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Autore: __Mais__    14/04/2013    4 recensioni
[...]
Ma non mi importa un fico secco di tutto il resto, perché finalmente riesco a sentire il suo profumo maschile che mi manda in tilt il cervello.
Sposto le braccia sulla base del suo collo, per poi allacciarle dietro la nuca; tengo gli occhi chiusi e mi muovo con lentezza e a tempo di una musica che in realtà è solo nella mia testa, e sorrido perché lui fa lo stesso, seguendo i movimenti del mio corpo senza fiatare.
«Sai, sei una ragazzina troppo ingenua e sconsiderata. Mai comportarti così con un estraneo, perché non sai mai quello che gli passa per la testa» mormora contro la mia fronte.
«A te cosa passa per la testa?»
«Credimi, non vuoi saperlo davvero» sento la sua risatina sommessa scuotergli il petto.
«Sì, invece» sono sempre stata testarda, adesso più che mai.
«Ho voglia di baciarti» sussurra direttamente al mio orecchio, incendiandolo. Sussulto a quelle parole che, neanche tanto inconsciamente, speravo di sentirgli dire.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Look at the stars, look how they shine for you



 
 

Siamo tutti in basso, 
ma alcuni guardano le stelle.

Oscar Wilde


 

 

Piccole lacrime scendono dal cielo, carezzando delicatamente il mio viso rivolto verso l’alto. Sono ormai numerosi giorni che piove senza sosta e mi mancano tremendamente il sole e il calore, le stelle, le nuvole morbide che prendono inevitabilmente forma nella mia mente, trasformandosi in immagini vivide, ogni volta che mi ritrovo sdraiata sul terrazzo di casa con lo sguardo perso nell’infinito. Mi piace stare stesa su una soffice coperta con lo sguardo fisso verso l’alto, mi piace perdermi tra ricordi e pensieri, lontana anni luce da quella indesiderata realtà ad un passo da me. La quiete quassù mi rilassa, mi aiuta a scrollarmi di dosso tutto quell’ammasso di macerie che è la mia vita da diciassettenne, tutti quei minuscoli pezzi di cose distrutte da errori ripetuti allo sfinimento, che rischiano di infilarsi nella mia tenera carne fino a farla sanguinare, inondandomi così di dolore.
«Carola, hai finito di poltrire su quella cosa logora? Vieni dentro che sta iniziando a piovere»urla mia madre, bussando energicamente contro la porta in ferro che permette di accedere alla terrazza.
Non prova neanche ad abbassare la maniglia, perché sa perfettamente che chiudo sempre a chiave e che non voglio essere disturbata dai suoi patetici tentativi di fare la madre responsabile quando sono qui a riflettere su tutto e niente.
Questo è quello che succede quando delle bambine si mettono a fare bambini. Un matrimonio prematuro con quello che dovrebbe essere mio padre e un altrettanto prematuro desiderio di diventare madre. Tutto questo prima ancora di essere certa che, quello che c’era tra i miei genitori, fosse vero e proprio amore.
Ci ha abbandonate quando avevo sei anni, fuggendo con una donna persino più giovane di mamma e probabilmente adesso è molto più felice con lei, che con la donna con cui non faceva altro che litigare dalla mattina alla sera.
Bicchieri in frantumi, lacrime, urla che squarciavano il pacifico silenzio della notte.
L’unico bel ricordo che ho di mio padre sono i suoi occhi, così dannatamente simili ai miei: un colore indeciso tra il cioccolato e il verde, un colore indefinito proprio come la sua personalità. Forse anche un po’ contraddittorio, perché le sue iridi non possono essere marroni e poi trasformarsi in verdi a causa dei raggi del sole. Occhi contraddittori come lui, perché un padre non può dire di voler bene alla propria figlia per poi dirle addio, da un giorno all’altro, e mettersi a correre disperatamente dietro un’altra vita nella speranza di raggiungerla e farla propria.
Che ne è di noi, che non riusciamo a tenere il passo?
Semplice: rimaniamo indietro, nella speranza di un suo ritorno. Ma chi ama non fugge, si sa.
E io ho perso le speranza da ormai troppo tempo.
Mi alzo con estrema lentezza, sbuffando scocciata da quell’interruzione. Le piccole gocce iniziano ad unirsi alle loro compagne in volo, scendendo giù sempre più pesanti e velocemente si infrangono e si perdono sulla mia figura, ormai eretta e intenta a ripiegare il più in fretta possibile la coperta rosso fuoco.
Adoro il colore rosso, perché è così intenso, passionale, caldo che mi attrae inevitabilmente.
A sedici anni, anche se contro il volere oppressivo di mia madre, ho tinto i miei capelli di diverse sfumature di rosso, partendo da un color mogano sulle radici che poi, piano piano, si sfuma fino a diventare quasi un biondo-arancio sulle punte. Adoro i miei capelli lunghi, che mi cadono morbidamente sulle spalle e oltre, raggiungendo quasi il fondoschiena.
Mia madre sicuramente non verrà nemmeno più a bussare quassù, perché ormai il suo dovere di madre l’ha fatto. Mi ha avvisato della pioggia, come se non avessi gli occhi per notarlo da sola; ma si ostina a non capire che quello di cui più avrei bisogno non è tanto l’ordine autoritario o l’avvertimento dettato dallo status di genitore, quanto la preoccupazione per la persona a cui più tieni al mondo, l’affetto di un bacio sulla fronte, l’amore di un gesto dettato dal cuore e non da convenienze e puttanate varie.
Alcune volte mi domando che cosa sono nata a fare. Sono semplicemente un peso per lei, un inutile spreco di soldi e tempo.
Invidio i miei amici per l’infanzia felice che hanno avuto. Avrei voluto anche io poter trascorre giorni interi a giocare al parco con i miei genitori, andare al mare tutti insieme come una famiglia felice, fare i capricci per poter avere due gelati anziché uno solo, dare da mangiare alle papere del lago vicino casa. Ed invece, ho passato i miei grigi pomeriggi tra le mura di questa stramaledetta gabbia e pensavo seriamente di essere persa, finché non mi sono accorta della meraviglia di questa terrazza e delle stelle.
Dio, quanto sono belle le stelle. Potrei stare a guardarle per ore e odio profondamente la mia città quando, con il suo smog e l’inquinamento, mi vietano una visuale nitida del mio paradiso.
Rientro in casa, chiudendomi tristemente la porta di ferro alle spalle e scendendo gli scalini che portano all’appartamento in cui vivo, per poi scrollarmi di dosso un po’ dell’acqua che ormai rende i miei abiti zuppi, pesanti e fastidiosamente aderenti; entro in casa con la stessa andatura che può avere una persona che sta andando al patibolo. Odio casa mia, mi sembra di soffocare; mi sembra che i ricordi legati a questo schifoso posto mi strappino gradualmente e aggressivamente secondi della mia esistenza, respiri, battiti cardiaci, la mia intera vita.
Scuoto il capo con energia, infastidita dai capelli umidi che si incollano ostinatamente al mio collo e alla mia fronte.
«Guarda come ti sei conciata. Vai a cambiarti, prima che tu ti prenda una broncopolmonite» mi rimprovera la donna che mi ha messa al mondo, passandomi accanto per dirigersi in cucina.
Non le do neanche una risposta, perché non le è mai interessato riceverne una, e mi fiondo in camera mia come un fulmine.
«Cosa vuoi per cena?» Domanda indaffarata, passando davanti alla mia stanza rapidamente.
«Niente» rispondo secca da dietro la porta. «Stasera esco con gli altri e mangio fuori.»
Sono quasi certa che non mi abbia nemmeno sentita, ma non me ne preoccupo più di tanto poiché fa parte del copione a cui ormai sono abituata.
Non credo sia mai venuta ai colloqui con i professori o ad un mio saggio di fine anno, risalente ai tempi in cui andavo a danza. Non ricordo nemmeno che io e lei siamo mai andate a vedere un film al cinema, rispettivamente come madre e figlia, o a far la spesa insieme riempiendo il carrello di un’infinità di cose che probabilmente non avremmo mai mangiato.
Mai. Mai. Mai. E’ sempre così presente questa triste parola nel mio vocabolario.
Afferro un completo intimo dal primo cassetto del comò e mi chiudo in bagno, con l’intenzione di fare una doccia veloce e uscire il più in fretta possibile da questa casa. Una volta riemersa dalla bollente acqua schiumosa e profumata che riempie la vasca, sciacquo il mio corpo velocemente per poi avvolgerlo nell’accappatoio rosa pallido di mia madre.
Non so neanche che profumo lei abbia addosso, perché lei, questa casa e tutto ciò che vi è dentro sembrano un non-luogo. Senza una storia, senza identità né relazioni sociali.
Scalza e bagnata, sgambetto nuovamente verso la mia stanza, senza paura di essere ripresa dalla padrona di casa, e mi tuffo nel mio armadio alla ricerca di qualcosa da indossare.
Non mi è mai importato di avere vestiti firmati e gli accessori all’ultima moda perché, anche volendo, con il solo stipendio di mia madre a mala pena riusciamo ad arrivare a fine mese, figuriamoci permetterci il lusso delle stronzate griffate.
Nel fine settimana infatti, per arrotondare, lavoro in un piccolo pub, il Royal. Sto cercando di pesare il meno possibile, almeno economicamente, su mia madre e di essere più indipendente che posso, perché non voglio doverle chiedere i soldi per andare a mangiare una pizza con gli amici, per comprare gli assorbenti o le ricariche del cellulare.
Afferro al volo una felpa bordeaux sbiadita, i miei jeans skinny lievemente strappati sulle ginocchia e infilo i piedi coperti da morbidi calzini multicolore nelle mie adorate dr. Martens bordeaux, comprate e meritate dopo un mese di duro lavoro.
Giusto il tempo di asciugare i capelli con il phon, ripassare la matita nera intorno agli occhi, afferrare la giacca nera in pelle e l’ombrello e sono già catapultata fuori casa.
Non un saluto, un sorriso, un cenno, un avviso.
 
 
 

 

***

 
 
Il Royal brulica di gente persino il martedì sera. Mi faccio strada verso il tavolino, dove sono certa di trovare i miei amici, anche se con un po’ di fatica e una buona dose di spintoni quando vengo sballottolata da una parte all’altra in modo molto scortese.
Non riesco ancora a raggiungere Diana, la mia migliore amica, seduta tra Riccardo e Manuel, rispettivamente il suo ragazzo e un nostro caro amico d’infanzia, che vengo bloccata da un tizio visibilmente ubriaco, il quale cerca inutilmente di attare bottone.
Lo scanso infastidita e, finalmente, riesco a sedermi a questo stramaledetto tavolo, decisamente troppo distante dall’ingresso del locale.
«Finalmente! Pensavamo avessi deciso di non venire più» Manuel si apre in un grande quanto caloroso sorriso.
«Scusate, sono stata molto indaffarata a casa» l’unica persona che sa del mio rifugio, oltre mia madre, è Diana, la ragazza bionda che ora mi fa l’occhiolino consapevole.
E’ la mia migliore amica da quando ho memoria ed è l’unica persona di cui mi fidi davvero; diretta, tremendamente sincera, generosa e solare, ha sempre il sorriso dipinto sul viso ed è buona come il pane. Persone così sono rare da trovare e almeno in questo sono stata decisamente fortunata, perché non potrei mai trovare un’amica migliore di lei.
«Ordiniamo da bere?» Esordisce Riccardo, carico di energie e voglia di ubriacarsi come non mai, stringendo le braccia intorno a Didy per poi baciarle il capo con un affetto disarmante.
E’ sempre stato un ragazzo un po’ strano: castano, un viso delicato e degli occhi marroni magnetici, labbra sottili e naso dritto, mascella ben delineata. Carattere irascibile, attrazione spaventosa verso l’alcol, indossa sempre le prime cose che scova nel suo armadio.
Tutto questo può pensarlo una persona che non lo conosce affatto, quel genere di gentaglia che si basa sull’aspetto fisico, sugli stereotipi, quel genere di persone che ti etichettano al primo impatto.
Io, Manuel e soprattutto la sua ragazza Diana sappiamo meglio di chiunque altro di che ragazzo d’oro si tratti: leale, sincero, con una vita difficile alle spalle, ricordi che cerca di affogare nell’alcol.
Sono poche le sere in cui non si riduce ad una pezza; è peggio di una spugna, ma nessuno di noi riesce a fargli capire che il suo fegato non reggerà ancora molto se continua così.
E’ disarmante dover leggere negli occhi della mia migliore amica tutto l’amore, la preoccupazione e il dolore che prova per Riccardo.
Noto con disappunto le due birre, ormai vuote, proprio sulla sua traiettoria del tavolo e qualcosa mi dice che la mia amica e Manuel non c’entrano niente. Questo non vuol dire che nessuno di noi altri non ha mai alzato un po’ troppo il gomito, ma semplicemente che è raro vederci ridotti male, mentre per Riccardo è quasi un’abitudine.
Manuel, un ragazzo nella un po’ fuori dalle regole, con il perenne desiderio di divertirsi, fa cenno al cameriere, nonché mio collega, affinché venga a prendere le ordinazioni.
«Barbona, che vuoi da bere?» Borbotta il ragazzo moro con il block-notes e la panna in mano.
Ha questa fastidiosa abitudine di affibbiarmi nomignoli come barbona o pagliaccio, e questo solo perché ho i capelli sbarazzini e mi vesto non proprio sobriamente.
«Ciao anche a te, Giulio» risposto sarcasticamente.
«Com’è che vuoi donne avete bisogno dei preliminari pure per ordinare da bere?» Alza gli occhi al cielo, iniziando a battere il piede sulla moquette rovinata del pub con impazienza.
Nonostante tutto però, ho finito per affezionarmi a lui anche se è scorbutico e scortese la maggior parte del tempo che passo in sua compagnia.
«Com’è che stasera sei così simpatico e di buon umore?» Sorrido divertita, perché da quando lo conosco non c’è stato un singolo giorno in cui non fosse tetramente imbronciato. E’ un tipo piuttosto scontroso e i suoi modi a volte mi danno fastidio, perché finiscono per mettere di cattivo umore anche me.
«Mi hanno lasciato da solo a servire i tavoli e, se non l’avessi notato, c’è il pieno.»
Con un gesto rapido e infastidito, si allenta la cravatta della divisa che ci obbligano a mettere qui al Royal, per poi sbottonarsi i primi bottoni della camicia, come se si sentisse soffocare da tutta la gente intorno a lui. E’ un tipo parecchio solitario, a cui piace molto il silenzio.
«Se vuoi posso darti una mano» tiro fuori un sorrisone più finto di Giuda.
«Lo faresti davvero?» Domanda, visibilmente scettico.
E fa bene ad esserlo. «Ehm, fammici pensare… No»
La mia risposta, un po’ scontata, fa scoppiare a ridere i miei amici ed irritare maggiormente il cameriere in piedi, al mio fianco.
«Stronza» ringhia, giocando nevroticamente con il tappo della penna, che stringe con rabbia tra le dita.
«Prendiamo il solito. Ah, e buon lavoro, Giulio!»
Ci volta le spalle rapidamente e, come risposta, mi mostra il suo regale dito medio.
 
 
 

 

***

 
 
 
«Rammentami ancora perché siamo qui» sbuffo, seguendo Manuel all’interno dell’Infinity club, una delle discoteche più in voga del momento.
Dopo un paio di birre, dopo la testa che prende le metaforiche sembianze di un palloncino e inizia a svolazzare tra un universo e l’altro, dopo che Riccardo e Diana a momenti non si strappavano i vestiti di dosso, dando spettacolo a tutti i presenti nel pub, dopo averli accompagnati a casa a fare le cose zozze, evitando così eventuali denunce per atti osceni in luogo pubblico, e dopo aver ritrovato un po’ di equilibrio, mi ritrovo abbracciata a Manuel, il quale non vuole ancora concludere la sua serata e mi sospinge con entusiasmo vesso l’entrata posteriore della discoteca per non pagare, in questo modo, il ticket d’ingresso.
Sono quasi certa che quello che stiamo facendo sia illegale, ma in questo momento ho la testa da tutt’altra parte, non posso certo perdere tempo per pensare.
Ero convinta che sarebbe rimasto deluso, ero convinta che avrebbe trovato la porta chiusa e che così finalmente sarei potuta tornare a casa con il cuore in pace, senza averlo sulla coscienza per non aver esaudito il suo desiderio da ubriaco diciannovenne.
Inaspettatamente però, la porta si apre magicamente e Manuel si intrufola con incredibile destrezza per essere talmente ubriaco da puzzare quanto, se non di più, la cantina del Royal.
Con poco entusiasmo e molta meno agilità, seguo quello che è uno dei miei più cari amici, ritrovandomi nel buio più totale di una stanza nella quale non riesco ad individuare nessuna uscita, se non quella alle mie spalle.
«Manuel!» Sibilo, rifiutandomi di muovere anche un solo passo per paura di ritrovarmi accasciata al suolo in un battito di ciglia.
Non ricevo alcuna risposta dal mio amico, che poco prima aveva sciolto il nostro abbraccio, così afferro il telefono e con mani tremanti faccio luce difronte a me, almeno per vedere in che diamine di posto mi ha portata quel pazzo.
Lancio un urlo terrorizzato quando mi ritrovo il viso di Manuel a due centimetri di distanza, intento a fare smorfie per il puro piacere di farmi morire d’infarto. Dire che mi ha spaventata è un eufemismo, così come dire che non ho intenzione di fargli pagare caro questo fottuto scherzo è un puttanata.
«Sei uscito fuori di testa?!» Esclamo, cercando di regolarizzare il mio respiro ansante, mentre lui per poco non si sdraia a terra a causa del troppo ridere.
«Dovevi vedere la tua faccia» dice tra una risata e l’altra. «Per non parlare dell’urlo degno di una cantante lirica.»
«Tu hai seri problemi» ringhio. Quando fa per abbracciarmi, ovviamente per farsi perdonare, gli addento una spalla con tutta la forza che ho, facendo urlare a sua volta lui.
«Ah, questo faceva male» ribatte, sciogliendo per l’ennesima volta l’abbraccio per massaggiarsi il punto dolente, senza però arrabbiarsi minimamente per il mio gesto infantile.
Intrecciate le dita alle mie, mi trascina nel buio più totale seguendo il suo istinto e la sua esperienza nell’intrufolarsi furtivamente ovunque ci sia da pagare. Comincio a credere che ci schianteremo da qualche parte, quando finalmente inizio a sentire il suono assordante della musica che anima la serata dei giovani, un suono così intenso e coinvolgente che ha il potere di penetrare nelle vene e agitare il sangue. Aggiunta poi una buona quantità di cocktail, ci si sente capaci di volare e conquistare il mondo.
«Tu sei pazzo» urlo all’orecchio del mio amico per farmi sentire, poiché il suono della musica adesso è ancora più elevato, essendo entrati nella mischia di luci, colori e corpi fuori controllo.
«Tesoro, c’è crisi!» Mi assorda, strillandomi nell’orecchio come poco fa ho fatto io con lui, e ridacchia.
Ci facciamo trascinare dalla mischia, dal calore, da tutti questi corpi vicini che si muovono sensuali a tempo di musica. Ed è piacevole, coinvolgente; tutto questo riesce in un certo sento a non farti sentire solo, come accade con i flash mob, perché siamo una marea di persone, in uno spazio non eccessivamente grande, che improvvisa seguendo il ritmo con una finalità comune: divertirsi.
Quando sento le note rimbombanti di una canzone che odio con tutta me stessa, poiché me la sono dovuta subire a lungo, faccio cenno con il capo al mio amico per indicargli il bar della discoteca, che consiste in un lunghissimo bancone di marmo in fondo alla sala, dietro il quale dei ragazzi si muovono abilmente, facendo ruotare bicchieri e bottiglie alcoliche di ogni genere.
E se inizialmente ero brilla, ma abbastanza cosciente da riuscire a ragionare e a parlare senza biascicare, dopo un paio di pesca-lemon inizia seriamente a girarmi la testa e a mancarmi l’aria.
«Tranquilla, bevi che offro io!» Manuel è decisamente messo peggio di me, lo si capisce da come ulula ad ogni bicchierino che gli scende giù per la gola con troppa facilità.
«Basssta, stiamo esagerando» sento la mia voce schifosamente nasale e impastata, come se mi fossi appena svegliata. Certo è che il mio risveglio domani mattina sarà molto meno piacevole del solito.
«U-ultimo, giuro che questo è l’ultimo» fa la faccia da cucciolo implorante, portandosi la mano sinistra sulla parte destra del torace.
Scoppio a ridere istericamente, senza una vera e propria motivazione, per poi accorgermi di un piccolo dettaglio. «Guarda che il cuore è dall’altra parte» senza rendermene conto mi ritrovo ad annuire con convinzione, mentre la testa vortica lontana anni luce dal mio corpo.
Lui si unisce alle mie risa, per poi portare in alto il suo bicchiere stracolmo, in quello che sembra un brindisi, e dissetare il suo corpo desideroso di potersi muovere irrazionalmente. Nessun pensiero, nessuna vocina della coscienza, solo divertimento.
E in un certo senso è quello che faccio anche io la maggior parte delle volte, ma mi odio per questo. Odio non avere il controllo sul mio corpo, sulla mia bocca che parla e parla di cose assurde; odio l’emicrania del giorno dopo, quel senso di nausea, lo stomaco sottosopra; odio i buchi neri, quelle voragini che inghiottono la maggior parte dei miei ricordi, impedendomi di ricordare tutte le stronzate fatte il giorno prima.
«Andiamo fuori?» Sento la mia bocca chiederli, mentre gli occhi sono fissi sulle luci del soffitto.
Sono così belli questi colori!
Mi manca l’aria; ho bisogno di aria fresca, perché qui non riesco a respirare e gli spazi chiusi non mi sono mai piaciuti. Preferisco di gran lunga il terrazzo di casa mia.
«No, balliamo un altro po’, dai» mi supplica, cercando di trascinarmi nuovamente tra la mischia di persone, ostinato a passare una serata distruttiva.
Convinta della mia decisione, questa volta non cedo alla sua volontà.
«No, dopo» mi faccio un po’ di vento con la mano. «Vado a prendere una boccata d’aria, sto per vomitare» il mio fegato ruggisce e la nausea è forte.
Troppa aria consumata. Ho bisogno di aria!
«Okay, v-vengo con te» biascica abbracciandomi di slancio e facendomi quasi perdere l’equilibrio.
«Tranquillo, tu resta a ballare. Io torno tra poco» allontano le sue braccia e lo sospingo verso il centro della pista, dove inizia a muoversi contro una tipa sconosciuta, di cui non riesco neanche a vedere il volto, per poi correre fuori dalla discoteca come un razzo.
Durante il tragitto mi scontro su un paio di persone, alcune poco garbate e decisamente scurrili, e rischio di inciampare sui miei stessi piedi, ma finalmente riesco ad uscire e mi siedo pesantemente sulla prima panchina libera che trovo lungo il marciapiede.
Cazzo, adesso vomito… Che schifo!
Cerco di resistere al senso di nausea, finché, dopo un paio di minuti, le mie tempie smettono di pulsare e le cose intorno a me cessano di ruotare.
Adesso, con i polmoni pieni di ossigeno, ho un disperato bisogno di una sigaretta. Controllo nelle tasche della mia giacca in pelle e tiro fuori le mie amate Malboro, scoprendo con nervosismo di non avere l’accendino.
Mi guardo intorno con la sigaretta già pronta tra le labbra, sperando di trovare qualcuno a cui chiedere se ha d’accendere, quando una mano entra nella mia visuale e mi porge un accendino totalmente rosso.
Seguo il profilo di quel braccio fino al viso del suo proprietario, nonché mio salvatore.
Si tratta di un ragazzo alto, tremendamente alto rispetto alla mia piccola figura, con degli occhi magnifici. Mai visti occhi così definiti e limpidi. Indossa un semplice paio di jeans e, sotto la giacca in pelle lasciata aperta e morbida sui fianchi, un semplice maglioncino blu scuro.
Ha il viso delicato, gli zigomi alti e incavati e il mento squadrato, ma gli occhi, cazzo, gli occhi sono la ciliegina sulla torta. Sono di un verde così acceso che non riesco a staccare i miei dai suoi.
Titubante e con la mano tremante, forse per l’aria fredda o semplicemente per l’alcol, afferro l’accendino che lui gentilmente mi porge e accendo la mia sigaretta, inalando il fumo.
Guardo di sott’occhi il ragazzo vicino a me, che nel frattempo si è seduto scomposto al mio fianco e ha preso a guardare il cielo, per porgergli l’accendino. Vedendo che non accenna a prestarmi attenzione, lo lascio con delicatezza sul legno umido della panchina, per poi stendermi interamente su di essa, poiché non riesco nemmeno a restare dritta.
Continua a fumare beatamente la mia sigaretta finché non incontro di nuovo i suoi occhi, che adesso mi fissano incuriositi.
«Come ti chiami?» Domanda, tornando però a guardare difronte a sé e mantenendo una rispettosa distanza tra i nostri corpi.
Non rispondo immediatamente, poiché mi ritrovo a pensare che ha davvero una bella voce. Rauca al punto giusto e profonda, una di quelle voci che ti restano impresse nella mente.
Anche lui, come me poco prima, si accende una sigaretta, senza guardare minimamente nella mia direzione.
L’idea che sia un maniaco o un depravato non mi sfiora neanche lontanamente la mente, mentre resto affascinata dal modo in cui il filtro della sigaretta sfiora le sue labbra non eccessivamente carnose. Come si fa a restare ammagliati dai semplici modi di fare di una persona o dalla sua voce?
«Perché ti interessa?» Rispondo con un’altra domanda, guardando con ostinazione ogni sua movenza, nonostante io senta le palpebre farsi pesanti ad ogni secondo che passa.
«Non ho detto che mi interessa infatti» ribatte, voltandosi lievemente verso di me, giusto per regalarmi un sorriso da infarto.
Il silenzio cala di nuovo intorno alla panchina, mentre nella mia mente vorticano un numero indefinito di pensieri che non riesco nemmeno a decifrare.
Presa da un’insana voglia di sapere qualcosa di lui, mi ritrovo a domandargli con voce sicura:
«Tu come ti chiami invece?»
«Cos’è, adesso interessa a te?» Espira lentamente il fumo della sigaretta per poi lanciarmi un rapido sguardo divertito.
«Così sembra» ridacchio senza un motivo logico.
«Che ci fa una ragazza brilla quasi del tutto stesa su una panchina a tarda notte? Ci sono molti brutti ceffi in giro che potrebbero pensare di approfittarne» ribatte, senza però darmi la risposta che cercavo.
Voglio sapere il suo dannato nome!
Poi però, facendo faticosamente mente locale, ripenso alle sue parole con sospetto misto a divertimento per l’ambigua situazione in cui mi sono cacciata.
«Cosa ci fa un brutto ceffo accanto alla ragazza brilla?» lo stuzzico, per il puro piacere di vederlo reagire o per l’oscuro desiderio che mi guardi ancora.
Non voglio che si guardi intorno o guardi il cielo, perché sta parlando con me, no? Allora che mi lasciasse tuffare nelle sue iridi.
«Era incuriosito» mi risponde con sincerità, ticchettando sulla sigaretta e buttando la cenere per terra. Noto le sue mani leggermente screpolate per il freddo e le dita lunghe e affusolate.
«Da cosa esattamente?» sto allo strano gioco in cui ci stiamo addentrando e prego perché la nausea non torni a fami visita proprio adesso, facendomi fare la peggiore figura di tutta la mia vita.
«Dai suoi capelli» il suo sorriso si allarga, facendomi inevitabilmente aumentare il battito cardiaco.
«Che hanno i suoi capelli di strano?» mi imbroncio impercettibilmente a quelle parole, stufa che tutti mi sfottano per i miei capelli non esattamente nella norma.
«Al brutto ceffo piacciono le ragazze con i capelli rossi» si apre per l’ennesima volta in un sorriso disarmante, mentre sento il sangue fluire rapidamente verso le mie guance.
«E’ per questo che si è avvicinato con la scusa dell’accendino?» soffio, sollevandomi di poco dalla panchina per stare più comoda, e non stacco un attimo gli occhi dai suoi.
«Non devo usare questi sciocchi mezzucci per attaccar bottone con una ragazza, io» sbuffa, con un’arroganza che mi sorprende.
«Tu si che hai poca autostima di te» borbotto, delusa dalla sua precedente risposta.
«Me lo dicono tutti» ride divertito e solo in questo momento mi accorgo delle adorabili fossette che compaiono sulle sue guance.
«E così ti piaccio?» se avessi la mente lucida non avrei mai osato dire una cosa del genere, anche perché sono una persona molto timida e riservata, ma in questo momento non mi importa di quello che può pensare di me un perfetto estraneo, voglio solo sapere qualcosa di lui.
Perché ha degli occhi così belli? Dovrebbero essere illegali degli occhi così.
Non mi risponde subito, ma mi guarda come per analizzarmi e non parlo dell’aspetto fisico, perché fissa i miei occhi come se volesse leggermi dentro, come se volesse leggermi l’anima.
«Hai l’aria della ragazza fragile» esordisce infine, portando di nuovo la sigaretta alle labbra.
Labbra morbide che mi rapiscono per un millesimo di secondo.
«No, non è vero» sibilo, irrigidendomi all’istante.
«Una piccola ragazza stesa su una panchina umida?» Inarca le sopracciglia, sfidandomi a ribattere e a contraddirlo.
«Questo non vuol dire che io sia fragile» sento di essere diventata più rigida di un manico di scopa, ma almeno adesso la testa non vortica e riesco a parlare senza biascicare ogni fottuta parola.
«E allora cosa ti ha spinto a ridurti così, se non è la voglia di scappare dai tuoi problemi, di qualsiasi genere essi siano?» Sembra avermi analizzata per bene, ma non voglio dargliela vinta.
Dopotutto neanche mi conosce, non sa quello che ho passato durante la mia misera vita, non sa quanto male mi faccia il cuore ogni volta che vedo mia madre impassibile difronte alle mie lacrime, non sa niente.
«Volevo divertirmi» sussurro, con la voce che trema impercettibilmente.
«Riducendoti in questo stato?»
«Sto benissimo» ribatto, indispettita, gettando il mozzicone della sigaretta lontano da me e sbattendo ripetutamente le ciglia per allontanare la nebbia dal mio cervello.
«Lo vedo» il sarcasmo fa da padrone nella sua voce e, persino da sbronza, riesco a notarlo.
«Scusa, ma qual è il tuo problema? Nemmeno mi conosci» Lo zittisco bruscamente, portando il silenzio di nuovo tra noi e maledicendomi per essermi innervosita al suo modo di psicoanalizzarmi, mettendomi a disagio e con le spalle al muro e facendomi sentire una completa idiota.
Ho paura che si sia offeso e che a momenti decida di andarsene, lasciandomi sola e io non voglio stare sola. Una cosa è chiedere di essere lasciata in pace quando sono scazzata, l’altra è chiedere di restare soli. Nessuna persona sana di mente lo farebbe mai, perché l’uomo è principalmente un egoista e ha bisogno di attenzioni, cure, affetto, amore.
Sento la testa riprendere a pulsare e mi ritrovo, controvoglia, a chiudere gli occhi e a sfregarmi per un secondo il volto con le mani gelide. Appoggio il capo sul bracciolo della panchina e guardo in alto, non riuscendo a scorgere neanche una stella, per poi riportare lo sguardo su di lui, che si guarda intorno.
Diversamente da quanto mi spettassi, poco dopo lo vedo voltarsi totalmente verso di me, accovacciata all’angolo della panchina -una cogliona che non riesce a smettere di guardarlo-, e tentennare un sorriso.
«Sei venuta qui con qualcuno?» si passa ingenuamente una mano tra i capelli, inconsapevole dell’effetto che può fare un gesto del genere su una povera disgraziata ubriaca che per poco non si mette a sbavare.
«Può essere. Perché?» Rispondo un po’ sulla difensiva, aspettandomi di tutto tranne questa domanda.
«Perché devo andarmene, ma non posso lasciarti qui da sola» dice, facendo una smorfia.
E anche io al pensiero che mi abbandoni qui inizio a disperarmi dentro.
«Quando ti sei avvicinato ero da sola. Cosa ti fa pensare che adesso io abbia bisogno di una balia?» getto quelle parole tanto coraggiose quanto faticose tutte d’un fiato. L’orgoglio è una seconda pelle.
«Non lo so» aggrotta la fronte, come se cercasse di dare una risposta prima a se stesso e poi a me.
«Bella risposta del cazzo» gracchio, sbuffando.
«Sei molto scurrile, sai, ragazzina?» Sorride sinceramente divertito dai miei improvvisi e continui sbalzi d’umore.
«Non mi chiamare ragazzina. Ho diciassette fottutissimi anni, non cinque!» inizio a sentire la tensione salite e aumentare lungo il mio corpo.
Non sono una bambina, non ho bisogno che qualcuno badi a me, perché me la sono sempre cavata da sola e se sono ancora in piedi un motivo ci sarà.
Ma potresti cadere e non riuscire a rialzarti…, sussurra una lontana vocina nella mia testa. In quel caso avrai bisogno di qualcuno che ti guidi, che ti aiuti a salvarti.
«Non si direbbe, minuta come sei» mi esamina, forse più del dovuto, facendomi una vera e propria radiografia che mi fa arrossire come una deficiente. «E io ne ho venti, perciò in confronto a me sei comunque una ragazzina»
«Sì, in effetti adesso che me lo fai notare hai parecchi capelli bianchi» affermo ironicamente, sperando di vederlo sorridere allo sfinimento.
«Sei ubriaca» constata brillantemente lui, guardandomi in modo penetrante.
«Non esattamente» cerco di negare l’evidenza.
«Forza, alzati. Ti riporto a casa» ribatte, alzandosi di slancio in piedi e porgendomi una mano per aiutarmi a fare lo stesso.
«Ma tu non sai dove abito» dico come un’idiota, ammirando la sua figura slanciata. Sembra così alto da riuscire a toccare il cielo alzando semplicemente il braccio.
«E’ per questo che devi darmi il tuo indirizzo» sorride divertito per la centesima volta, facendo fare al mio cuore un triplo salto mortale.
«No che non ti dico dove abito!» mi infervorisco di colpo, dandomi mentalmente della pazza.
Stai davvero socializzando con uno sconosciuto? Ma sei impazzita?!
«Vuoi restare qui tutta la notte?» inarca le sopracciglia, come se quello che sta dicendo sia la cosa più logica e sensata del mondo.
«Sono venuta con un mio amico» borbotto nervosamente, seguendo con lo sguardo ogni sua movenza per non essere colta di sorpresa.
«Beh, io non vedo il tuo amico da nessuna parte» si morde il labbro inferiore sovrappensiero, puntando gli occhi verso l’entrata della discoteca.
«E’ ancora dentro, perché aveva voglia di ballare un altro po’» dico a disagio, prevedendo già quello che mi dirà.
«E ti ha lasciata allontanare da sola a quest’ora?» Sembra a dir poco schifato dal comportamento del mio amico e la cosa mi infastidisce.
Non è colpa di Manuel se sono corsa fuori, non è colpa sua se mi sono ridotta così, perché di certo non mi ha costretta a ingerire tutti quei drink, non mi ha minacciata, mi ha lasciata libera di fare quello che voglio. E’ colpa mia.
«Gli ho detto io di restare dentro» sbotto, fulminandolo con lo sguardo.
«Guarda che da queste parti ci sono davvero persone poco raccomandabili, non scherzavo sui brutti ceffi» ribatte con il viso contratto in una smorfia preoccupata.
«Tu sei raccomandabile?» sento le mie labbra chiedere a bruciapelo.
I miei occhi si intrecciano ancora ai suoi, desiderando poter rimanere così per sempre.
«Può essere» ripete le stesse parole che ho usato io poco fa, mentre gli occhi vengono attraversati da un lampo di puro divertimento.
«Non credo proprio che mi farò accompagnare a casa da uno sconosciuto» una risata strana e imprevista invade il mio corpo, scuotendolo deliziosamente.
Mi passo la mano tra i capelli, sperando che qualcosa nei miei modi goffi e indecisi lo colpisca, come è successo a me con i suoi. Vorrei che non mi etichettasse come la ragazzo ubriaca sulla panchina, vorrei essere per lui ‘la ragazza carina, ubriaca e simpatica sulla panchina’.
«Mi chiamo Matteo» mi porge nuovamente la mano, che stringo di slancio con la mia. Sento il calore del suo corpo, la stretta decisa e sicura, gli occhi che non accennano ad interrompere il contatto con i miei e un brivido mi percorre la schiera, facendomi rabbrividire. «Adesso che non sono più uno sconosciuto, alzi il culo da questa panchina così prima ti riaccompagno a casa prima posso andare a dormire, che sono distrutto?»
«Ma perché ci tieni così tanto? Non mi conosci nemmeno» il suo tono lievemente esasperato mi rimette sulla difensiva.
«Non lo so il perché» risponde confuso.
«Odio le tue risposte del cazzo» grugnisco, tirando fuori un’altra sigaretta dal pacchetto.
«Smettila di dire parolacce, ragazzina» mi rimprovera, mentre gli angoli delle labbra vanno verso l’alto.
«Smettila di chiamarmi ragazzina» la mia voce sembra proprio quella di una bambina di cinque anni: petulante, stridente e fastidiosa.
«Smetterò di chiamarti ragazzina quando me ne sarò tornato a casa mia, possibilmente entro l’alba altrimenti mio padre mi fa il culo a strisce» ridacchia, tornando a sedersi di nuovo sulla panchina, ma stavolta vicino alle mie gambe accovacciate quasi fino al petto.
Sento le punte delle mie scarpe sfiorare il suo braccio.
«E allora vai, cosa ti impedisce di andartene?» sussurro con una tristezza che non ho mai sentito nella mia voce. Non posso essere stata io a parlare così; quel suono strozzato e soffocato dal dolore, causato da questa vita che mi sta scomoda, non può essere mio.
«Una ragazza brilla, anzi totalmente ubriaca, quasi stesa su una panchina» vedo chiaramente le sue labbra allungarsi in un tenero sorriso e la prima cosa che la mia mente registra è lo strano pensiero che l’attraversa: vorrei baciarlo.
Voglio sentire se le sue labbra sono morbide al contatto con le mie, voglio sentire il sapore di quel sorriso dolce e disarmante, voglio ascoltare il suo respiro infrangersi e scontrarsi con il mio.
Quando lo vedo allungarmi di nuovo l’accendino, mi ricordo di colpo della sigaretta che stringo tra le dita e di cui mi ero completamente scordata, presa com’ero da altri pensieri poco casti.
«Lo sai, mi piace il tuo accendino. E’ del mio colore preferito» mi ritrovo a dire inconsciamente.
«Puoi tenerlo se ti decidi ad alzarti da questa cavolo di panchina»
Faccio per accendermi la sigaretta, ma mi blocco di scatto a quelle parole.
«Mi stai regalando l’accendino?» domando allibita e so per certa di avere gli occhi sgranati.
«No, lo sto negoziando» mi fa l’occhiolino, provocandomi una morsa allo stomaco.
Dio, non può fare così, non può sorridermi in quel modo, non può restare così vicino a me, non può farmi l’occhiolino o stringermi la mano con la sua calda e confortante. Ne va della mia sanità mentale. Dopotutto, cosa si aspetta che io faccia? Sono una stupida ragazzina ubriaca che ha bisogno di qualcuno, ma non di chiunque.
«Se mi alzo diventa mio?» la mia voce vibra per l’emozione.
«Esattamente» conferma lui.
«Nessuno mi ha mai fatto regali, eccetto per il mio compleanno» mi ritrovo a confessargli, spinta da un’innocenza genuina e da una realtà dura.
«Bene, consideralo un regalo allora»
«Non avevi detto che era un modo per negoziare con la mia pigrizia?» gli faccio la linguaccia, sentendomi improvvisamente su di giri, come se l’alcol nel mio corpo avesse ripreso a circolare ad una velocità triplicata.
«Ho cambiato idea»
Non rispondo subito, poiché mi prendo un po’ di tempo per studiare e rigirarmi tra le mani quell’inaspettato regalo, per poi stringerlo convulsamente tra le dita.
«Sei strano» sussurro alla fine, alzando lo sguardo su di lui, che a sua volta guarda me.
«Anche tu» mi sorride e potrei morire per l’intensità, ma soprattutto per la velocità con cui il mio cuore batte.
Non sono mai stata una persona romantica. Non so neanche che cosa sia il romanticismo, ma so cosa sono le emozioni e so riconoscerle. Il battito assordante del mio cuore ne è la dimostrazione, riesco a sentirne l’eco persino nelle orecchie; sembra come se volesse uscire dal petto, la gabbia in cui è rinchiuso e tenuto a bada.
«Oltre che carino» bisbiglio, senza pensare, forse più a me stessa che a lui.
Stupito dalle mie parole, quasi quanto lo sono io, mi perfora con i suoi occhi dannatamente verdi e non riesco minimamente a capire cosa gli passa per la testa.
«Un cattivo ragazzo potrebbe essere incoraggiato da queste tue parole, sai?» si allontana lentamente da me fino a raggiungere l’altra estremità della panchina.
«Matteo perché ti trovavi qui?» Cambio improvvisamente discorso, sentendo che la strada intrapresa era troppo spinosa da affrontare.
Cosa diavolo mi è saltato in mente?!
«Sono venuto con degli amici per passare una serata diversa» risponde tranquillamente.
«In che senso diversa?» Porto la sigaretta alle labbra ed inspiro pesantemente.
«Hai seriamente voglia di parlare qui, su questa panchina?» Non sono sicura se il suo tono è irritato o divertito.
«Sì»
Alza gli occhi al cielo, chiaramente esasperato. «Lo sai che l’accendino è ancora mio, vero?»
«Tu rispondi» lo metto alle stretta, sperando che la nostra chiacchierata si concluda il più tardi possibile. O meglio ancora: mai.
«Diversa perché solitamente non vengo molto spesso qui, non mi piacciono le discoteche»
«Perché no?» La curiosità fa da padrona.
«E’ un interrogatorio o sbaglio?» Inarca le sopracciglia, guardandomi di sbieco.
«Forse, però poi ti concedo di farmi altrettante domande» ridacchio, sedendomi per stare più comoda e in un certo sento più vicina a lui.
«Chi mi assicura che sarai sincera nel rispondere alle mie domande?»
«Sveglia Matteo, sono ubriaca!» Esclamo ridendo più forte, come un’idiota.
«Odio le discoteche perché non sopporto quella musica spazzatura che sfonda i timpani, sono un tipo piuttosto asociale e non so ballare» abbozza l’ennesimo sorriso sghembo.
Ma che ragazzo allegro!
«Come si fa a non saper ballare?» chiedo istintivamente e senza riflettere mi ritrovo in piedi con la mano protesa verso di lui.
«Non ci pensare nemmeno» dice senza scomporsi minimamente.
«Avanti» bisbiglio, porgendogli anche l’altra mano, gettando la sigaretta lontano da me.
«Se il tuo intento è quello di farmi ballare, ti assicuro che è tutta energia sprecata» scoppia a ridere. «Ma ti sei alzata dalla panchina e apprezzo il gesto» ribatte sarcastico.
«Dai balla con me, ti prego» mi ritrovo ad implorarlo con lo sguardo. Più che altro desiderosa di sentire le sue braccia intorno a me e di avere il suo viso ad un palmo dal mio; voglio sentire la fragranza del suo profumo e poter essere libera di inalarla in quantità industriale.
«Ragazzina, sei una palla al piede quando ti ci metti» nonostante le parole però, si alza in piedi, sovrastandomi con il suo corpo.
«Devi semplicemente lasciare al tuo corpo la libertà di muoversi come vuole» mi ritrovo con le braccia sulle sue spalle ad ondeggiare e a muovermi con poca stabilità ed equilibrio.
Il mio avanzare indeciso lo porta a circondarmi i fianchi con le mani e a trascinarmi più vicina a lui, in modo da potermi afferrare nel caso le gambe mi cedessero.
Ma non mi importa un fico secco di tutto il resto, perché finalmente riesco a sentire il suo profumo maschile che mi manda in tilt il cervello.
Sposto le braccia sulla base del suo collo, per poi allacciarle dietro la nuca; tengo gli occhi chiusi e mi muovo con lentezza e a tempo di una musica che in realtà è solo nella mia testa, e sorrido perché lui fa lo stesso, seguendo i movimenti del mio corpo senza fiatare.
«Sai, sei una ragazzina troppo ingenua e sconsiderata. Mai comportarti così con un estraneo, perché non sai mai quello che gli passa per la testa» mormora contro la mia fronte.
«A te cosa passa per la testa?»
«Credimi, non vuoi saperlo davvero» sento la sua risatina sommessa scuotergli il petto.
«Sì, invece» sono sempre stata testarda, adesso più che mai.
«Ho voglia di baciarti» sussurra direttamente al mio orecchio, incendiandolo. Sussulto a quelle parole che, neanche tanto inconsciamente, speravo di sentirgli dire.
«Perché non me lo chiedi allora?» azzardo un altro po’, senza alcuna inibizione, avvicinandomi maggiormente al suo corpo. Sento un ronzio nelle orecchie, ma non ci faccio caso più di tanto, perché troppo impegnata a cercare il suo sguardo.
«Chiederti cosa?» domanda, aggrottando la fronte.
«Se ho voglia di baciarti anche io. E’ il tuo turno per le domande» abbozzo un sorriso, sperando che sembri almeno un po’ sensuale. Anche se non ho mai trovato che questo aggettivo fosse adatto a me; pagliaccio, strana, rincoglionita mi descrivono meglio, ma non sensuale. Non sono bella, sono normale, credo.
«No, non te lo chiederò» ribatte rapidamente, sorprendendomi.
«Perché no?»
«Perché non mi approfitto delle ragazze ubriache, quindi niente baci» appoggia la fronte sulla mia e sento la stretta delle sue braccia aumentare e stringermi a sé, come se la sua mente dicesse una cosa mentre il suo corpo facesse esattamente l’opposto.
«E se fossero le ragazze ubriache ad approfittarsi di te?» mi ritrovo inconsapevolmente a fissare le sue labbra con una brama che non avrei mai creduto mi appartenesse.
«Sei una sfacciata» scoppia a ridere di gusto, soffiandomi sul viso.
«Tu rispondi.»
«In tal caso credo che farei uno strappo alla regola e mi godrei il momento per cinque secondi netti, prima di allontanarla. Sono pur sempre un uomo e la carne è debole» con un gesto inaspettato, mi accarezza il capo e sposta una ciocca dei miei capelli ribelli dietro l’orecchio, senza staccare mai gli occhi dai miei.
Ci sto prendendo gusto a guardare il mio riflesso nelle sue iridi chiare.
«Posso baciarti?» I miei pensieri prendono forma, senza essere prima filtrati.
Sono certa che domattina mi vergognerò da morire per le mie parole e tutte le stronzate fatte, ma in questo momento, con lui che mi tiene stretta tra le sue braccia, mi sembrano solo inutili seghe mentali e tempo sprecato in pensieri.
«Pensavo che fosse arrivato il mio turno per le domante» sento il suo sussurro infrangersi tra i miei capelli, facendomi rabbrividire. E anche se non riesco a vederlo, sono sicura che in questo momento sta sorridendo.
«Non vuoi?» sussurro con voce delusa.
«Non è questo il problema, te l’ho detto. Probabilmente domattina te ne pentiresti, perciò non è il caso» mi scompiglia i capelli, prima di allontanarsi definitivamente da me, mettendo così fine al nostro strano ballo.
«No, non credo» credo di essermi imbronciata per il rifiuto, ma non ne ho la certezza, poiché la mia testa ha iniziato a girare pericolosamente.
Vedendo che ho bisogno di appoggiarmi alla panchina per non cadere bellamente a terra, sospira e mi lancia uno sguardo indecifrabile.
«Avanti ubriacona, andiamo a prendere un taxi» senza preavviso -non fa che stupirmi- mi prende per mano, trascinandomi con lentezza verso la strada, facendo segno ad un taxista di fermarsi.
«Sicuro di non essere una persona con cattive intenzioni?» punto i piedi a terra.
«Cos’è, hai paura?» trattiene malamente una risata, cercando di nasconderla con dei finti colpi di tosse.
«Non lo so» mi mordicchio le labbra, ritornando ad essere nervosa.
«Prendi il telefono e avvisa il tuo amico di uscire dal locale, così viene con noi anche lui e tu ti tranquillizzi» è il suo modo di rassicurarmi.
«Non lo sentirà mai» faccio una smorfia.
«Tu prova comunque a mandargli un messaggio»
Gli do retta, per la semplice soddisfazione di vederlo sorridere ancora, così recupero il mio telefono dalla tasca della giacca e mando un messaggio a Manuel.
«Non risponde»
«Allora digli ugualmente che ti fai accompagnare dal tuo amico Matteo, così non si preoccupa» i suoi modi di fare dolci mi fanno attorcigliare le budella, in quella che è una morsa tremendamente deliziosa.
«Siamo amici?» la mia voce si affievolisce, poiché le sue dita si intrecciano improvvisamente alle mie.
«Credevo che le tue domande fossero finite quando hai cominciato a ballare da sola come una svitata» la butta sullo scherzoso lui.
«Ehi, non mi dare della svitata, stronzo!» sbotto, infervorita.
«Ragazzina, quante volte ti devo ripetere…» lo vedo chiaramente roteare gli occhi e aumentare la stretta della sua mano.
«Porca miseria, smettila di chiamarmi ragazzina! Guarda che io ho un nome» il mio muso diventa chilometrico, rendendomi conto solo adesso di avergli praticamente confessato di volerlo baciare, quando lui nemmeno conosce il mio nome.
«Ma io non so qual è» dice appunto.
«Carola»
«Bene, allora: Carole smettila di imprecare» non sorride, ma i suoi occhi sono attraversati da un lampo divertito. «Bel nome comunque.»
«Grazie» mi ritrovo le guance in fiamme.
Il silenzio cala su di noi, mentre prendiamo posto sui sedili posteriori del taxi.
Mi domando mentalmente se non sto facendo l’errore più grande di tutta la mia vita, fidandomi ciecamente di un ragazzo conosciuto neanche un’ora fa, ma smetto di pensare immediatamente quando sento il suo braccio circondarmi e avvicinarmi a sé con fare protettivo.
Appoggio la testa sulla sua spalla e il mio respiro diventa più regolare che mai; chiudo gli occhi e mi lascio cullare dalla sua dolcezza, così rara e genuina da avermi conquistata fin da subito.
«Dove vi porto, ragazzi?» la voce grave del taxista mi riporta bruscamente alla realtà.
Su una stella, penso stupidamente.
Così mi ritrovo a dare l’indirizzo all’uomo dalle sopracciglia minacciose e a guardare di sott’occhi il ragazzo al mio fianco, sperando che non mi colga di sorpresa proprio mentre sbavo per lui come un’adolescente in piena fase ormonale.
Aaah, cosa fa l’alcol!
«Cosa fai nel tempo libero?» Matteo prende a giocherellare tranquillamente con una ciocca dei miei capelli rossi.
«Guardo il cielo, amo le stelle» rispondo senza paura di essere presa per pazza.
Non mi importa se il taxista mi guarda in modo strano dallo specchietto retrovisore, non mi interessa se la mano di Matteo si è bloccata di colpo, come se non si aspettasse questo genere di risposta.
«Futura astronoma?»
«No, non credo. Non so che mestiere farò da grande» sbuffo, ripensando a quanto mia madre rompa i coglioni con la questione ‘medicina’. Non potrò mai studiare medicina, non è quello a cui aspiro, non è quello che mi fa stare bene, non è il lavoro che mi piacerebbe fare per il resto della mia vita; ma lei non lo capisce e continua ad insistere, senza considerare minimamente i miei sogni e i miei desideri, solo e unicamente perché si sa che chi intraprende gli studi di medicina e riesce a sopravvivere fino alla fine, laureandosi, è sistemato a vita.
Tu hai dei sogni?
Che me ne faccio dei soldi a palate? Riuscirebbero a rendere la mia vita meno deludente, meno vuota, meno buia?
«Sì, in effetti sei ancora una ragazzina. Hai un altro po’ di tempo per le decisioni importanti» alle sue parole provocatorie reagisco come un uragano, senza riflettere minimamente. Gli tiro una potente gomitata nelle costole e non mi importa minimamente se gli ho fatto male, perché sono stufa di sentirlo darmi della ragazzina; mi fa sentire piccola, ingenua, docile e dannatamente fragile.
Io non sono fragile.
Per tutta risposta ride sguaiatamente, prima di riprendermi tra le sue braccia.
 
 
 

 

***

 
 
 
Una volta arrivati nel mio quartiere, il taxi si ferma difronte casa ed io mi ritrovo a pensare che in questo momento avrei voluto essere da tutt’altra parte. Rimarrò di nuovo sola e passerò il resto della notte sveglia, non riuscendo a dormire, riempiendomi la testa di domande a cui non darò mai una risposta, domande a cui non troverò mai una risposta.
Il cielo è nuvoloso, di un grigio-nero davvero triste e deprimente, delle stelle non c’è traccia e l’aria umida è fastidiosa.
Scendo dal taxi giallo con passo malfermo e mi dirigo contro voglia verso il portone di casa, senza voltarmi indietro.
Non so nemmeno se Matteo mi abbia seguita, quello di cui sono certa però è che molto probabilmente non lo rivedrò e ripenserò a questa strano serata con nostalgia, perché tutto sommato sono stata bene in un modo in cui non lo ero da tempo.
«Ehi ragazzina!» Mi richiama una voce non molto lontana da me.
Con stanchezza mi volto verso Matteo e, inaspettatamente, lo trovo a pochi passi da me, intento a sorridere come sempre.
«Hai dimenticato questo» allunga il palmo della mano destra su cui c’è l’accendino rosso e solo in questo momento mi ricordo del regalo da cui difficilmente mi allontanerò nei prossimi giorni.
Sono certa di avere gli occhi lucidi, ma non so se per l’effetto dell’alcol ancora in circolazione nel mio corpo o per l’emozione del gesto tenero, di cui solitamente non sono mai la protagonista.
La gente non si preoccupa di certi dettagli con me, mentre per la sottoscritta fanno la differenza.
E solitamente non mi fido delle persone, non mi fido perché finiscono sempre per spezzarmi il cuore, ma questo non vuol dire che io non abbia bisogno di qualcuno di cui fidarmi. Ho bisogno di affetto, di gesti genuini, di sorrisi… E Matteo di sorrisi ne è pieno.
«Grazie» dico con voce tremante, avvicinandomi a lui per poi stringere tra le dita quel piccolo aggeggio.
«Di niente» il suo sorriso si allarga ancora e mi contagia inevitabilmente. «Allora buonanotte.»
«Aspetta!» alzo la voce istericamente, quando noto che si sta allontanando piano piano, un passo alla volta indietro.
Mi lancia uno sguardo strano, ma si arresta sul posto.
«Che cosa c’è?»
«Mi abbracci?» sussurro di getto, senza pensare minimamente.
Non voglio che mi lasci così, non voglio sentire il freddo intorno a me, non voglio sentire il vuoto divorarmi lentamente lo stomaco e allargarsi dentro di me.
Voglio sentire delle braccia calde avvolgermi, voglio che un odore buono e famigliare mi riempia le narici.
«Tu mi vuoi proprio morto, eh?» ridacchia, passandosi una mano tra i capelli con indecisione.
Non insisto con le parole, ma resto immobile sperando che si avvicini e non mi lasci sola.
Sola.
Che brutta parola.
Vedendo che non fa neanche un passo, rimanendo semplicemente a guardarmi negli occhi, come se volesse leggermi dentro per capire cosa attraversi la mia mente, la parte illogica del mio cervello decide di agire, così in men che non si dica mi ritrovo con le braccia intorno al suo busto e la testa sul suo petto.
Dio, quanto sono belli gli abbracci!
Così rassicuranti che sembra ti sussurrino ‘Andrà tutto bene, ci sono io con te’.
Dopo alcuni secondi di sorpresa mista a indecisione, sento le sue braccia avvolgersi intorno al mio corpo e il suo mento sulla testa.
«Sei proprio svitata, lo sai?» la sua voce è così dolce, che mi ritrovo a chiudere gli occhi con forza e a respirare a pieni polmoni il suo odore.
Sento il battito leggermente accelerato del suo cuore rimbombarmi nell’orecchio e la consapevolezza che stia battendo per me mi manda su di giri, facendomi perdere del tutto la concezione dello spazio e del tempo.
«Sei ancora sicuro di non volermi baciare?»
«Sei tremenda!» Scoppia a ridere, allontanandomi da sé.
Mi maledico mentalmente per aver aperto bocca, quando potevo benissimo potuto stare zitta e beata tra le sue braccia.
Quello che non mi aspettavo però, una volta lontana dal suo calore, è sentire un nuovo fuoco ma stavolta sulle labbra: le sue che si poggiano lievemente sulle mie, per poi allontanarsi un secondo dopo.
Sbatto le ciglia, stupita del groviglio di sensazioni che sento dentro di me, e metabolizzo il suo bacio, così leggero da non sembrare neanche reale.
«Tu quello lo chiami bacio?» sbuffo, con finta delusione ad imporporare la mia voce.
I suoi occhi guizzano di divertimento, mentre io mi riavvicino lentamente a lui, perché mi attrae come una calamita e non riesco a reprime questo desiderio inappropriato.
«Te l’ho detto che non approfitto delle ragazzine ubriache»
«Ma vaffanculo!» sbotto, poco prima di fare la stronzata che mi passa per la testa.
Come dotate di volontà propria, le mie mani corrono sulle sue guance e la mia bocca si tuffa a capo fitto sulla sua. Desiderio, calore, pienezza, insicurezza, confusione, sollievo.
Le mie palpebre sono pesanti e chiudo gli occhi assaporando il momento.
Diversamente da quello che mi aspettavo, non mi respinge; mi attira più vicino, poggiando le mani sui miei fianchi e schiudendo le labbra, uccidendo definitivamente il mio cuore che è schizzato alle stelle.
La sua lingua gioca piacevolmente con la mia, in un movimento sensuale e piacevole che mi fa rabbrividire con violenza. La sue guance sono morbide, ma le mie braccia si muovono istintivamente verso il suo collo, che circondo con piacere per poi prendere a giocare con i suoi capelli.
Il bacio dura troppo poco per i miei gusti, così mi ritrovo con la sua fronte poggiata sulla mia e i suoi occhi intensi intenti ad incantarmi.
Mi manca il respiro, difatti il mio petto si solleva rapidamente, ma noto con piacere che anche lui ansima.
«Erano più di cinque secondi» bisbiglio ridacchiando, avvicinandomi nuovamente alle sue labbra.
Sono così morbide, calde, deliziose…
«Già…» il suo è un flebile sussurro, prima che le nostre bocche tornino a cercarsi e a divorarsi a vicenda.
E mi sento a casa, mi sento euforica, la prima volta dopo tanto tempo mi sento stranamente felice.
Eppure non so niente di lui, non ho la più pallida idea di dove abiti, di che lavoro faccia, come occupa il suo tempo libero, quello che gli piace leggere, guardare in tv, al cinema. Non ho la più pallida idea di quale sia il suo gusto preferito di gelato o quale sia la sua bevanda preferita, ma mi piace il suo modo di fare, la sua voce, il suo odore che mi perseguirà per notti intere.
E’ come se avessi i suoi sorrisi incastrati tra i miei occhi, non me ne dimenticherò mai.
«Okay, basta» mi allontana di scatto da sé, sorridendo accattivante e sfiorandosi il labbro inferiore con il pollice. «Non è il caso di continuare.»
«Guastafeste» ammicco senza ritegno, poiché ormai il mio cervello è partito per la tangente.
Fa dei passi indietro, prima di arretrarsi di nuovo.
«Toglimi una curiosità» inizia a dire con la fronte accigliata. «Baci tutti i ragazzi che si avvicinano a te con una banale scusa?»
Alle sue parole scoppio a ridere di gusto, rischiando così di svegliare tutto il quartiere.
«Credevo che tu non avessi bisogno di questi mezzucci per attaccare bottone con una ragazza.»
Sorride colpevole e lievemente imbarazzato, aspettando una mia risposta.
«No, non bacio tutti… In effetti, sei il mio primo bacio» rispondo imbarazzata, sentendo le gote andare a fuoco per la vergogna.
Sgrana gli occhi, scioccato dalla mia risposta. «Mi stai dicendo una stronzata?»
«No!» ribatto con sdegno alla sua insinuazione.
«Era davvero il tuo primo bacio?» l’incredulità gli dipinge la voce.
«Così sembra» cerco di non dargli a vedere quanto questo mi metta a disagio.
«Hai diciassette anni…» Inizia a dire, prima che io lo interrompa di colpo.
«Lo so, ma sono una tipa piuttosto asociale anche io» sbotto, cercando le chiavi di casa nella tasca della giacca.
Perché iniziare a parlare della mia inesperienza? Cosa gli interessa? Molto probabilmente non ci rivedremo mai più.
Non avrei mai confessato a nessuno di essere una piccola nerd infelice, se non fosse che il mio cervello è offline in questo momento e il mio cuore pompa ad un ritmo eccessivo.
«Mi sembra però che abbiamo socializzato bene» sorride malizioso, stupendomi perché pensavo che mi avrebbe presa in giro e se ne sarebbe andato ridendo di me; anzi, ne ero convinta.
«Buonanotte, ragazzina sfacciata» si riavvicina a me in un battito di ciglia e mi lascia un bacio sulla fronte che mi scalda il cuore; accenna l’ennesimo sorriso, prima di arretrare lasciandomi infreddolita. «Ci vediamo domani, quando sarai lucida e consenziente e ti imbarazzerai da morire per stanotte.»
Mi ritrovo a sorridere come un’ebete, appoggiata con la schiena alla porta di casa, gli occhi lucidi e vivi come non lo erano da tempo.
Un promessa, la sua.
Mai più sola.

 












 

Buonasera :)
Allora, inizio col dire che spero con tutta me stessa che questa one shot vi piaccia, perché c’ho messo davvero tutta me stessa nello scriverla.
Spero anche che vogliate lasciarmi una piccola recensione, un commento sulla vostra prima impressione a riguardo, magari un consiglio o una critica :)
Grazie a chiunque decida di farlo, ma soprattutto grazie a tutte quelle sante che dedicano anche solo un briciolo del loro tempo nel leggere quello che scrivo.
Un bacio,
Maky

  
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