La canzone da cui questa song-fic prende spunto, “Mani Giunte” di Paola Turci, mi è sempre piaciuta moltissimo, fin dalla prima
volta che l’ho ascoltata. L’idea per la fic l’ho avuta solo qualche settimana fa, quando, sentendo la
canzone, ho “visto” chiaramente nella mia mente questa storia, scena per scena,
praticamente nella forma definitiva. Io (come molti di voi, immagino) scrivo quasi sempre ispirato dalla musica, ma in questo caso il
legame tra la storia e la canzone era così profondo che ho deciso di farne una song-fic, genere a cui di solito non mi dedico.
Protagonista è Bulma, uno dei miei personaggi preferiti, anche per affinità,
per così dire, “culturali” (ingegnere io, ingegnere lei…). Qui la vedrete
all’opera nella sua impresa più difficile, la costruzione della celebre
macchina del tempo. Ma questa non è certo una storia
che tratta di scienza o ingegneria: è soprattutto una storia sull’amore tra
madre e figlio. Spero davvero che vi piaccia. Ma se
anche così non fosse, commentate lo stesso, eh! XD
Il futuro sarà tuo
di Gan_HOPE326
Lascerò tutti i miei figli ad un
futuro incerto,
mangerò composta a tavola con mani giunte,
piangerò con discrezione e senza dar nell'occhio,
dormirò come se fossi morta.
Bulma respirava lentamente, seduta malamente
su uno sgabello, il capo poggiato su un bancone di legno, tra fili elettrici
variopinti, cacciaviti e saldatori. I suoi capelli lunghi, non più brillanti come
un tempo ma ancora splendidamente azzurri, erano sparpagliati tra ferro e rame,
impiastricciati sul piano del tavolo dalle macchie di grasso nero che lo
ricoprivano. La mano teneva ancora, in bilico sul bordo del bancone, la penna
con cui aveva ricoperto fogli e fogli di calcoli.
L’equilibrio precario si spezzò, la penna e la mano scivolarono giù
all’improvviso, e il movimento brusco risvegliò Bulma, che alzò violentemente
il capo. Il dolore per i pochi fili di capelli che, rimasti impigliati
nell’unto, si erano strappati con quel movimento la
ridestò completamente.
-
Trunks!
– gridò.
Ma non poteva essere stato Trunks a
svegliarla. Trunks era al piano di sopra, ancora a letto, e insomma, era meglio
che non pensasse a lui se voleva lavorare bene. Perché doveva
tornare a lavorare, nonostante fosse tanto stanca da addormentarsi in quel
modo, senza nemmeno accorgersene. Si sistemò sullo sgabello e tornò ai
suoi calcoli. Scostò il mezzo panino, ancora avvolto nella carta, che era avanzato dal suo pranzo. Gettò via quei fazzoletti ancora
umidi di cui ora si vergognava. Aveva bisogno di essere
lucida. Un guerriero che affronta il più temibile degli avversari
non può avere idea di quanto sia solitaria e disperata la lotta contro le leggi
della fisica, la lotta che lei conduceva per sovvertire il corso stesso della
natura e violare le regole del tempo.
Rimise mano ai circuiti, e cercò di non pensarci. Di non
pensare a Trunks; ma più tentava, più non riusciva a scacciarlo dalla sua
mente. Strano a dirsi, questo non le faceva perdere concentrazione. Le dava
forza, invece, e una rabbiosa determinazione. Stava combattendo contro numeri e
formule perché voleva salvare il mondo: ma voleva
salvare il mondo solo perché Trunks potesse viverci.
Perché Trunks potesse crescere ancora
saldava il cavo 13 al circuito 25B.
Perché Trunks potesse diventare così forte
che il suo cuore di madre non sarebbe stato abbastanza grande da contenere
l’orgoglio che avrebbe provato per lui, inseriva lo spinotto X4 nella porta 78.
Perché Trunks potesse essere felice, prendeva in mano il
chip TRS e si preparava a collocarlo nell’apposita
sede.
Perché Trunks potesse essere felice…
Bulma si fermò nel suo febbrile lavoro. Teneva il delicato
circuito stretto tra pollice e indice e lo rigirava da ogni parte,
osservandolo.
Pregherò affinché tu possa avere
tutto ciò che vuoi,
soldi, macchine e una donna al giorno.
E la possibilità di avere tutto e subito
senza aver bisogno di essere mai perdonato.
Il chip TRS portava sempre con sé
un sacco di brutti e strani pensieri. Bulma si morse il labbro, fino a fare
sgorgare una goccia di sangue. Si era ripromessa di scacciare tutte quelle
assurde idee, ma quelle stronze
non facevano altro che tornare a tormentarla. Idee folli
e malvagie. Il pensiero che in fondo il mondo era bello che
spacciato, che nulla avrebbe potuto salvarlo, o che magari la storia non si
poteva cambiare. L’immagine di suo figlio, Trunks, proiettato indietro
nel passato, solo perché potesse vivere quei giorni maledetti in cui l’inferno
era giunto sulla Terra, giorni che per sua fortuna non ricordava.
E magari morire lì, a vent’anni di
distanza da casa, dove lei non l’avrebbe più potuto riabbracciare. Poi
la pazza, impossibile soluzione che le si era
affacciata alla mente. Che andasse a farsi fottere il
mondo, lei poteva essere certa di salvare almeno Trunks.
Il suo amore per lui era ormai qualcosa di selvaggio, di
disperato. Lui era l’unica cosa che avesse senso nel
mondo. Davanti a lui era ancora rassicurante e sorridente: solo con lui ci
riusciva. Per suo figlio, Bulma provava un amore che ormai non aveva più niente
a che fare né con la ragione né tanto meno con il bene. Era invece un
sentimento non diverso da quello che spinge (anzi costringe) una belva a sbranare chiunque
osi avvicinarsi ai suoi piccoli, senza dubbi o esitazioni.
Strinse più forte il microchip tra le dita. Trunks era
ancora il suo unico pensiero.
Adesso lo immaginava salvo. Lo immaginava forte, sicuro,
invincibile. Lo immaginava, quasi in delirio, tanto potente da dominare intere
nazioni, da uccidere chi gli si ribellava e gli altri sottometterli come
schiavi; e assurdamente, questo pensiero che avrebbe dovuta
darle solo ribrezzo (perché non era così, il suo Trunks: non era affatto così),
le riusciva consolante, perché voleva dire che lui sarebbe stato vivo, vivo, e salvo in un mondo in cui avrebbe
potuto avere tutto ciò che avesse desiderato. Non poteva sperare di meglio per
lui. E il suo dito indice tremava, tremava premendo
sulla superficie del chip, del famigerato TRS. Bastava solo… bastava…
Bulma riuscì a resistere alla tentazione. Allentò la presa e
posò sul tavolo il circuito, quel maledetto frammento di silicio e tormento.
Fece un profondo respiro. Aveva assolutamente bisogno di calmarsi, mentre invece si sentiva sempre peggio; ora il cuore le
batteva troppo forte e come sempre, dopo quelle crisi, si sentiva una merda,
una vigliacca egoista che certe cose non avrebbe dovuto nemmeno pensarle, e
invece guarda cosa le saltava in mente. Le salirono le lacrime agli occhi, ma
non voleva inumidire altri fazzoletti per poi doversene vergognare ancora.
-
Vaffanculo.
– bisbigliò, senza sapere bene contro chi, e si alzò per
andare a prepararsi un caffé.
I say: fuck
you! You will never know
what's goin' on with my mind,
so you better watch out!
La bevanda nera fumava e fumava,
Bulma fissava quelle scialbe volute di vapore seguendole nelle loro
contorsioni, mentre la sua mente era altrove. Non era diverso da quelle forme
attorcigliate e mutevoli il flusso del tempo: altrettanto inafferrabile e
imprevedibile. La donna non vedeva più il fumo svolgersi davanti ai suoi occhi,
ma lo scorrere delle migliaia di intricate equazioni
che governano il succedersi degli eventi. Da quando aveva cominciato a lavorare
alla macchina del tempo, quelle sequenze di lettere e numeri erano entrate sempre più a fondo nella sua vita, e ormai avevano
conquistato anche i suoi sogni.
Bulma scosse la testa bruscamente e decise che doveva
smettere di pensare a quella roba, se voleva riposarsi un po’. Il caffé, si
disse, è fatto per essere bevuto, non trasformato in equazioni differenziali. Voleva
assolutamente scrollarsi di dosso quell’ossessione per il suo lavoro, che l’avrebbe portata all’esaurimento. Forse riuscire a rilassarsi
un po’ le sarebbe servito anche a mandar via i brutti pensieri una volta per tutte.
Uno stridulo cicalino mandò il silenzio in frantumi. Era un
suono petulante ed acuto; allo stesso tempo, una piccola luce rossa prese a
lampeggiare sull’orologio al polso di Bulma. La donna si alzò dal tavolo e si
precipitò su per le scale. Quell’allarme era collegato direttamente ad un
interruttore a fianco del letto di Trunks. Quando lui
aveva bisogno di una mano, premeva il pulsante per chiamare la madre. Bulma
saltò i gradini quattro a quattro. Ogni volta che il
cicalino suonava, anche sapendo che probabilmente non era nulla, si sentiva
raggelare. Le condizioni di Trunks non erano delle migliori, lei non sapeva se
e quando si sarebbe ripreso, di quel passo, e ogni giorno temeva che suo figlio
potesse essere colto da brividi e spasmi, tendere la mano ormai tremante a premere
quel pulsante per chiamare invano aiuto e poi perdere le forze. Quel giorno lei
sarebbe entrata e lo avrebbe visto riverso sul letto, gli occhi sbarrati, e la
vita non avrebbe avuto più senso.
Entrò.
Trunks era vivo.
Vivo, e
nient’altro.
Non reagisci più e hai
lo sguardo spento,
stai sudando freddo e parli al vento.
Non fai più il superbo
né l’onnipotente,
la tua voce incerta ti tradisce.
Era sdraiato e respirava con difficoltà, tenendo la bocca
mezza aperta. Il corpo, le braccia, una gamba e metà del viso erano coperti da
bendaggi e garze ingialliti dal disinfettante e intrisi,
qua e là, di qualche goccia di sangue. Le ferite che i cyborg
gli avevano inferto durante l’ultimo combattimento, quando lui si era illuso di
poterli finalmente affrontare alla pari, erano gravi e difficili a
rimarginarsi, ma Bulma non aveva potuto portarlo in un ospedale, perché nessun
posto in superficie era più sicuro. L’aveva tenuto con sé nel rifugio
sotterraneo in cui costruiva la macchina del tempo, cambiandogli le fasciature,
imboccandolo lei stessa quando aveva bisogno di
mangiare.
-
M…mma… - balbettò Trunks, muovendo appena le labbra gonfie.
Bulma gli corse accanto e gli sfiorò la fronte. Sembrava gli
fosse salita ancora un po’ la febbre. Purtroppo le
ferite si infettavano, e di antibiotici non se ne
trovavano più.
-
Cosa succede? Stai male?
Trunks cercò di rispondere, ma non ci riusciva. Le parole
gli si rompevano in bocca. Fece un breve cenno con gli occhi,
indicando verso il fondo del lettino, poi li rovesciò di nuovo
all’indietro. Seguendo la direzione di quello sguardo, Bulma osservò il figlio
dalla testa ai piedi, e infine vide ciò che doveva. In mezzo alle gambe,
all’altezza del cavallo, una macchia umida si spandeva sui bendaggi. Trunks
mosse ancora le labbra, ma non riuscì a dire nulla, distrutto dalla vergogna.
-
Non
fa niente, Trunks. – mormorò Bulma. Dovette stringere i denti
per costringersi a non piangere – Davvero, non fa niente. Ora ti cambio
le bende, d’accordo?
Prese le nuove garze e cominciò a strappar via quelle
vecchie. Maledizione, non era giusto, per niente! Suo figlio era un Sayan. Lei che aveva sempre detestato questa parola, questa specie di
marchio, ora invece la amava. Ne andava
orgogliosa. Trunks era un Sayan! Come suo padre! Voleva gridarlo a tutto il
mondo. Quando, quasi un mese prima, Trunks era partito
per andare a combattere i cyborg, e lei aveva tentato di fermarlo, il giovane
era stato irremovibile. L’aveva fissata con occhi decisi e superbi, gli stessi occhi di Vegeta: e Bulma aveva ceduto. Dopo
aver passato una vita a cercare di piegare quell’insopportabile orgoglio in suo
padre, ora la riempiva di fierezza, per quanto lei stessa cercasse di
negarselo, vedere quell’identica forza in Trunks. Figlio di Vegeta, ma
anche suo! Sayan e terrestre insieme! C’era qualcosa di immenso
in quest’idea, qualcosa di speciale in suo figlio.
Per questo non era giusto che quel figlio venisse
ridotto così. Umiliato, ferito, inerme al punto da pisciarsi
addosso se non riusciva a chiamare la madre in tempo. Occhi
che tremavano di vergogna. Una voce che era solo
un sussurro impastato.
-
Mi
d…spia… - singhiozzò Trunks sussultando. – M… spiace…
Bulma finì le fasciature, posò un bacio sulla fronte del
figlio e uscì dalla stanza. Non riusciva più a guardarlo, ridotto com’era. Era
infuriata con i cyborg e con il mondo e con tutti quelli che avevano colpa in
quella disgrazia che si era abbattuta su Trunks, compresa sé
stessa. Voleva cambiare le cose, e che Trunks tornasse
ad avere quegli occhi belli e orgogliosi che aveva suo padre, e che non avesse
mai più bisogno di essere fasciato e imboccato come un bebé. Scese le scale con
rabbia, pestando sui gradini e stringendo il corrimano come se avesse voluto
stritolarlo. Arrivò al piano di sotto, corse verso il bancone di legno. Aveva
preso la sua decisione, stavolta non era una crisi di depressione, non erano i soliti brutti pensieri, stavolta faceva sul serio.
Trunks avrebbe avuto una vita diversa da quella. Frugò con frenesia tra i
circuiti e i componenti ammucchiati lì, scostandoli
con ampi gesti delle braccia, e infine lo trovò, eccolo lì, lo raccolse, lo
strinse tra le dita, il dannato, perfido, stupido chip, il chip TRS.
Asseconderò ogni tua perversa inclinazione,
proverò ad interpretare ogni tuo malumore.
Sarò pronta accanto a te quando verrà il momento,
quando il tempo ti restituirà quello che hai dato.
TRS
stava
per Time Run Stop. Quella piccola cosa, nella macchina del tempo, sarebbe
servita a fermare la corsa attraverso gli anni al momento giusto: o forse all’unico
momento sbagliato. L’epoca in cui sulla Terra sarebbero giunti i cyborg. Senza, la macchina non avrebbe
potuto controllarsi, e avrebbe continuato ad andare indietro e indietro fino ad
esaurire tutta l’energia immagazzinata. L’autonomia era di due, trecento anni. Si
sarebbe fermata in un’epoca in cui non c’erano cyborg, né Sayan, né scienziati folli o alieni conquistatori, ma solo contadini, mercanti,
qualche samurai. Un’epoca in cui Trunks sarebbe stato
il più forte, il più forte di tutti, per tutta la vita. Non avrebbe mai avuto
niente da temere. Avrebbe potuto vivere come preferiva. Continuare a difendere
i deboli o farsi inebriare dalla sua forza, a Bulma non importava. Purché vivesse. Non avrebbe potuto
più tornare: se ne sarebbe fatta una ragione, alla fine. Che
se ne faceva, in fondo, di una vecchia madre che rimugina calcoli e di un mondo
di rovine?
Sarò io, pensò Bulma, io e il mondo che offriamo
la nostra vita in cambio della tua. Le andava bene così. Lo amava abbastanza da
essere disposta a perderlo per sempre. Premette un’unghia contro la superficie
del chip e lasciò una piccola tacca nella plastica
nera che lo rivestiva. Quanto bastava perché quell’arnese non
funzionasse più. Lo mise finalmente al suo posto nella macchina del
tempo, che dormisse là dentro. Non appena guarito,
Trunks sarebbe partito, e il chip avrebbe fatto il suo
lavoro: o meglio, non l’avrebbe fatto. E il mondo
sarebbe stato condannato per sempre alla distruzione per mano di 17 e 18. E Trunks sarebbe stato salvo.
Richiuse lo sportello della macchina per non vedere più quel
che aveva fatto e non essere tentata di riparare il guasto mossa
da stupida onestà.
Ti proteggerò dal presente, si disse,
Trunks, ti proteggerò dal presente e dal passato, e finalmente il futuro sarà
tuo.
Poi passarono due settimane.
-
Questa
sarà una bella sorpresa.
Trunks era solo nella stanza e ripeté queste parole ad alta
voce, anche se nessuno poteva sentirlo. Gli piaceva il suono e il significato
di quella frase. Quel mattino si era svegliato e, all’improvviso, si era
sentito certo di essere in grado di camminare di
nuovo. Le ossa rotte non gli dolevano più. Si sentiva forte come prima: anzi,
un po’ di più. Saltò giù dal letto, i piedi gli dolevano un po’
ma erano stabili, poi fece qualche passo e riprese dimestichezza con i
muscoli delle gambe, intorpiditi dalla lunga degenza. Sul comodino c’era un
bicchiere di vetro sporco e semivuoto, da cui proveniva un fastidioso odore di
medicinale, e dentro c’era un cucchiaino d’acciaio. Trunks lo raccolse e lo
strinse in mano per provare e sgranchire un po’ le dita. Quando
allentò la presa, il metallo era accartocciato in un’unica pallina. Il ragazzo
sorrise, felice di sentirsi di nuovo in forma. Scese le scale senza timore,
proponendosi di spuntare all’improvviso davanti alla madre.
-
Sarà
proprio una bella sorpresa, proprio bella. – ripeteva
a mezza voce tra sé e sé.
Provava la pura e semplice felicità di sentirsi di nuovo
vivo, e voleva che anche sua madre fosse felice allo stesso modo, e vedere il
suo primo sguardo e il suo primo sorriso dopo tanti
giorni di tristezza.
Giunse nel vasto hangar in cui Bulma stava allestendo la
macchina del tempo. Lei, però, non c’era. Avanzò piano, quasi con timore,
sentendo i suoi passi che riecheggiavano sonoramente tra quelle altissime
pareti di cemento. La macchina del tempo, quasi completata,
era in mezzo alla stanza, un insetto abbandonato e dormiente, irto di zampe e
strane antenne e filamenti che gli uscivano dal corpo in ogni dove.
Passo dopo passo, Trunks giunse a toccarla. Posò la mano sulla lamiera e la
fece scorrere. Era la prima volta che vedeva la macchina così: quando era stato
ferito e confinato a letto, di quel marchingegno esistevano ancora solo i
disegni.
Sorrise. All’inizio lui nemmeno aveva creduto possibile che
sua madre potesse davvero creare una cosa simile, e ora, invece, ce l’aveva davanti.
Forse poteva persino funzionare.
Fu assalito da una curiosità giocosa e incontrollabile, come
un bambino che ha tra le mani un nuovo giocattolo. Non
sarebbe mai riuscito a costruire una tale diavoleria, però ne sapeva abbastanza da riuscire a comprenderne il
funzionamento. Aveva studiato anche lui i progetti, a fianco di sua madre,
quando non era impegnato ad allenarsi o a farsi massacrare dai cyborg. Aprì uno sportello e cominciò a ripercorrere le
linee di metallo e plastica. Chiudeva gli occhi, ricordava i disegni, poi li
riapriva e trovava tutto lì davanti, trasformato in realtà.
-
CHE STAI FACENDO?
Bulma apparve all’improvviso sulla soglia. Non dimostrò
sorpresa né gioia al rivedere Trunks finalmente in salute, sembrava invece
infuriata. Il ragazzo la fissò perplesso, senza capire cosa avesse fatto di
male, mentre lei avanzava verso di lui con passo nervoso. Trunks teneva ancora in mano un fascio di cavi, Bulma glieli strappò
via con uno strattone.
-
Non
devi toccare questa roba! – gridò la donna - Vuoi rovinare tutto?
-
Stavo
solo dando un’occhiata… - fece Trunks, con voce
incerta, più per la sorpresa che per altro.
-
Beh,
io non voglio che tu metta le mani nel mio lavoro!
La donna si mise a cacciare i fili dentro lo sportello con
frenesia, afferrandoli e ficcandoli dove c’era spazio, senza nessun ordine. Le
mani le tremavano, e aveva le labbra scosse da fremiti di rabbia. Borbottava
tra sé e sé codici, posizioni, ricordando come andava rimontato tutto quanto, e
a questi inframmezzava delle sorde imprecazioni. Trunks tentò di parlarle:
-
Ascolta,
mamma, capisco che tutto questo lavoro ti abbia stancata
e che magari sei un po’ nervosa, ma io
non stavo facendo nulla di male.
-
Stavi
incasinando tutto, ecco cosa! E io… io… non ho davvero
tempo per riparare ai danni che tu fai, no. Lasciami
lavorare!
-
Ma insomma, mamma! - esclamò il
ragazzo, offeso - So anch’io quello che faccio, cosa credi!
Ora la donna aveva la voce incrinata. Continuò a gridare, e
allo stesso tempo gli occhi le si fecero lucidi. Era
preda di rabbia e paura insieme.
-
Sai
quello che fai, sai quello che fai… la macchina l’ho
costruita io e solo io posso metterci mano, e questa è una regola!
-
Ma sei impazzita? Che ti passa per la testa? Non
ti riconosco più!
I say: fuck
you! You will never know
what's goin' on with my mind…
Fuck you,
so you better watch out!
Bulma non vedeva neanche più cosa stava facendo. Sistemava
tutto alla rinfusa, e ad ogni momento i fili e i circuiti erano più disordinati
di prima. Cominciò a tirare forte un cavo che si era impigliato. Qualcosa
cedette, i fili si strapparono dove erano stati saldati, e ora la mano di Bulma
stringeva solo uno stralunato ciuffo di rame e plastica.
-
Guarda cos’hai combinato. E poi sarei io quello
che non ci sa fare! – fece Trunks, avvicinandosi, ma Bulma lo allontanò con un
gesto brusco della mano.
-
Lascia!
FACCIO IO!
Mentre la donna armeggiava con i fili strappati, Trunks ne approfittò per avvicinarsi allo sportello aperto. Non
capiva il nervosismo di sua madre, ma ormai ne aveva
fatto una specie di questione di principio, e non voleva dargliela vinta. Tanto più che, dopo tutta quella confusione, probabilmente c’era
proprio bisogno di qualcuno che risistemasse le cose con più ordine.
Bulma era andata a cercare su un bancone di legno gli utensili di cui aveva
bisogno per riparare il danno fatto, e Trunks ebbe
tutto il tempo di guardare con calma.
Nonostante il modo caotico in cui le componenti
erano state rimesse a posto era più o meno tutto come doveva essere. Tutto,
tranne…
Qualcosa attirò l’attenzione di Trunks, che allungò una mano
dentro lo sportello, verso un circuito nascosto in mezzo agli altri.
Il saldatore, il saldatore. E poi lo stagno. Bulma rovistava con frenesia tra le mille
cose utili e inutili che affollavano il suo banco da lavoro, gettando quello
che non le serviva di lato, o direttamente giù sul pavimento. Aveva fretta di
tornare nell’hangar e di finire il lavoro, richiudere tutto.
-
E’ qui, è qui.
Prese tutto fra le braccia e corse via, verso la macchina
del tempo. Quando arrivò, Trunks stava frugando nello
sportello aperto. Maledizione, gliel’aveva detto di lasciare in pace il suo
lavoro! O avrebbe potuto scoprire…
-
Trunks,
che fai, ti ho detto di smetterla! – gridò da lontano, affrettando ancora di
più il passo.
Il ragazzo tirò fuori qualcosa dal groviglio dei circuiti.
Qualcosa che ora teneva tra indice e pollice.
Bulma sentì il suo cuore fermarsi per un attimo.
-
Guarda
qua, mamma! – disse Trunks, quasi trionfante – E tu che non volevi che mettessi
mano nel tuo lavoro. Guarda un po’ cos’ho trovato!
Lanciò l’oggettino con un gesto rapido. Bulma tese il palmo
della mano e raccolse un minuscolo rettangolo di plastica nera, un po’
ammaccato.
Piccolo sciocco, pensò; Trunks, piccolo
sciocco mio. Io potrei non avere mai più il coraggio di salvarti, e tu ti condanni da solo.
-
E’
il chip TRS. – soffiò con un filo di voce Bulma.
Piccolo sciocco mio.
-
Lo
so! – ribatté il ragazzo – Ed è rotto. Meno male che
me ne sono accorto io! Ora dovremo sostituirlo. Ma ti figuri che guaio, se non
l’avessi scoperto? Chissà dove mi avrebbe fatto finire
quel trabiccolo!
Chissà dove. Bulma strinse il piccolo chip
in un pugno.
-
Già.
Sarebbe stato un bel guaio. – ammise.
-
Mi
meriterei delle scuse, non credi?
-
D’accordo.
Scusa.
Bulma andò a sedersi ai margini dell’hangar, su uno
sgabello. Sentiva le gambe deboli come filo di ferro e
temeva di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Tornò a guardare il
piccolo microcircuito che stringeva in mano e restò
ferma, ipnotizzata, per un tempo indefinito.
-
Grazie.
Si risvegliò dalla trance sentendo
la voce di Trunks. Il ragazzo era ancora accanto alla macchina del tempo e la
stava rimirando girandoci lentamente intorno.
-
Grazie.
– ripeté – L’ho capito solo ora, vedendoti così stanca, e nervosa… deve essere stata una fatica terribile per te, costruire
questa macchina.
-
In
effetti… - ammise Bulma accennando un sorriso.
-
I
calcoli.
-
Ho
dovuto riscrivere buona parte della fisica del continuum
temporale.
-
E poi progettare tutti quei circuiti.
-
Non
farmelo ricordare, ho ancora gli incubi.
-
E correggere gli errori.
-
Per
ognuno che ne eliminavo, ne spuntavano altri due!
-
E costruirla, saldare le lamiere, montare i pezzi!
-
Io
non sono forte come voi Sayan, ho fatto una gran fatica e adesso la schiena mi
fa un male cane.
-
E’ stata un po’ una battaglia, no?
-
Puoi
dirlo forte.
-
E tutto questo…
Trunks tacque un istante. Si era avvicinato alla madre, e
ora teneva le sue fragili mani, smagrite dall’età e logorate
dal lavoro, tra le proprie, forti e segnate da poche, profonde cicatrici.
-
Tutto
questo – concluse – l’hai fatto perché io potessi
incontrare mio padre, e diventare abbastanza forte da battere i cyborg.
-
E per salvare il mondo. – gli ricordò Bulma.
-
Anche per quello.
Scese di nuovo il
silenzio. Bulma alzò lo sguardo sul figlio e lo vide concentrato. La sua mente
era già proiettata verso lo scontro imminente, verso le difficoltà che lo
avrebbero atteso nel passato. Si era appena ripreso da ferite quasi mortali,
eppure non aveva perso nulla della sua determinazione. Era pronto a combattere.
Non si arrendeva. Non si sarebbe mai arreso.
I soliti, stupidi Sayan: si sentono sempre onnipotenti, pensò Bulma, e sorrise.
- Ascolta, Trunks. – disse all’improvviso – La mia battaglia era questa, e io
l’ho vinta. Ora promettimi…
Afferrò con le mani il volto del figlio e lo girò verso di
sé, fissandolo dritto negli occhi.
-
Promettimi!
Che tu vincerai la tua.
Trunks rise.
-
Perché, ne dubiti? Ti ricordo che io sono il Principe dei Sayan, e
devo essere il più forte di tutti, per forza! Alla fine sarò io a spuntarla.
Il Principe. Aveva di nuovo quegli occhi,
quegli occhi che Bulma voleva tanto rivedere, quegli occhi belli e orgogliosi,
occhi da Principe, occhi da Vegeta, occhi da Sayan. Avrò fiducia in te, decise
Bulma, e solo in te. Si vergognò di aver pensato di aiutarlo con uno stupido
giochetto di chip e simili: pensare che avesse bisogno
di simili trucchetti per sopravvivere era offensivo
ed umiliante.
Accanto allo sgabello c’era un secchio di plastica per i
rifiuti. Bulma allungò la mano e lasciò cadere dentro un piccolo frammento
nero, quel che restava del chip TRS. Il rettangolino rimbalzò su un ritaglio di foglio metallico,
tintinnò tra qualche scheggia di vetro e infine si perse in un mare di cartacce
coperte di cifre e scarabocchi, scivolando giù fino al fondo del cestino. Restò
abbandonato lì, in mezzo alla spazzatura, inutile, come tutte le cose rotte.