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Autore: __blackbird    15/04/2013    6 recensioni
Avrebbe donato qualsiasi cosa, ogni ultimo sospiro, ogni ultimo respiro, ogni primo amore, ogni prima passione, ogni rimpianto e ogni vittoria per un frangente di quella risata.
Attese. Attese lo scambio.
Voltò pagina.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sebastian Smythe
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PHOTOGRAPHS

 
 

 

A Thousand Years - Instrumental
Together we will live forever - Clint Mansell
Per Alice che non si sa come, riesce ancora a sopportarmi. 

 

 

Si sedette sulla poltrona, rimanendo per qualche istante a fissare la delicata ed elegante trama del tessuto in cui era avvolta. Sorrise al ricordo, lasciandosi sfuggire un sospiro che si perse tra gli intrecci color avorio e le pennellate di bronzo, assopendosi sull’album di fotografie che teneva stretto tra le dita.
Chiuse gli occhi e prima che le sue pupille rivedessero la luce del salone, passarono innumerevoli secondi, scanditi fastidiosi dall’orologio contro la parete. Il tempo passava.
Le iridi verdi si abbandonarono sulla copertina blu cobalto, dove due lettere dorate si inorgoglivano del loro carattere raffinato, l’una testarda nel voler sovrastare l’altra, ma consce entrambe di essere così belle solo se affiancate insieme. Sorrise ancora una volta.
L’orologio tossì altri sei minuti, prima che le sue dita decidessero di aprire l’album, agitate e scalpitanti, con il solo unico desiderio di poter sfiorare quelle fotografie.
Di far tentennare i polpastrelli sui bordi affilati, di accarezzare i rosa porcellana e gli azzurri cielo, di sfiorare mani aggraziate e labbra imbronciate, di baciare sorrisi e carezze.
Sebastian guardò davanti a sè, gli occhi tentarono di costringerlo a farli scivolare sulle prime foto, ma gli intimò con sussurri imploranti un altro minuto. Uno solo ancora.
Non era delle prime foto che aveva timore; erano le piccole frasi che si trovavano impresse nella prima pagina, violente e leggere, dolci e terribili, eterne e mortali, che lo avrebbero distrutto in un solo loro respiro.
Doveva ignorarle, o il suo piccolo viaggio sarebbe giunto alla sua fine ancor prima di aver mosso i primi passi. Così le sue mani lo assecondarono, caritatevoli e addolcite dal suo cuore sanguinante, e girarono la prima pagina, nascondendo alla sua vista impaurita quelle parole.
Poi una di esse si alzò, per accarezzargli il viso teso e affaticato, facendolo rilassare in un debole sorriso, dopo che il palmo si unì alla sua guancia.
Come se non conoscessi ogni ghirigoro intorno alle sue lettere, ogni mio punto fintamente infastidito, ogni suo cuore disegnato, sopra le mie i impersonali.
Abbassò lo sguardo, e l’orologio sembrò mormorare sollevato sopra il suo capo.
Le dita tremarono sulla carta color vaniglia, giungendo alla prima foto della pagina.
Non c’era alcun volto rapito dall’obiettivo; due corpi, impressi solo dal busto ai piedi si ritagliavano un angolo in alto a sinistra, tesi l’uno verso l’altro, vestiti da due lunghi impermeabili. Il vero soggetto della foto era una pozzanghera, e dal riflesso che offriva allo spettatore. Increspati dalle gocce di pioggia contro la pozza d’acqua, sfocati e imprecisi dal suo movimento indeciso, due volti si baciavano. Le sfumature bianche e nere non offrivano la possibilità di scorgere le loro espressioni, ma Sebastian ricordava ogni tinta sulle sue guance, ogni brillio dorato nelle iridi, ogni lentiggine sulle gote. I polpastrelli si mossero sulla superficie liscia come se volessero dipingere ogni colore ancora una volta, ridonargli una vita che respirava ormai solo nella sua memoria.
Li lasciò operare per qualche istante, perso e affascinato da quel ricordo, gli occhi che indugiavano sul loro disegno vano e silenzioso. Poi gli intimarono di lasciarli scivolare sulla seconda foto, e li assecondò, abbassando appena il volto.
E questa volta un altro tipo di riflesso bussò al suo campo visivo. Il suo stesso viso era impresso nella carta lucida, dormiente e rilassato, come se fosse al sicuro. Come se non avesse nulla da temere.
Era sdraiato su pantaloni dalla fattura unica, creati e modellati per il loro proprietario, e dallo stesso proprietario.
Color rugiada, offrivano al suo capo assonnato un cuscino che sembrava un manto di nuvole, morbido e confortevole.
E per quanto il pavimento di casa loro fosse duro e spesso gelido, non avrebbe sognato materasso migliore, né coperte più calde delle mani che lo accarezzavano sulle guance, né lenzuola più pregiate delle labbra che lo scaldavano con parole di miele. Solo il suo volto, e quel grembo. Null’altro.
Il resto della foto era terminato dal lavoro minuzioso e appassionato della sua mente, tanto da farlo rabbrividire nel caldo pomeriggio d’estate, dove il sole si affacciava nella stanza quasi timidamente.
“Abbiamo da finire un sacco di cose, la nostra tabella di marcia!”
“Taci.”
“Sebastian!”
“Taci.”
“Sebastian Smythe, lo giuro su Madonna, tu...”
“Ti amo.”
“Ok, ma solo cinque minuti.”
Una piccola risata, lieve come un sospiro di vento squarciò il silenzio, e le labbra si affaccendarono preoccupate per ritirarla nella morsa sicura della loro unione. Il silenzio nacque ancora una volta.
L’orologio iniziò ad agitarsi ancora, lasciando che i suoi ticchettii rimbombassero fastidiosi contro le sue tempie; lasciò che lo disturbassero per qualche altro minuto, prima che le sue mani si ribellassero al suo volere, cambiando pagina.
Una schiena, ampia ed esile al contempo, fiera e timida nello stesso medesimo istante, prendeva posto come protagonista della foto, dolcemente tesa verso la balaustra in pietra candida. Vagando lo sguardo verso l’alto, ecco il suo volto.
Un profilo si perdeva nell’orizzonte, ciglia nere si aprivano come sipari su uno sguardo che non poteva essere descritto a parole. Sebastian preferiva parlare di quello sguardo in battiti di cuore.
Conosceva mille vocaboli che non erano mai riusciti a giungere alle sue labbra, mille emozioni che la sua voce aveva taciuto, mille rimpianti che la sua mente aveva zittito.
Un’altra ancora, pregarono i suoi occhi. Basta, implorò la sua coscienza. Forza, sussurrò il suo cuore.
La Torre Eiffel sarebbe dovuta essere la protagonista della foto. Di una foto che tutti scattano, prima o poi nella loro vita, dove le persone sono talmente piccole da occupare una decina di pixel anneriti, lasciando la scena totale all’immensità della costruzione parigina.
Sorrise, scuotendo piano il capo indebolito dal passare insaziabile del tempo.
“Sali sulle mie spalle.”
“Sei pazzo?”
“Muoviti!”
“Sebastian, ci stanno già guardando come se avessimo tre gambe al posto di due.”
“Ma è così.”
“Sei imbarazzante.”
“Lo so. Muoviti.”
Gli aveva lanciato la sua miglior occhiata bieca; le palpebre quasi allineate, gli occhi iracondi, le sopracciglia ben tese su essi. E un sorriso sulle labbra che avrebbe dovuto stonare sotto quello sguardo fintamente scandalizzato, ma che si sposava con una grazia quasi inumana. Aveva allineato il petto alla sua schiena, avvolgendo le braccia intorno alle spalle, le gambe strette intorno al suo torso accaldato dall’estate e da qualcosa di stupido che amava chiamare felicità, e poi avevano cominciato a correre verso il loro fotografo improvvisato.
Che scattò, quasi spaventato dal loro gesto. La Torre continuava a posare, dietro di loro, arraffando quanti più pixel possibili, grigi e sfocati. I protagonisti erano loro, Sebastian momentaneamente accecato da mani ironiche e divertite, piacevolmente stordito da una risata che sembrò volteggiare nell’aria sbiadita della sala, ridonandogli i colori che aveva perso con l’avanzare dei giorni.
Avrebbe donato qualsiasi cosa, ogni ultimo sospiro, ogni ultimo respiro, ogni primo amore, ogni prima passione, ogni rimpianto e ogni vittoria per un frangente di quella risata.
Attese. Attese lo scambio.
Voltò pagina.
Le mani iniziarono a fremere, come colpite da uno spasmo insopportabile. Come se non riuscissero a trattenere quel formicolio, quella bramosia ardente, quella malinconia struggente, quel dolore che non accennava ad affievolirsi. Posavano tremanti su una foto che ritraeva solo una di loro, legata, saldata indissolubilmente con un’altra, più sottile e leggiadra.
Due anelli d’oro bianco brillavano, sfiorandosi con una timidezza nuova, tintinnando silenziosamente l’uno contro l’altro, orgogliosi della loro bellezza e del loro significato. La foto l’aveva scattata Sebastian, tenendo la macchina sopra i loro capi, immortalando le mani intrecciate davanti al piccolo altare sulla collina, strette nell’esiguo spazio tra i loro pantaloni di sartoria. Il pastore aveva tamburellato i piedi impaziente, quando ci vollero almeno dieci scatti prima che lui fosse soddisfatto del risultato; sarebbe potuto essere il compito del fotografo, ma a Sebastian piaceva infastidire le persone, anche se ormai era un trentenne. E non avrebbe accolto l’operato di nessun professionista, se in cambio gli fossero stati negati quelle occhiate nervose, quei borbottii infastiditi, quei sospiri divertiti del suo sposo.
Salutò la foto con un respiro spezzato e tremolante e concesse ai suoi occhi un’altra foto. L’ultima, mentì a se stesso.
Inspirò ed espirò quasi sollevato, come se il suo corpo non si fosse reso conto che quello scatto era crudele come tutti gli altri; solo feriva con più grazia, con più dolcezza, con più carità.
Ma il taglio non era certo meno profondo e sanguinante.
Ritratti, Sebastian e Jean avevano i volti rivolti alla finestra, seduti sulla sedia di vimini che prendeva orgogliosa posto in un angolo della camera da letto. Jean aveva la guancia poggiata al petto del padre, offrendo al fotografo solo parte del suo profilo, concedendo allo spettatore solo uno stralcio dei suoi occhi nocciola, della sua pelle color pesca, del suo naso dolcemente piegato all’insù.
Lo avevano adottato cinque anni prima; avevano concordato entrambi, stranamente, che il mondo era saturo di bambini abbandonati, neonati dimenticati, piccoli rifiutati. E che sarebbero stati i genitori perfetti di un adorabile bambino sperduto che non smetteva ogni giorno di stupirli, di ammaliarli, di sorprenderli.
“Jean è ora di andare a dormire.”
“Ma papino, nevica.”
“Nevicherà anche domani, ma se non riposi non avrai le forze per costruire il tuo pupazzo di neve.”
“E se la neve si scioglierà?”
“Non lo farà, amore.”
“E se un enorme ufo rubasse tutta la neve?”
“Non esistono gli ufo.”
“Sì che esistono.”
“Sebastian, non mi stai aiutando.”
La mano tornò ad alleviare le rughe sofferenti del suo volto, carezzandolo con calma misurata, mormorando con il proprio palmo di non affaticarsi, di non avere paura, di non crollare, di non rompersi in mille frammenti proprio davanti a quella foto.
Si regalò qualche secondo di silenzio, poggiando la testa alla poltrona, recuperando la compostezza e la serenità che aveva costruito con l’avanzare degli anni. Non era cambiato, quello non sarebbe mai accaduto, ma l’età aveva comunque fatto il suo corso, con i suoi mutamenti, i suoi addii, i suoi arrivederci.
Era Sebastian, anche se ormai non lo era più.
L’ultima pagina. Questa volta concordarono occhi, coscienza e cuore.
Si era sempre chiesto perché, mentre il suo volto invecchiava, mentre la sua pelle perdeva in parte la morbidezza di seta che amava vezzeggiare con baci e carezze, mentre le sue mani diventavano più stanche e lente, mentre il suo corpo si tendeva verso il basso, offeso dalla vecchiaia e dalla malattia, come poteva essere possibile che i suoi occhi paressero immortali.
Non avevano mai smesso di brillare, non avevano mai perso una sola sfumatura, non si erano mai lasciati sfuggire uno sguardo sinistro, una magia nel cielo, una lacrima commossa. Non avevano mai smesso di farlo innamorare ogni giorno, sapienti e impacciati, docili e altezzosi, ammalianti e sfuggenti.
Lui svaniva, su quel letto d’ospedale, e loro come fiere in libertà continuavano la loro corsa, selvaggi, liberi.
La morte non li intimidiva, la morte non li scalfiva, la morte non poteva irriderli, la morte aveva solo posato un velo su di loro.
Nient’altro.
Si erano nascosti sotto le palpebre di porcellana come se l’assenza di vita fosse troppo fredda per le loro iridi di ghiaccio, per le loro pupille profonde, per quell’oro e quell’azzurro, per quel verde e quel grigio. Per quelle sfumature a cui non era possibile offrire un nome che donasse loro giustizia.
I suoi occhi sorridevano nella foto rettangolare, come se fossero consci del fatto che Sebastian conoscesse il loro segreto. Quegli occhi vivevano dentro di lui, insieme a lui, con lui e per lui.
Insieme alle sue labbra, alle sue gote, alle sue mani, alle sue risate, alle sue urla, alle sue lacrime.
Era lì. Non era nelle foto; il suo cuore batteva due volte più rapidamente perché batteva per due; le sue mani erano più tremanti perché trascinavano la vecchiaia di due uomini insieme, la sua stanchezza era duplicata perché veniva sofferta da due anime contemporaneamente. Così la sua tristezza, il suo dolore, la sua resa, ma anche la sua forza d’animo, la sua sicurezza, la sua voglia di sorridere, la sua voglia di continuare a vivere.
Solo per un po’, sussurrarono ancora tutti e tre all’unisono.
Una piccola mano sfiorò la sua e trasalì, voltandosi verso sinistra.
“Nonno? Perché piangi?”
Sorrise alle iridi castane che ricambiarono un po’ incerte ma piene di calore, le manine strette intorno alla sua mano, rugosa e esausta.
“Mi è andata una ciglia nell’occhio, Elizabeth.”
“In tutti e due gli occhi?”
Rise, scuotendo la testa. Non poteva certo ingannare una piccola donzella che portava il nome della donna a cui doveva la sua felicità e la sua intera esistenza. Così sussurrò alla nipote di quattro anni, sorridendole con affetto e nostalgia.
“Mi manca nonno Kurt.”
“Anche a me. Ma lui non vuole che tu pianga.”
“Lo so, amore. Ma sai che non ho mai fatto quello che lui voleva.”
“E’ per questo che siete i miei nonni.”
Rise ancora, abbassandosi con fatica per posare un bacio sulla sua fronte.
“Esatto.”


Ehi 'Bas. 
Sì, sono io. Ovvio, è il nostro album, chi altro vuoi che sia?
Non guardarmi così, è perfettamente normale che io ti stia parlando attraverso questo foglio. 
Perché non mi ascolti mai, perché fai il contrario di quello che ti dico, perché adori vedere il mio viso stupito e arrabbiato.
E ti strozzerei perché non so mai in che direzione andrai, cosa farai, in quale modo ignorerai le mie parole.
E ti bacerei fino alla fine dei miei giorni proprio perché sei così, stupido, testardo, narcisista.
Non ascoltarmi mai. Stupiscimi ogni giorno, disubbidiscimi ogni giorno, punzecchiami ogni giorno, guardami così ogni giorno, per sempre. 
E io ti bacerò fino alla fine dei miei giorni. 
Sei tutto ciò che non ho mai desiderato, e sei tutto ciò di cui ho bisogno. 
Ti amo. 
Kurt Hummel Smythe.





Ok. Devo riprendermi un po' anche io, e non esattamente il perché. 
Ecco la mia schifezzuola per la Kurtbastian challenge, non ne sono molto convinta, ma ormai il danno e fatto. Spero vi piaccia, non ho molto da dire. 
Grazie a La Viola per il betaggio e fatemi sapere, mi raccomando. 

 

 
 

  
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