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Autore: Medea00    10/04/2013    20 recensioni
Era mai possibile svegliarsi di colpo tre anni nel futuro, con la sola eccezione di trovarsi nel presente?
Tratto dal capitolo 4:
Tre anni. Tre anni... equivalevano a millenovantacinque giorni.
Millenovantacinque giorni completamente cancellati dalla memoria. Vista da quella prospettiva, però, sembrava meno spaventoso: non erano dieci milioni, e nemmeno cento mila. Erano soltanto millenovantacinque. Un migliaio di giorni persi. Contando quanto il tempo passasse in fretta, e quanto i giorni si susseguissero senza nessun avvenimento rilevante, alla fine quanto potevo essermi perso? Duecento, trecento avvenimenti importanti?
Genere: Commedia, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Lime, Otherverse | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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C’è un tempo per innamorarsi, c’è un tempo per fare l’amore e c’è un tempo per farla finita.
Timone

 



Non avevo voglia di uscire.
Non avevo voglia di andare alla Nyada, o a comprare il pane, o anche semplicemente di uscire da quel fagotto di coperte che mi ero creato durante la notte. Perchè il mondo non poteva arrestarsi lì? Me ne sarei stato buono buono a dormire per il resto della mia vita e tutto sarebbe andato bene. Sembrava un piano perfetto.
Il lato positivo era che la sera prima, dopo un veloce trattamento al viso, mi ero infilato il pigiama ed ero crollato sul letto senza pensarci due volte: evidentemente ero arrivato a un punto di rottura, per il quale la stanchezza accumulata aveva battuto lo stress. Ad ogni modo, quando Adam bussò delicatamente alla porta, dopo un sonno di undici ore e mezza, lo sentii a malapena.
“Kurt? Sei... sei sveglio?”
La mia unica risposta fu una sottospecie di rantolo, che nel linguaggio degli “appena svegli” significava: sì, sono vivo, lasciami stare, ho il diritto di rimanere in silenzio fino a quando non avrò tra le mani una tazza fumante di caffè.
Ma chiaramente Adam lo interpretò nel peggiore dei modi.
“Posso entrare? Sono già le dieci e mezza...”
Errore; avrebbe dovuto dire: sono soltanto le dieci e mezza.
Senza nemmeno aspettare una mia risposta, o meglio, un altro mio grugnito, aprì lentamente la porta e si avvicinò alle coperte, sedendosi alle mie spalle, con la mano che accarezzò delicatamente una spalla come per svegliarmi.
Non avevo voglia di parlare con Adam; in realtà non avevo voglia di parlare con nessuno, e per un momento considerai l’idea di coprirmi ancora di più con il piumone e fingere di russare. Passò diverso tempo, durante il quale sentivo gli occhi di Adam puntati su di me, probabilmente aspettando una mia mossa, o un invito a parlare, o chissà cos’altro: non ricordavo come mi comportavo in quei casi, perchè sicuramente una scena del genere era successa altre volte.
Ma poi mi sorse un dubbio, che a rigor di logica mi sarebbe dovuto nascere sin dal primo momento in cui Adam aveva varcato la soglia di camera mia: perchè si trovava qui?
“Ho fatto una cosa per te.” Lo sentii mormorare un po’ insicuro, e allora mi voltai; i miei occhi chiari si adattarono malamente alla luce della stanza, il mio corpo si stiracchiò un po’ goffamente, una manica del pigiama era arrotolata intorno al gomito, mentre l’altra penzolava oltre le mie dita.
Adam mi sorrise soltanto, non commentando le mie condizioni assolutamente indecenti; in silenzio, sollevò un libro enorme da terra e lo appoggiò sulle coperte, vicino a me.
“Che... che cos’è?” Borbottai con la voce ancora impastata, il mio cervello che cercava con molta difficoltà di carburare senza caffè; adesso la mia mente doveva assomigliare a un motore a scoppio.

“E’ un manuale.”
Sollevò la copertina, e avvicinandomi un poco riuscii a leggere un titolo scritto a penna: Manuale sulla vita pratica di Kurt Hummel.
“Ci ho messo tutto quello che devi sapere.” Continuò Adam, “Dagli indirizzi più importanti al numero del tuo cinese a domicilio preferito. Non dovrei aver lasciato niente, ma... beh, controlla tu.”
C’era davvero tutto. C’erano le informazioni base su di me, statura, taglia di pantaloni, quella delle scarpe... c’era il nome della mia redattrice di Vogue, quello dei miei collaboratori, un fascicolo contenente il copione del musical nuovo di zecca – dal momento che il mio era ancora scomparso -.
Non riuscivo a credere che Adam avesse fatto tutto quello per me. Doveva essere stato un lavoro lunghissimo e articolato; stavo quasi per ringraziarlo, chiedergli scusa per come mi ero comportato e dirgli che, forse, volevo davvero far funzionare quel matrimonio.
Ma poi notai che alla fine del libro, c’era tutta una sezione evidenziata da un’etichetta rossa.
“... Istruzioni... sul sesso?”
“Pensavo volessi saperlo.”
No. Veramente no. Non volevo leggerle; non volevo. Ma purtroppo gli occhi sono più veloci del cervello e captarono una cosa che-
“Ha-hai scritto le posizioni che abbiamo fatto?”
“E quelle che vogliamo provare.” Il suo tono sicuro si contrapponeva perfettamente al mio sussurro spaventato.
“E... e la nostra marca di... di...”
“Preservativi, Kurt.”
Bene. Avevo letto abbastanza.
“Ti ringrazio per il libro”, sentenziai chiudandolo con uno scatto un po’ brusco e guadagnandomi uno sguardo sorpreso da parte sua. “Lo leggerò più tardi.” Forse. “Esattamente... quali sono i tuoi piani per oggi?”
“Devo uscire per fare delle commissioni”, commentò dopo un secondo, “Temo che sarò fuori fino a sera.”
Oh no Kurt, cerca di contenere quel sorriso.
“E tu invece? Che hai intenzione di fare?”
La mia voglia di uscire era ancora pari a  zero, quindi gli dissi semplicemente che ero molto provato dalla giornata precedente e sarei stato a casa: volevo riposare un po’, fare ricerche sul web per scoprire cosa fosse successo nel mondo in quei tre anni...
“Leggerai anche il manuale?” Mi chiese con tono speranzoso.
“Certo. Sarà in cima alla lista di cose da fare.”
Subito sotto a “spararmi”.
La colazione passò piuttosto in silenzio, con il notiziario delle undici che parlò di politica, cronaca nera e un cane che aveva fatto bunjee jumping. Provai un moto di sollievo indescrivibile nel vedere il volto di Obama, ancora presidente degli Stati Uniti; in effetti in tre anni non poteva essere cambiato, ma avevo imparato a non dare niente per scontato.
Adam mi salutò con un abbraccio e una promessa di telefonarmi presto.
E così rimasi io. Con il mio pigiama sgualcito, i capelli arruffati e un libro da affrontare.
 
 
La prima metà riuscì a risolvere molti dei quesiti che mi ero posto, e perfino alcuni a cui non avevo pensato: chi l’avrebbe mai detto che, in tre anni, sarebbe nato un nuovo social network come fusione tra Facebook e Twitter.
Passando a cose più serie, capire finalmente quale fosse il mio ruolo a Vogue fu una sorta di benedizione: lavoravo part-time. La direttrice, Isabelle Wright, mi aveva assunto da quasi un anno, partendo come segretario, poi tuttofare, e alla fine come collaboratore alla nuova collezione primavera-estate con alcune mie creazioni. Avrei dovuto farle visita e spiegarle tutto partendo dal principio, prima o poi; optai per il poi.
Adam aveva aggiunto anche una piccola postilla, segnata con un giallo evidenziatore: lavori con Emily!
Oh, giusto. La maniaca del giorno prima.
Continuai a sfogliare quel libro gigante, sorseggiando un po’ di tè e rielaborando le nozioni un poco alla volta. Era un po’ come ripassare per un test: le nozioni base c’erano tutte, quello ero sempre io; però, in tre anni, c’erano stati delle aggiunte. Tra cui tre carte di credito in più: mica male.
Lessi attentamente tutto il copione del musical, come se fosse un primo approccio accademico: evidenziai le mie battute, segnai a matita le posizioni che venivano suggerite dal testo, canticchiai perfino qualche canzone, anche se era molto difficile dar loro un senso, dal momento che non avevo idea di quale fosse la melodia. Adam non mi aveva dato gli spartiti; stavo per mandargli un messaggio, magari me li avrebbe inviati via mail, ma poi le mie mani si bloccarono sul dinosauro che osavo ancora chiamare Ipod.
Wes aveva detto che le musiche le aveva fatte Blaine.
Decisi di lasciar perdere il musical, dopotutto avevo ancora metà manuale.
Adesso che gran parte del mondo aveva cominciato a girare con un senso logico, mi sentii un po’ più tranquillo. C’erano ancora delle grosse lacune, come ad esempio l’enigma su tutte le mie cose scomparse, oppure Mercedes che non aveva risposto a nessuno dei miei messaggi; a proposito, dal momento che avevo tutto il pomeriggio libero mi sembrò l’occasione migliore per provare di nuovo a contattarla.
Composi quel numero che ormai sapevo a memoria e attesi pazientemente di sentire la sua voce dall’altra parte del telefono, magari che si scusava per non avermi richiamato, o che mi chiedeva come stessi, se mi facesse male il braccio.
All’orecchio mi giunse un saluto freddo, impersonale.
“Sì?”
Per un momento dubitai perfino se si trattasse della voce di Mercedes.
“ ‘Cedes, sono io, Kurt!”
“... Kurt.” Pronunciò il mio nome come se non fosse del tutto abituata a farlo. Come se non ci sentissimo ogni sera, raccontandoci la giornata e gli aneddoti più stupidi.
“Che fine avevi fatto? Sono due giorni che ti cerco!”
Ci fu una lunga pausa. Nel frattempo, il tè rimase abbandonato sul tavolino di fronte a me, destinato a raffreddarsi lentamente.
“Sì, ho visto i tuoi messaggi. Hai bisogno di qualcosa?”
“Ho bisogno di bere”, ammisi, “E di parlare con la mia migliore amica. Dio Mercedes, mi sembra tutto così complicato...”
“Non dovresti avere le prove, Kurt? Quelle del vostro musical?”
Restai un po’ interdetto dal modo con cui lo chiese; mi fece rabbrividire, facendomi sedere composto sul divano in pelle, le mani che si stringevano sul tessuto del pigiama e lo sguardo fermo, puntato verso il vuoto.
“Non ci sono andato. Non mi sento molto bene.”
“Ah. È per questo che mi hai chiamato?”
“Sì. Cioè, anche”, mi corressi, intimidito dal suo cinismo: “È solo che ho avuto un incidente. Fisicamente sto bene, ma sono successe delle cose... farei meglio a spiegarti tutto a voce. Sei libera oggi?“
Sapevo bene quanto quella notizia potesse confondere, soprattutto se detta così a bruciapelo, così attesi tutto il tempo necessario affinchè Mercedes elaborasse quanto sentito e, da brava amica, corresse in mio soccorso. Mi conosceva: sapeva che non avrei mai potuto scherzare, non su un argomento del genere.
Sarebbe corsa da me in un attimo; ci saremmo fatti una bella cioccolata calda –magari con un goccio di rum- ci saremmo seduti l’uno di fronte all’altra, e io avrei potuto finalmente sfogare tutte quelle lacrime che stavo ancora trattenendo.
“Mi dispiace Kurt, oggi non posso. Devo andare, ci sentiamo.”
Prima ancora che potessi aprire bocca per protestare, fermarla o semplicemente rimanere sbigottito, lei aveva già riattaccato.
Perfetto. Un altro mistero da risolvere. 
Cominciavo davvero a essere stufo. Perchè non c’era una cosa, una singola cosa, che andasse come volessi io; la casa era strana e non mi ci raccapezzavo. Inoltre, grazie alla domestica – Dio, avevo una domestica – non potevo nemmeno distrarmi pulendo un po’ in giro, visto che era tutto in perfetto stato, e avevo ancora un lungo pomeriggio davanti a me.
E se non potevo passarlo con Mercedes, allora lo avrei passato con mio padre.
 
 
Non appena intravidi quegli occhi così simili ai miei e quel cappellino, mi buttai tra le sue braccia senza nemmeno dare retta a quella vocina nella mia testa che mi ripeteva quanto fossi ridicolo.
Era mio padre. Era mio padre e, grazie al cielo, su di lui potevo sempre fare affidamento.
Quando sciolsi l’abbraccio, papà mi diede due forti pacche sulla spalla, portando automaticamente lo sguardo verso il braccio medicato.
“Perchè sei in pigiama?”
“... Non sono riuscito a cambiarmi.” In realtà non ci avevo nemmeno provato.
“Per il braccio, vero? Una gran seccatura. Come te lo senti?”
“Non fa così male. Prude giusto un po’”, commentai sollevando quella sottospecie di pongo colorato, e guadagnandomi una risata da parte di mio padre. Ebbe effetti immediati sul mio umore.
Carole mi salutò con un bacio sulla guancia, scompigliandomi un po’ i capelli e asciugandosi i lacrimoni. “Quanto vorrei che Finn fosse qui.”
Io in realtà non avevo così tanta voglia dell’ennesima complicazione da aggiungere alla lista della mia incasinata vita, ma non risposi, cercando di mascherarmi con un sorriso.
Carole mi scrutò dall’alto verso il basso, e poi mi passò una mano sulla fronte: “Sei così pallido, tesoro.”
Beh, se proprio dovevo essere sincero, nemmeno loro sembravano in ottima forma: adesso che potevo osservarli con più calma, notai che papà aveva delle profonde occhiaie, il viso più scavato, il fisico più magro. Carole, invece, aveva la ricrescita della tinta, e non era da lei, visto che detestava con tutta se stessa i capelli bianchi; in quell’ultimo periodo non aveva avuto tempo per andare dal parrucchiere?
“Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato qualcosa di decente?”
Cibo? Con tutte le notizie shock che ricevevo due, trecento volte al giorno? No, il mio stomaco era sigillato e io non avevo nessuna intenzione di mangiare.
“Mangerò stasera, faremo una cena qui.”
“La cena della compagnia, quella che fate ogni settimana?”
“Proprio così.” Bene. A quanto pare ne erano tutti al corrente, tranne me.
“Sicuro che non sia uno stress troppo grande?” Domandò papà a mezza voce, mentre li accompagnavo in cucina per offrir loro qualcosa da bere. Risposi semplicemente che secondo Adam mi avrebbe fatto bene, magari aiutandomi a ricordare.
In casa non c’era granchè, quindi offrii loro il tè avanzato dentro al bollitore e una piccola scatola di salatini. Ecco, se proprio avessi dovuto mangiare, avrei gradito con tutto il cuore una bella fetta di Cheesecake. Magari due.
E se la cena di quella sera si fosse rivelata un fiasco, forse anche una intera.
“Come ti trovi con Adam?”
Papà fece quella domanda accarezzando il manico della tazza in porcellana, senza guardarmi negli occhi.
“Bene. E’ molto gentile. Mi ha fatto un manuale con tutte le cose più importanti da ricordare.”
Cosa avrei dovuto dirgli? La verità? Che mi sentivo come se vivessi con un coinquilino che mi sembrava anche piuttosto bizzarro?
 “Oh. Che cosa carina da parte sua.” Carole e papà fecero lo stesso identico sorriso, lo stesso di quando avevo diciassette anni e avevo detto loro che il concerto di Lady Gaga era un evento totalmente sicuro, in cui c’erano solo persone per bene: sapevamo tutti che era una bugia, ma sapevamo anche che, se volevo farla franca, potevo soltanto mentire.
“Che tipo di manuale?” Chiese allora papà, aggrottando le sopracciglia: “Posso vederlo?”
E rischiare di leggere le posizioni con cui avevo – o non avevo – fatto sesso?
“Uhm, non posso. È una cosa tra me e Adam, sai... è un segreto coniugale, tipo... tipo un segreto professionale.”
Nemmeno fossi un prete.
“Capisco. A questo proposito, ti abbiamo portato il video del matrimonio. Pensavamo volessi vederlo.”
“... Oh.”
Non ci avevo pensato.
“Sempre se ti senti pronto”, aggiunse Carole. “Vedresti una parte di te che hai dimenticato... potrebbe essere difficile.”
Alla vista di quel cd bianco, con una raffinata etichetta color avorio, che se ne stava immobile stretto tra le dita di papà, una parte di me lottò per strapparglielo dalle mani e gettarlo brutalmente nel tritarifiuti.
L’altra parte, però, voleva sapere.
“Ho il lettore dvd in sala.”
 
 
Quando comparve l’immagine di un me più sereno, più rilassato e, soprattutto, più elegante, il mio cuore cominciò a perdere dei seri colpi, e mi mancò il respiro.
Fu come assistere a un film già visto, di cui sapevo battute, scenografie e protagonisti. Fu come se la realtà dei fatti si presentò di fronte ai miei occhi, con tanta freddezza da investirmi. Carole era esattamente come la vedevo adesso, fatta eccezione per un vestito elegante e delle bellissime perle che la rendevano ancora più affascinante; Papà, invece, aveva gli occhi lucidi, forse combattendo contro l’impulso di piangere. Era la prima volta che indossava una cravatta e sembrava non avesse voglia di strangolarsi.
C’erano proprio tutti: parenti, amici, perfino i ragazzi del Glee Club, probabilmente venuti apposta per festeggiarmi. Finn faceva capolino di tanto in tanto da dietro la telecamera, e guardai ammutolito i suoi lineamenti più marcati, la sua barba incolta, le sue spalle più toniche.
Inoltre continuavamo a battibeccare, proprio come due veri fratelli, ed era bello. Mi sentii bene.
Il video continuò imperterrito, mostrando immagini di New York, degli invitati, perfino la preparazione della sala con il fotografo che provava le luci.
“Mi sono sposato in comune?” Fu l’unica domanda che mi sentii in grado di fare.
“Non hai avuto molto tempo per organizzarti in chiesa”, commentò papà, e io arricciai le labbra in una smorfia, appoggiando il mento a una mano: avevo sempre voluto sposarmi in chiesa. C’era una piccola zona in un quartiere che avevo sempre amato, conosciuto durante i primi mesi di soggiorno a New York. Avevo preparato tutti i dettagli - fiori, gli invitati, la musica e gli addobbi- che tenevo in fascicoli catalogati per nome e data di creazione.
Invece, mi ero sposato in comune. Con nessun dettaglio arrangiato da me; quello non sembrava affatto il mio matrimonio. Mi chiesi quante altre cose del mio carattere fossero cambiate, ma poi, decisi di non volere la risposta. Nel frattempo la telecamera si era spostata verso di me. E vedere un me stesso di cui non ricordavo assolutamente nulla fu la sensazione più strana della mia vita.
C’era anche Adam, ovviamente: si avvicinò con un sorriso che non avevo ancora mai visto, e io lo abbracciai. Sembravamo felici.
Ma quello non sembravo io.
Ci fu il ricevimento, un grande ristorante dall’aspetto elegante; quando papà comparve di nuovo nel mirino della telecamera, con un microfono in mano, Carole, emise un sospiro e afferrò il telecomando appoggiato sul bracciolo, mandando immediatamente avanti.
“Ma io volevo veder-“
“Oh, questa parte è noiosa. Non ti perdi niente. Guarda, questi siete tu e Adam dopo il taglio della torta.”
Eravamo usciti da quel salone moderno e formale con due sorrisi semplici e gli applausi di tutti i presenti.
Bene. Allora ero davvero sposato.
 
 
Quando mi salutarono, alla porta di casa, l’abbraccio fu leggermente più lungo del solito; lipperlì non capii bene il motivo. Fu solo quando mi dissero che sarebbero ripartiti il giorno dopo che gli occhi cominciarono a bruciarmi e le mie labbra si strinsero in una smorfia.
Avrei preferito saperlo prima. Non che sarebbe cambiato granchè, però... mi sarei preparato psicologicamente. Volevo che non andassero mai via. Mi dissero che mi sarebbero stati vicino in ogni caso; sapevo che fosse vero, ma voleva dire che adesso avrei dovuto affrontare da solo la cena.
 
 
Il campanello suonò alle otto in punto, mentre io, aggiustando il farfallino trovato frugando nella cassettiera, guardavo un po’ sospreso il mio riflesso allo specchio: non sapevo dire se fossi bello io o se quella giacca mi donasse particolarmente. Ad ogni modo, non mi sarei mai abituato alla mia immagine.
Andai ad aprire credendo che si trattasse di Adam, che avrebbe dovuto aiutarmi a finire di preparare la tavola; avevo trovato piatti, posate, tovaglioli e bicchieri, ma per quanto riguardava il cibo? Nel frigo non c’era niente in grado di sfamare così tante persone, per questo pensai che Adam fosse andato a fare la spesa, o a comprare qualcosa in rosticceria.
E in effetti il cibo c’era, ma non quello di Adam: erano Wes e Emily.
“Buonasera! Non siamo in ritardo, vero?”
“In realtà siete i primi”, mormorai osservando quella montagna di contenitori trasparenti, attraverso i quali intravedevo una torta, dei muffin, una pannacotta e dei biscotti al cioccolato.
“Visto Wes? Siamo i primi. Adesso la smetti di rompere?”
Wes la fulminò con lo sguardo, e io deglutii: non prometteva niente di buono.
“Il fatto che il resto del mondo sia in ritardo, come al solito, non vuol dire che dobbiamo esserlo noi. E la prossima volta ricordati prima di infornare i biscotti, o di truccarti, o di stirare, o di ragionare con la testa.”
“Fai sul serio, Wesley?” Lo punzecchiò la ragazza, “Perchè se proprio vogliamo giocare queste carte, chi è che ti ha cucito quella camicia che stai indossando?”
“Sì, brava, sai cucire. Vuoi un applauso?”
“Ragazzi, non mi sembra il caso di...”
Mi rivolsero un’occhiata acida che mi fece ammutolire all’istante. Non volevano far pace, bene.
“Vado... a controllare la tavola.”
Che poi non sapevo nemmeno cosa dovessi controllare, ma l’importante era svignarsela da lì.
“Kurt, aspetta, ti do una mano!” Esclamò Emily con un sorriso che era tutta un’altra cosa rispetto al broncio di un secondo prima. Bene, quella ragazza era strana. Ma dopotutto, c’era qualcuno di normale in quella combriccola?
A mie spese, avrei capito presto che la risposta era un puro e semplice no.
 
 
“Kurt! Stai benissimo!”
“Concordo con la mia ragazza. Potrei diventare gay per un ragazzo come te.”
“Ciao Rachel. Ciao Megafusto.”
“Come?”
“Brody. Ho detto ciao Brody.”
“Ah, no perchè mi sembrava che avessi detto-“
“Kurt, ti ho portato gli antipasti! Dove li metto, sempre nella tavola della sala? Mi fai strada?”
Quella fu la prima di una lunga serie di volte in cui amai profondamente Rachel Berry.
 
 
 
“Il tartufo al mais è pronto per essere infiocchettato.”
Nick, Jeff, Thad e David dissero questa frase in coro sbucando da dietro i cartoni della pizza. E io li guardai, tentai di capirli, ci provai davvero. Ma proprio no.
“Il... cosa?”
“Kurt, il tartufo al mais.”
“Idiota, Kurt non se lo ricorda!” Sbottò David dandogli un pugno sulla spalla. Quando Nick rispose che era un coglione e iniziarono a picchiarsi lì, sulla soglia di casa,Thad mi appioppiò tutti i cartoni della pizza in una pila sola e Jeff cominciò a piangere.
Così. A caso.
“Ragazzi, perchè non entrate e- oh, oh no!”
La pila di pizze che mi impedivano di vedere il resto del mondo cominciarono a inclinarsi pericolosamente.
“Ehm... ragazzi? Una mano?”
“Ha ragione Kurt, Jeff picchialo con l’altra mano, questa ti serve per sunoare!”
“Ma io non sto picchiando nessuno!”
“Ragazzi...”
“Dovresti farlo Jeff, il Fight Club non ti ha insegnato nulla? Dio, stai proprio passando al lato buono della Forza.”
“Ragazzi?”
“Ti ho sempre detto che non sono uno Jedi, Nick. Sono un signore del Tempo.”
E no. non ce la feci più.
“Basta! Parlate cristiano, che cavolo! Prima l’accendi-energie-a-pressione, ora questa metafora delle giunchiglie che volano in aria-“
“Giunchiglie? Kurt... ma che stai dicendo?”
Certo. Ora ero io quello che parlava strano. Sebbene ci fossero una ventina di pizze davanti alla mia faccia, fui quasi sicuro il mio sguardo carico d’odio li avesse colpiti in pieno.
“Aiutatemi. Con. Le. Pizze.”
Un secondo dopo sentii qualcuno fare un passo avanti; lentamente, le scatole della pizza cominciarono a scalare una dopo l’altra, mentre la mia visuale ricominciava ad adattarsi al mondo esterno e le mie braccia non rischiavano più di cedere per la troppa pressione.
Mormorai un timido “Grazie”, tirando perfino un sospiro di sollievo. Ma quale dei quattro ragazzi aveva avuto il buon senso di correre in mio soccorso?
L’ultima pizza che mi ostacolava la vista fu rimossa, e-
“Blaine.”
Era proprio lì, tutto intero, con la sua felpa aderente, gli occhi chiari, le labbra carnose leggermente socchiuse.
Rischiai seriamente di far cadere a terra le ultime pizze che tenevo in mano.
“Buonasera Kurt.”
“Come... da quanto tempo è che sei arrivato?”
Lui abbozzò un sorriso, uno di quelli che si incurvano all’angolo della bocca: “Abbastanza per capire che David non sa tirare un gancio.”
“Ehi!”
I ragazzi ripresero a battibeccare, ma stavolta entrarono in casa portandosi dietro le pizze che aveva dato loro Blaine. E sotto a quel vociare fatto da insulti, frecciatine e risate sarcastiche, io rimanevo imbambolato a fissare Blaine, quel ragazzo che era comparso sulle scale il giorno prima, e alla mia macchina quella stessa sera.
“Quindi... come sta il braccio?”
Risposta rapida e efficace Kurt. Rapido e efficace.
“Bene.”
Blaine spostò il peso da un piede all’altro, guardandomi per un attimo di sottecchi: “Questa volta non mi saluti?”
Inutile dire che le mie guance assunsero ogni possibile sfumatura di colore. Ma il sorriso di Blaine si fece un po’ più sincero e, oh, che diavolo, c’era così tanta tensione nell’aria che avrei potuto tagliarla con un coltello da burro.
“Fa freddino fuori, eh? Gli altri sono tutti dentro, Adam dovrebbe arrivare e-“
“Kurt.”
Il modo con cui mi interruppe fu affrettato, impaziente; si portò una mano trai capelli pieni di gel, voltandosi a osservare chissà cosa in mezzo alla strada. Sembrava sul punto di dirmi qualcosa. Come se non riuscisse a trovare le parole; come se non riuscisse ad aspettare nemmeno il tempo di entrare, per dirmelo.
“Kurt, io devo assolutamente dirti che-“
“Eccomi, scusate per il ritardo!”
“... Adam.”
Lo vidi raggiungere la porta a passo di marcia, con la cravatta ancora sbottonata per la fretta, le chiavi della macchina in una mano e una busta di carta nell’altra. Nel frattempo, l’espressione sul viso di Blaine era cambiata completamente.
“Ciao, amico. Che fine avevi fatto?”
“Oh, mi hanno trattenuto più del necessario, ma sono riuscito a fare un salto in enoteca per prendere una bottiglia di vino. Ciao Kurt. Passato una buona giornata?”
Ricambiai il saluto con un sorriso, stringendomi nelle spalle.
“Tutto regolare.”
“Bene allora, entriamo e diamoci dentro!”
Blaine sembrò leggermente interdetto da quelle parole, a giudicare da come lo fissò mentre entrava in casa e mi prendeva dalle mani le ultime pizze, facendomi cenno di entrare perchè faceva freddo.
Eravamo di nuovo soltanto io e Blaine, ma capii anche da solo che fosse sfumata l’occasione. Per fare cosa, poi, non lo capivo ancora.
“Dovevi dirmi qualcosa, Blaine?”
Lo vidi scrollare leggermente la testa, per poi posare una mano sulla spalla e seguire Adam dentro al salotto.
“Non importa. Meglio lasciar stare.”
Sì che importava, invece. Perchè io non ci stavo capendo assolutamente più niente.
 
 
La cena era un gran trambusto dove nessuno badava esattamente alla mia presenza e, chiaramente, non ci fu nessun “elemento chiave” che mi fece tornare istantaneamente la memoria.
Rachel era troppo presa a flirtare con Megaf-Brody; i Warbler litigavano e scherzavano un secondo dietro l’altro, guadagnandosi tutti i commenti cinici di Wes e i rimproveri di Emily che diceva a Wes di non essere così cinico.
Adam parlava con tutti, da vero e proprio padrone di casa. Offriva il vino quando il bicchiere ne era privo e cercava di contenere gli insulti che volavano da una tavola all’altra, tutto perchè Nick e Jeff odiavano quando gli altri facevano notare loro quanto fossero una coppia di sposini.
Pensai a quanto Mercedes si sarebbe divertita: adorava quel tipo di serate. Pensai anche a quanto mi mancasse.
E poi, quasi inconsciamente, spostai lo sguardo dal bicchiere di vino a Blaine: in una serata non aveva detto nemmeno una parola.
“Emi, che dolci hai portato questa settimana?” David si sporse verso la ragazza facendo gli occhi languidi mentre ancora ingoiava l’ultimo boccone di pizza.
“Oh, un po’ di tutto, lo sapete che sono sempre molto indecisa.”
“David. Mantieni le distanze dalla mia ragazza.” Wes lo indicò con un coltello e quello mi parve come il momento più appropriato per agire.
“Vado a prendere i dessert!”
 “Ti aiuto.”
Senza nemmeno darmi il tempo di metabolizzare, Blaine si era alzato lasciando il fazzoletto sulla tavola, seguendomi silenzioso fino alla cucina e facendo aumentare terribilmente il battito del mio cuore.
 
 
Non ero mai stato così in ansia in vita mia. Nemmeno quando avevo sfidato Rachel su Defying Gravity; nemmeno quando avevo provato la mia prima lacca ecologica.
Blaine continuava a tagliare fette di torta accompagnandole con i biscotti e io non riuscivo a pensare ad altro che non fosse la scena della porta. Immaginai che volesse riprendere il discorso da dove era stato interrotto. Immaginai che avesse qualcosa di molto importante da dirmi, visto che era piombato in casa mia perfino la sera prima.
Ma allora perchè diavolo non diceva niente? Era il silenzio che mi faceva impazzire: quell’atmosfera riempita soltanto del suono di coltelli che sfregavano sui piatti. E dal momento che, evidentemente, non aveva nessuna intenzione di parlare, lo feci io. Iniziai a dire tutto ciò che mi passava per la testa.
“Questa sembra molto buona.”
“Lo sai che una volta ho fatto bruciare i biscotti?”
“Questi sembrano buoni. Davvero buoni.”
“Potrei tagliarla in orizzontale, invece che in verticale. Forse sarebbe meglio. Cosa ne pensi?”
“Va bene, ne mangio solo uno.”
“Blaine, mi passeresti quei tovaglioli che sono alla tua sinistra?”
“Okay, un altro.”
“E’ carina questa cosa di portare un po’ di cibo a testa. Risparmia un sacco di fatiche all’ospite, non credi?”
“Questo è l’ultimo, promesso. Dio, sono in grado di riacquistare in una sera tutti i chili che ho perso in tre anni. E il bello è che non ricordo nemmeno di averli pers-“
E poi si voltò, di scatto, appoggiando le mani sul ripiano di marmo della cucina.
“Non ce la faccio più.”
Che intendeva dire?
“Kurt, io ti amo.”
Come?
“E anche tu ami me, in realtà.”
Cosa?
“Avevi intenzione di lasciare Adam. Per sposarmi.”
Benissimo.
Buio, inchini e sipario. Qualche fiore sui tagli e le luci puntate sul protagonista. Perchè si trattava di quello, no? Era una scena di teatro, vero? Blaine stava recitando un qualche copione.
O magari era una cosa in codice, qualche scherzo che facevamo sempre e che io, in quel momento, non ricordavo affatto.
Ma il suo sguardo era troppo intenso. La sua voce troppo imbarazzata e, allo stesso tempo, impellente, come se avesse bisogno che io ricordassi. Ma non potevo ricordarlo: per me Blaine era uno sconosciuto. Così come Adam, Rachel e chiunque altro.
E io non ero un traditore. Sapevo davvero pochissime cose della mia vita in quel momento, ma su quella ci avrei messo una mano sul fuoco.
“Forse ti potrà sembrare un bello scherzo”, replicai, “Prendiamo tutti in giro il povero smemorato Kurt Hummel. Divertente.”
“Kurt, ti prego, devi credermi, sto dicendo la verità.”
“No.”
Non ho mai tradito nessuno. Quando avevo diciotto anni e pagai in contanti una borsa di Prada sapevo benissimo che fosse finta, ma la comprai lo stesso. Poi però tornai indietro e chiesi i soldi al piccolo nigeriano abusivo; sono fatto così. Non riesco a sopportare le menzogne. Figuriamoci l’infedeltà.
Blaine si passò una mano trai capelli, emettendo un lungo sospiro. Sembrava davvero seccato per la mia reazione. Ma cosa si aspettava? Pensava che alla sua rivelazione mi sarei sciolto come un ghiacciolo? Pensava che il mio cuore avrebbe cominciato a battere come nei film, dove tutto mi sarebbe tornato alla mente, ci saremmo abbracciati e dichiarati amore eterno?
Il mio cuore stava benissimo. Non soffrivo nemmeno di pressione alta. Il respiro regolare, la pelle attraversata da nessun brivido di genere e sorta.
Ma era ovvio, perchè quello che aveva detto Blaine non poteva essere vero. Io non avrei mai tradito nessuno, figuriamoci un uomo che, per qualche ragione che in quel momento mi sfuggiva, avevo deciso di sposare. E magari non mi ricordavo assolutamente nulla di Adam, ma da quanto avevo potuto apprendere in quei pochi giorni, era gentile. Premuroso. In quei pochi giorni, mi ero sentito felice e protetto.
“Senti, non so cosa ci siamo detti prima che io... prima dell’incidente”, esitai, “Ma secondo me c’è stato un enorme fraintendimento.”
Mi guardò come se avessi appena detto di essere una donna. Così, un po’ seccato, fui ancora più chiaro: “Io non posso amarti.”
“Non puoi?”
“Certo che no. Innanzi tutto sei più basso di me, e io non starei mai con uno più basso.”
Mi guardò incredulo per un attimo e, subito dopo, si abbandonò a una risata che avrei giudicato quasi... piacevole. Se solo non fossi stato troppo arrabbiato a causa del suo atteggiamento presuntuoso e delle sue vergognose affermazioni; ma visto che non accennava a smettere, incrociai le braccia al petto, e gli chiesi cosa ci fosse di così tanto divertente.
“L’hai detto anche la prima volta.”
“Che cosa?”, sentenziai, cinico, esasperato.
“Eri in crisi perchè ti eri innamorato di uno più basso. Dicevi che non ti innamori mai dei ragazzi bassi, perchè non puoi rubargli i vestiti.”
‘Ok, potrei averlo detto’, pensai. Insomma, sembrava una frase proprio da me. Ma non significava niente.
“E con questo?”
Tutta l’euforia di quel minuscolo momento, a quelle parole, svanì di colpo. Ecco, adesso era tornato il Blaine serio, quello che sembrava pugnalarmi ogni qual volta che il suo sguardo incrociava il mio. Quello che sembrava pretendere da me qualcosa che non potevo, o non dovevo, assolutamente dargli.
“Blaine, io sono sposato.”
“Con un uomo che non ti rende felice”, ribattè lui, quasi sovrastando la mia voce canzonatoria. E io ero furioso: non riuscivo a crederci.
“Ma chi ti credi di essere?”
Il suo corpo trasalì come se gli avessi appena dato la scossa; le sue spalle si irrigidirono, così come i suoi lineamenti, e le labbra serrate in una smorfia.
“Tu vieni qui, in casa mia e di mio marito, cominci a straparlare di tradimenti e altre assurdità e adesso vuoi pure venire a dirmi com’è il mio matrimonio?!” La mia voce si alzava sempre di più mentre avanzavo, puntandogli un dito sul petto e premendo sempre più forte dalla rabbia.
“Tu non sai niente. Niente. E, soprattutto, tu non sai chi sono io.”
“Sì che lo so,” bisbigliò trai denti, “Ti conosco meglio di chiunque altro.”
E forse poteva anche avere ragione, almeno su quel piccolo punto.
“Ma io non conosco te. Sei un estraneo.”
Se Blaine fosse stato un mio amico, mi si sarebbe stretto il cuore nel notare l’espressione che assunse dopo quel commento: vedere i suoi occhi tremare come foglie, la sua bocca aprirsi come incredula, tutte le sue certezze cadere, come un fragile castello di carte.
Ma per adesso, tutto ciò che vedevo era un ragazzo di cui sapevo soltanto il nome, che mi aveva dato del traditore, che pretendeva di sapere come gestire la mia vita; e no, non provai nemmeno il minimo risentimento quando lo vidi uscire a grandi falcate dalla cucina, senza nemmeno preoccuparsi di chiudere la porta con delicatezza.
 
 
 
 
 
 
 
 ***

Angolo di Fra


Jackpot.
   
 
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