritto negli occhi.

-         Promettimi! Che tu vincerai la tua.

Trunks rise.

-         Perché, ne dubiti? Ti ricordo che io sono il Principe dei Sayan, e devo essere il più forte di tutti, per forza! Alla fine sarò io a spuntarla.

Il Principe. Aveva di nuovo quegli occhi, quegli occhi che Bulma voleva tanto rivedere, quegli occhi belli e orgogliosi, occhi da Principe, occhi da Vegeta, occhi da Sayan. Avrò fiducia in te, decise Bulma, e solo in te. Si vergognò di aver pensato di aiutarlo con uno stupido giochetto di chip e simili: pensare che avesse bisogno di simili trucchetti per sopravvivere era offensivo ed umiliante.

Accanto allo sgabello c’era un secchio di plastica per i rifiuti. Bulma allungò la mano e lasciò cadere dentro un piccolo frammento nero, quel che restava del chip TRS. Il rettangolino rimbalzò su un ritaglio di foglio metallico, tintinnò tra qualche scheggia di vetro e infine si perse in un mare di cartacce coperte di cifre e scarabocchi, scivolando giù fino al fondo del cestino. Restò abbandonato lì, in mezzo alla spazzatura, inutile, come tutte le cose rotte.

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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