Film > Iron Man
Ricorda la storia  |      
Autore: vannagio    15/04/2013    24 recensioni
Conobbi Pepper diversi anni fa, quando tutti la chiamavano ancora Virginia ed io non avevo bisogno di trattenere il respiro davanti alle ragazze per nascondere la pancia.
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harold 'Happy' Hogan, Tony Stark, Virginia 'Pepper' Potts
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Elivelivolo e dintorni '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Per la serie…
“Quando vannagio vaneggia!”




Miss Pepper Potts




Conobbi Pepper diversi anni fa, quando tutti la chiamavano ancora Virginia ed io non avevo bisogno di trattenere il respiro davanti alle ragazze per nascondere la pancia. Sua sorella Carolina, col benestare di mia madre, ci aveva organizzato un imbarazzatissimo appuntamento al buio, conclusosi davanti a una mousse al cioccolato, con me che sfoderavo tutte le carte da incallito seduttore.
«Devo dirti la verità, Virginia. Ho una fidanzata».
Lei si bloccò col cucchiaio da dessert a mezz’aria. «Cosa?».
«Mi spiace tantissimo, so che devi sentirti presa in giro, ma credimi, non era mia intenzione ingannarti. Vedi, mia madre è una tipa… all’antica, diciamo. Se sapesse che frequento una ragazza nera le verrebbe un colpo. Quindi ogni tanto mi presto a questi appuntamenti per non destare sospetti».
Lei posò il cucchiaio sul piatto, raddrizzò la schiena e mi guardò dritto negli occhi.
«Caspita, è…».
«Da idioti, lo so».
Vigirnia scosse la testa, con decisione.
«No, intendevo dire che è… meraviglioso! Mi togli un grosso peso, perché non sapevo come dirtelo senza essere indelicata. Anch’io ho accettato solo per fare contenta Carolina. Non riesce a comprendere che al momento le mie priorità sono altre».
Certo, la mia autostima era colata a picco, ma almeno non dovevo sentirmi in colpa. Tirai il proverbiale sospiro di sollievo ed entrambi finimmo la nostra mousse a cuor leggero.
«Cosa ne pensa la tua fidanzata di questi appuntamenti di copertura?», mi chiese Virginia più tardi, in macchina.
«Li odia, ovviamente. A casa mi aspetta il divano».
«Be’, scusa se te lo dico, ma ti sta bene».
Sospirai. «Lo so».
«Se credi che possa esserti d’aiuto, dille che non ho fatto altro che parlare della mia ragazza».
Nel voltarmi di scatto verso di lei quasi mi ruppi l’osso del collo.
«Ha-hai u-una ragazza?».
La sola risposta che ottenni fu la risata allegra di Virginia che riempiva l’abitacolo, ed era anche la sola risposta che meritavo. In quel momento ricordo di aver pensato “Beato chi se la sposa” perché, tra tutti i finti appuntamenti al buio che avevo avuto, quello con Virginia era stato di gran lunga il migliore.
«E cosa mi dici di te, invece?», domandai, cercando di recuperare un minimo di dignità. «Quali sono le priorità che tua sorella non condivide?».
Dopo una serata di luminosi sorrisi e di cortesi frivolezze, fu strano vederla farsi improvvisamente seria e determinata. Come se quella che le avevo posto fosse stata la domanda da un milione di dollari del Chi Vuol Essere Milionario?.
«La carriera, ovviamente. Hai accanto a te una laureata in finanza con un master in economia aziendale, che un giorno diventerà l’amministratore delegato di una grossa azienda multinazionale…».
«Cavolo, all’improvviso i miei trascorsi da pugile non sembrano più tanto interessanti!».
«…ma che per adesso è soltanto una squattrinata in cerca di lavoro».
«Che tipo di lavoro?».
Lei si lasciò andare contro lo schienale del sedile e puntò il naso all’insù, verso il tettuccio della macchina. I suoi occhi, però, sembravano vedere lontano.
«Nel mio campo si comincia dal basso, quindi pensavo a un impiego come assistente personale». Sorrise, e tornò con i piedi per terra. «Che è un modo elegante per dire segretaria».
Ancora oggi non so cosa mi spinse a fare quello che ho fatto. Forse la piccola parte di me che era attratta da Virginia e che pompava sangue nella direzione sbagliata. Forse il senso di colpa. Forse entrambi. Sta di fatto che lo feci.
«Questa è la tua serata fortunata».
Lei aggrottò la fronte. «Cosa intendi, Happy?».
«Che conosco qualcuno che sta cercando un’assistente personale».


«Il tuo parere da esperto?».
Karen dice che gli uomini non sono capaci di fare due cose contemporaneamente. Ha ragione da vendere. Nel mio caso, infatti, pensare di seguire con lo sguardo il sedere a mandolino di Biondona Mozzafiato E nello stesso momento rispondere alla domanda del mio capo sarebbe stato semplicemente utopistico. Solo quando le porte scorrevoli del laboratorio si chiusero alle spalle della Candidata Numero Quattro, fui in grado di riattivare l’uso della parola.
«Penso che le manchino solo la tutina in latex e il frustino da equitazione, signore».
La pacca che il mio capo mi assestò sulla spalla mi riscosse definitivamente dalla trance.
«Concordo. Ma, ad essere sinceri, quello che mi serviva era il tuo parere da esperto di motori, Happy. Non di sadomaso».
La parte difficile dell’essere l’autista di un genio miliardario playboy filantropo non è arrancare dietro ai suoi attacchi di megalomania, come molti potrebbero pensare. Il difficile è mantenere un contegno professionale, mentre lui si comporta da adolescente ricco e viziato. E nel caso di Tony Stark stiamo parlando di un adolescente mooooolto ricco e moooolto viziato.
«Ah, ehm, giusto, scusi, mi ero… distratto, sì».
Il Signor Stark prese un’enchilada, con ancora indosso i guanti sporchi di olio per freni, e se ne ficcò in bocca metà in un solo boccone.
«Comfrenfifile». Masticò soprappensiero. «Buono, ma ci vorrebbe più peperoncino».
Mi schiarii la voce dall’imbarazzo e mi chinai sul cofano aperto dell’automobile, reduce dall’ultima scorribanda notturna del Signor Stark.
«Allora, diamo un’occhiata. La testata è messa male, le guarnizioni vanno sostituite e… come diavolo ha fatto a spaccare il cilindro?».
Il Signor Stark fece spallucce. «Talento naturale, suppongo».
«Signore, le ricordo che la Candidata Numero Cinque è ancora in attesa di essere ricevuta».
«Oh, che strazio. Si può sapere di chi è stata l’idea geniale di assumere un’assistente personale?».
«Sua, signore».
«Jarvis, non ti ho programmato per fare il sarcastico. Di’ alla Signorina Come Si Chiama…».
«Potts, signore».
«Ma che razza di nome è, Potts? Ah, non importa. Di’ alla Signorina Potts di scendere in laboratorio».
«Immediatamente, signore».
Sapevo di dover dire qualcosa per mettere in buona luce Virginia. Le sue rivali avevano ottime argomentazioni dalla loro, due delle quali messe in bella mostra sul davanti. E il Signor Stark teneva in grande considerazione quel genere di argomentazioni.
«Conosco la Signorina Potts», buttai lì tra un bullone e l’altro, con grande nonchalance. Ne fui molto soddisfatto. «È in gamba».
«Ci vai a letto?».
La craniata che diedi al cofano produsse un baccano infernale. Karen ha sempre avuto ragione riguardo alla mia testa: è davvero dura come il marmo.
«No, no, Signor Stark, è completamente fuori strada. Io…».
«Ah, capito. Speri di far colpo su di lei facendole ottenere il posto. Non credevo fossi così subdolo, Happy!».
Altra craniata contro il cofano. Lo chiusi per evitare altri incidenti.
«No, no, davvero. Guardi che ce l’ho già una ragazza. Stavo solo dicendo che…».
Il Signor Stark mi zittì con delle pacche amichevoli e uno sguardo complice.
«Non ti preoccupare, sarà il nostro piccolo segreto».


A me piace lavorare per il Signor Stark, dico sul serio, nessuno è più felice di me, se non altro perché con lui non ci si annoia mai. Ci sono delle volte, però, che… non so, mi viene una gran voglia di rispolverare il vecchio uno-due sulla sua faccia da schiaffi. Solo alcune volte, eh? Volte come quella del colloquio di Pepper.
«Signor Stark, se vuole che tolga il disturbo non deve fare altro che dirlo».
Lei era in piedi, vestita di tutto punto, con la cartelletta stretta al petto, in mezzo a un laboratorio da film futuristico. Lui invece lavorava alla sua automobile, immerso nel grasso e nell’olio da motore fino ai gomiti, senza degnarla di uno sguardo. Mi sentivo tremendamente in colpa, perché ero stato io a convincere Virginia a inviare il curriculum e non avevo la più pallida idea di come aiutarla.
«Gradisce un’enchilada, Signorina…?».
«Potts».
«Potts, giusto. Devo trovarle un soprannome al più presto».
«Il mio nome non è di suo gradimento?».
«Oh, no, affatto, ma… conosce la teoria della soffitta?».
Virginia mi rivolse un’occhiata interrogativa. Non potei fare altro che ricambiare con un sorriso di incoraggiamento.
«Il cervello umano è come una soffitta, il magazzino delle informazioni. Siccome lo spazio è limitato, va riempito solo con ciò che serve a esprimere il meglio di noi stessi. Affibbiando dei soprannomi alle persone, evito di accumulare roba inutile come i loro nomi…», il Signor Stark si picchiettò la tempia, «…qui dentro. Mi segue?».
Ricordavo bene quel discorsetto, il Signor Stark me lo aveva rifilato il giorno in cui mi aveva ribattezzato Happy. E ricordavo bene anche la mia espressione di allora, l’espressione di un coniglio abbagliato dai fari, la stessa di Virginia in quel momento.
«È un metodo infallibile, mi creda».
«Oh, non lo metto in dubbio, Signor Stark. Tuttavia non credo che Sir Arthur Conan Doyle intendesse questo. Senza contare che adesso ha il cervello colmo di stupidi soprannomi. Quale sarebbe la differenza, quindi?».
«Happy, ti dispiacerebbe continuare tu qui?».
Il Signor Stark mi passò la chiave con la quale stava smontando la testata del motore, si voltò a guardare Virginia in silenzio, per qualche istante, e poi le andò incontro a passo deliberatamente lento.
Tanto per dare un’idea della gravità della situazione, solo in due casi Tony Stark avrebbe interrotto qualsiasi cosa lui stesse facendo (dall’allacciarsi le scarpe a inventare una nuova arma di distruzione di massa) per dare retta a un altro essere vivente: caso uno, donna attraente; caso due, individuo dotato di un cervello niente male.
«Adesso le spiego. Se, per ipotesi, decidessi di chiamarla Signorina Rottenmeier, non compirei nessuno sforzo mentale, per il semplice motivo che quel nome risulta già presente in memoria. Lo stesso invece non posso dire del suo cognome, Signorina Rotten…».
«Potts».
«Potts». Cominciavo a sentirmi di troppo in quel laboratorio. «E poi i soprannomi sono più divertenti».
«Be’, sì, per un bambino di cinque anni, forse».
«Sta insinuando che sono infantile?».
«No, non lo sto insinuando».
«È così che pensa di ottenere il posto? Insultando il suo futuro datore di lavoro? Decisamente poco ortodosso».
«Poco ortodosso è farsi gioco delle persone con la scusa di un colloquio, Signor Stark».
«Come le ho già detto, è divertente».
Stavo giusto valutando l’ipotesi di intervenire per evitare che arrivassero alle mani (per inciso, in una simile eventualità avrei puntato tutto su di lei), quando vidi Virginia prendere un respiro profondo e porgere la cartelletta al Signor Stark.
Lui alzò le mani, come per arrendersi al nemico.
«Mi spiace, non sopporto che mi si porgano le cose».
«Sta scherzando, vero?».
«Assolutamente no!».
Ci sono due cose che ho imparato di Pepper, dopo tanti anni di lavoro fianco a fianco: quando si arrabbia, le sue labbra diventano due linee sottilissime e tiratissime, e quando questo accade, è meglio non infierire.
«Bene, d’accordo. Come preferisce, Signor Stark».
Giuro che in vita mia non avevo mai visto una donna raddrizzare la schiena come un generale, assumere un atteggiamento quasi marziale, e al tempo stesso muoversi in modo così fluido e femminile.
Virginia raggiunse il banco di lavoro più vicino e vi poggiò sopra la cartelletta, proprio accanto al vassoio di enchiladas.
«Qui, Signor Stark, c’è tutta la documentazione richiesta, correlata di curriculum naturalmente», spiegò con un sorriso cortese e un tono di voce così educato e misurato da farmi venire i brividi sulla schiena. «Per quanto mi riguarda, può anche bruciarla. E sì, adesso la gradisco molto volentieri quell'enchilada. È davvero molto gentile da parte sua, Signor Stark». Senza paura di macchiare il costoso tailleur, con una mano prese un’enchilada e con l’altra la pepiera. «Non le dispiace, vero? Le preferisco con tanto peperoncino».
Pepò la sua enchilada, le diede un morso e si avviò verso l’uscita, lasciando il Signor Stark con un palmo di naso.
Correrle dietro fu istintivo. Anche perché l’alternativa sarebbe stata prendere a sberle il capo e quindi farmi licenziare. Riuscii a raggiungerla prima che mettesse in moto l’auto. L’enchilada giaceva avvolta in un fazzoletto sul cruscotto.
«Virginia, mi dispiace. Ti chiedo scusa da parte sua e… be’, anch’io ti devo delle scuse. Avrei dovuto metterti in guardia».
«Non è colpa tua, Hap-». Si bloccò, all’improvviso furiosa. «Oh, accidenti a lui. Qual è il tuo vero nome?».
Non riuscii a trattenermi e scoppiai a ridere.
«Harold».


Non so bene cosa successe dopo.
So solo che, una settimana dopo gli eventi di quel giorno, Virginia o, se preferite, Pepper venne assunta. So anche che una sera, prima dell’assunzione (e lo ricordo bene, perché quella stessa sera ebbi la più terrificante e furibonda lite con Karen della mia vita), il Signor Stark mi chiamò per accompagnarlo a uno dei tanti galà di beneficienza. Lo trovai in soggiorno, in smoking, seduto sul divano, a rigirarsi tra le mani una pepiera.
«Signor Stark, l’auto è pronta».
Ricordo anche di essermi preoccupato per lui, perché non rispondeva, e continuava a fissare la pepiera in modo inquietante, come se per mezzo di quell’oggetto fosse venuto a capo del più grande mistero dell’universo.
«È sicuro di sentirsi bene?».
«Sicurissimo, Happy». Si alzò di scatto, mi lanciò la pepiera (che presi al volo per miracolo, tra l’altro) e aggiunse: «Le ho trovato un soprannome, finalmente».
«Ma a chi?».
Uscì dal soggiorno senza dire nient’altro.
Sull’etichetta della pepiera c’era scritto soltanto pepperpot. Qualcuno, con un pennarello nero, aveva aggiunto un Miss davanti a pepper e le lettere ts dopo pot.
Miss Pepper Potts.







_____________________







Note autore:
Mamma mia, è tantissimo tempo che non pubblico qualcosa! Così tanto che tornare a scrivere è stato un vero parto. Mai perdere il ritmo, M A I.
Allora, da dove comincio?
Da Happy. Howard “Happy” Hogan è l’autista/guardia del corpo di Tony Stark, che nei film è stato relegato a spalla comica (il tizio che “aiuta” Natasha a disfarsi dei kattivi in Iron Man 2, se vi ricordate) con un discreto successo, devo ammettere. Nel fumetto Happy e Pepper sono sposati *parte la sigla di Marvel!Beautiful* e per questo motivo con l’appuntamento al buio ho voluto ammiccare alla loro relazione fumettiana che, ovviamente, nel film non c’è (e nemmeno nel vannaverse).
È dai tempi della mia shot Nausea, che avevo voglia di scrivere questa storia e spiegare il mio perché del soprannome Pepper. Motivazione nata da una semplice e ridicolissima constatazione: pepperpot in inglese significa pepiera. Guarda caso, Pepper di cognome fa Potts, Pepper Potts. Non so se sia una coincidenza o se quel furbacchione di Stan Lee sia un mega troll, fatto sta che a me l’idea è venuta così e l’ho messa per iscritto.
La teoria della soffitta è di Sir Arthur Conan Doyle e del suo arcifamoso personaggio Sherlock Holmes. Il modo in cui viene spiegata da Tony deriva dal secondo episodio di Elementary.
Credo sia tutto. Ringrazio le mie sexy!assistenti Dragana, Ottonovetre e JoLupo, che hanno testato la storia.
Bacioni a tutti, vannagio
   
 
Leggi le 24 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Iron Man / Vai alla pagina dell'autore: vannagio