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Autore: TwistedRocketPower    11/04/2013    9 recensioni
Non sai mai quali articoli potresti trovare sul giornale.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Non sono riuscita a tenerlo per me, così l’ho pubblicato. Spero che vi piaccia :)
 
 



 
 
Non doveva durare così tanto.
 
Era così semplice.
 
Solo una piccolo storia con un ragazzo che mi aveva cambiato la vita.
 
L’ho conosciuto al liceo, in un momento molto triste per me.
 
In poco tempo è diventato il mio migliore amico e confidente.
 
Alzai lo sguardo verso di lui.
 
Lo amavo.
 
Sembrava stupido, amare qualcuno che hai appena conosciuto, ma era vero.
 
Le cose andavano male nella mia scuola, così mi trasferii nella sua.
 
Avevo nuovi amici, un nuovo guardaroba, più tempo con lui e un uccellino.
 
Sì, un uccellino.
 
Abbiamo cantato insieme (non io e l’uccellino, io e lui… anche se forse ho fatto cantare l’uccellino una volta di troppo).
 
Abbiamo riso.
 
Discusso.
 
Rimasi fermo a guardare mentre aveva una cotta per un altro ragazzo.
 
Poi lo guardai – ma non sono rimasto fermo – mentre aveva una cotta per una ragazza, ma probabilmente indotta dall’alcool.
 
Sono abbastanza sicuro che mio padre mi abbia fatto ‘il discorso’ per causa sua. Lui nega, ma io non gli credo.
 
Poi l’uccellino è morto.
 
E io ho cantato per lui.
 
Perché era una cosa che ogni ragazzo avrebbe fatto… giusto?
 
In qualche modo questo gli fece tirare la testa fuori dal guscio e vedere la luce. Si rese conto che gli piacevo. E che mi piaceva. Non come una scrollata di spalle e ‘è un mio amico’, ma come ‘voglio essere il meglio per te’.
 
Si, non è il modo migliore per spiegarlo.
 
Mi confessò i suoi sentimenti mentre stavo facendo una piccola bara per il mio uccellino, e mi baciò.
 
Il. Miglior. Bacio. Di. Sempre.
 
A quei tempi, almeno.
 
La nostra storia d’amore in erba era piena di rossori, cuori che palpitavano, mani sudate, sguardi timidi, improvvisi saltelli e strilli, baci casti e passeggiate più lunghe del necessario.
 
Poi tornai alla mia vecchia scuola e mentre apprezzavo di avere nuovamente libertà sul mio guardaroba, lui mi mancava tantissimo.
 
Ci scambiavamo sms mentre eravamo in classe, trascorrevamo tutto il tempo possibile insieme durante il fine settimana (fino al coprifuoco delle undici, ovviamente) e parlavamo su Skype nei giorni di vacanza.
 
Fu il mio cavaliere al ballo. Sapevo che non voleva andarci. Sapevo che aveva paura, avendo una buona ragione, ma lo fece per me.
 
Quando mi annunciarono come reginetta del ballo, quella sera, corsi via.
 
E lui corse dietro di me.
 
Mentre andavo fuori di testa, lui rimase calmo.
 
A quel tempo, avrei voluto che andasse fuori di testa con me. Ero sconvolto, arrabbiato, incazzato a prescindere. Ma poi mi sono reso conto che lui era la mia ancora.
 
Se lui si fosse lasciato andare, io non sarei mai riuscito a riprendermi.
 
Tornai indietro.
 
Accettai la mia corona.
 
Quando il re del ballo non volle ballare con me, lo fece lui. Davanti a tutti. Perché quello che pensavano gli altri non importava. Non importava più.
 
E più tardi, quella sera, mi colpì di nuovo, dichiarandosi mentre piangevo.
 
Mi ricordò quello che mi dicevo sempre. Mi ricordò quanto fossi speciale.
 
Mi disse che non aveva mia conosciuto un ragazzo che aveva vinto come reginetta del ballo e mi fece sentire ancora più speciale.
 
Incorniciai la nostra foto, con io che indossavo la corona, il giorno dopo.
 
Il giorno in cui mi disse che mi amava, probabilmente ebbi un piccolo attacco di cuore, mentre rispondevo in due secondi.
 
Non dovetti nemmeno pensare a cosa rispondergli. Lo amavano già da tanto tempo.
 
Rimasi comunque sorpreso da quelle parole. Lo disse così facilmente. Come se non avesse bisogno di pensarci troppo. Lo sapeva.
 
Il ricordo mi fa ancora sorridere.
 
Quell’estate ascoltò ogni parola della commedia che avevo scritto e andai a ogni suo concerto al Six Flags.
 
I nostri baci divennero meno casti e le carezze non più limitate al viso, anche se non gli concessi niente sotto alla cintura.
 
Gli insegnai a cucinare cose più complicate degli spaghetti e lui mi dimostrò quanto potesse essere divertente guardare Jersey Shore.
 
Quando iniziò il nuovo anno scolastico, gli chiesi (o forse lo pregai) di trasferirsi nella mia scuola. Non mi aspettavo che lo facesse veramente, però.
 
Ovviamente, sempre pieno di sorprese, lo fece.
 
Era un po’ come andare a vivere con qualcuno.
 
Iniziò tutto alla grande. Alzavo lo sguardo e lui era lì. Pranzavamo sempre insieme. Condividevamo sempre un sorriso, un’occhiata o qualsiasi altra espressione facciale dall’altra parte della stanza.
 
Poi ci fu un ragazzo che rovinò tutto. Ma fallì. Fallì miseramente.
 
Se non altro, ci fece avvicinare di più.
 
Letteralmente.
 
Molto, molto letteralmente.
 
Mi fece realizzare quanto mi amasse. Mi amò fisicamente, emotivamente ed era come un alleato là fuori.
 
Se il vecchio me mi avesse detto che avrei perso la verginità, gli avrei risposto che era crudele, quanto fosse cattivo il suo gusto in fatto di scarpe, e me ne sarei andato.
 
Realizzai quel giorno glorioso che fare sesso è molto di più che vedere qualcuno nudo, o mettere insieme delle parti del corpo e sentirsi bene.
 
E’ amare qualcuno. Amare i suoi difetti, le sue cicatrici e i suoi segreti. Amarlo perché non è perfetto a dispetto di tutto. Amarlo per chi era, dentro e fuori. Era tenerlo, fidarsi di lui, renderlo tuo nel modo più intimo e privato.
 
O almeno, questo era quello che fu per me. Lui disse che era lo stesso per lui.
 
Le settimane successive furono piene di rossori, cuori che palpitavano, mani sudate, improvvisi saltelli e strilli, baci non più così casti che di solito ci portavano da un’altra parte e praticamente stavamo attaccati ai nostri fianchi il più possibile… che potrebbe essere inteso in diversi modi.
 
Le cose furono tranquille per un po’. Troppa calma, in realtà.
 
Diventò distante in un paio di mesi. Così, così distante.
 
Temevo che si fosse stancato di me, di noi.
 
Avrei dovuto sapere che c’era molto di più.
 
Ma non lo feci.
 
E incontrai qualcun altro.
 
Qualcuno che mi fece sentire… speciale.
 
Ora, con questo qualcuno non ho scambiato altro che qualche messaggio dove flirtavamo.
 
Ma gli feci male.
 
Non al ragazzo dei messaggi; ma al mio ragazzo.
 
Lo feci piangere.
 
Lui era quello forte, almeno lo era per me, e lo feci piangere.
 
Scoprii poco dopo che il motivo della sua distanza non era perché si fosse stufato di me, ma perché aveva paura di perdermi.
 
Sapete, io ero più grande di lui. Avevo grandi sogni per il college a New York e lui non sarebbe rimasto con me per almeno un anno.
 
Questa rivelazione mi spezzo il cuore.
 
Ma si risolvette tutto.
 
Fui così stupido.
 
Feci domanda per un solo college.
 
E non fui accettato.
 
Avevo pensato di farcela. Pensavo di essere andato bene. Ma, a quanto sembrava, non ce n’era una che facessi giusta. O, almeno, questo era quello che sembrava.
 
Ancora una volta, mi tenne mentre piangevo.
 
E piansi.
 
Tanto.
 
Mi assicurò che tutto sarebbe andato bene.
 
Gli dissi che non c’era modo di saperlo.
 
Averi dovuto saperlo prima di dubitare di lui.
 
Trascorremmo ogni momento possibile di quell’estate insieme. Ottenemmo un posto di lavoro allo stesso negozio, trascorremmo l’estate passeggiando nel parco o guardando film. Una volta facemmo anche un giro in bicicletta.
 
Caddi due volte.
 
E lui mi aiutò sempre a rialzarmi.
 
La scuola iniziò di nuovo.
 
Lo andavo a prendere ogni giorno, per poi tornare a lezione al college vicino.
 
Non era esattamente il modo in cui mi immaginavo il mio primo semestre al college.
 
Pensavo che quel college fosse un po’ troppo sopra le righe.
 
Forse esageravano per rendere meglio l’effetto drammatico.
 
E non lo erano.
 
Ma, non è questo il punto.
 
Durante quel semestre, io e lui passammo ore a mandare richieste a ogni college di New York. Fui più intelligente questa volta. Feci domanda in dodici posti diversi.
 
Mi accettarono in otto.
 
Scelsi di andare in quello di design invece di quello di teatro.
 
Quel gennaio, prima di partire, io e lui avemmo un lungo addio.
 
Lungo, lungo addio.
 
Era più un ‘mi mancherà non vederti ogni giorno’.
 
Perché sicuramente non era un addio.
 
C’era una grande distanza tra noi.
 
Ci sentivamo su Skype, passavamo il fine settimana insieme (nonostante le undici ore di auto a dividerci), parlavamo al telefono, messaggiavamo e qualsiasi altra cosa che poteva farci andare avanti.
 
E… funzionò.
 
E non impazzii.
 
Non c’era nessun’altro per me. Non importava quanti gay ci fossero nella mia classe, io pensavo a una sola persona.
 
C’erano due ragazzi gay nella scuola quell’anno, ma per me non erano altro che amici.
 
Lui li informò fuori dal bagno che ero occupato. Disse di averlo fatto in modo gentile, ma quando li incontrai, loro non sembravano d’accordo.
 
Riuscii a raggiungerlo giusto in tempo per il suo diploma. Sembrava così carino lassù. Mi mandò un bacio e io lo presi e gliene soffiai un altro che naturalmente anche lui prese… perché noi stavamo bene così.
 
Era riuscito ad entrare alla New York University e quando gli dissi che non volevo che si trasferisse a New York solo per me, mi lanciò uno dei suoi migliori sguardi, mi baciò e mi disse di non essere stupido e di lasciare le cose come stavano.
 
Ancora non sono sicuro se dovessi offendermi o meno.
 
Trascorse il suo primo anno da matricola al campus.
 
Pensava che fosse una buona idea in un primo momento.
 
Ma finì per trascorrere la maggior parte delle notti a casa mia.
 
E dopo il primo anno, ci si trasferì.
 
Fu semplice. Praticamente ci stava già vivendo.
 
Tranne che c’erano molto più cose di quanto pensassi. Molte di più. E non erano semplicemente due cassettiere, due comodini o aggiungere un altro armadio nella camera da letto.
 
Dovemmo scendere a compromessi.
 
Compromessi significava discussioni. Come poteva non essere? Non volevamo rinunciare alla nostra roba.
 
Rimanemmo in piedi per due notti di fila. Senza dormire e senza uscire di casa. Era una cosa che c’eravamo promessi tempo prima.
 
Se ci fossimo arrabbiati, dovevamo rimanere svegli e in casa finché non avessimo risolto.
 
E risolvemmo.
 
Oltre ad aver distrutto la nostra nuova trapunta e sparso una pila di fogli in giro.
 
Pensò che inizierò a piegarla ora, ma prima ho ancora una cosa da dire.
 
Sei ancora la mia ancora. Ancora il mio tutto. Per me significhi più di quanto tu possa immaginare. Ti amo ancora come quando eravamo dei ragazzini. Ancora di più. Mi fai ancora arrossire, battere il cuore, sudare le mani, saltellare e urlare, hai le migliori labbra che conosca e camminerò sempre accanto a te con le nostre mani intrecciate.
 
Legge questo giornale ogni giorno.
 
Gli ho detto che poteva leggerlo on-line, ma si è sempre rifiutato, dicendo che era una cosa sbagliata. La carta doveva rimanere sulla carta perché era fatta per essere così.
 
So che sarà anonimo, ma con tutte le ovvietà che ho scritto penso che ormai sappia chi lo abbia scritto.
 
Conoscendolo, probabilmente più tardi mi chiamerà per farmi sapere di questo tizio che ha scritto del suo ragazzo.
 
Poi, mentre inizia a ‘leggerlo’, si renderà conto di aver fatto quello che ho appena scritto.
 
E i suoi occhi si allargheranno mentre leggerà l’ultima frase.
 
Mi vuoi sposare?
  
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