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Autore: _Sinclair_    15/04/2013    3 recensioni
In una Parigi della fine del XIX secolo, una donna si trova coinvolta nella vendetta di un giovane scienziato, umiliato da un suo antico rivale e dalla vita stessa. Potranno la sua astuzia e le sue doti aiutare l'uomo a dare finalmente prova del suo genio? E lei, otterrà ciò che davvero vuole?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Perché mi guardi così? 

Come se non mi conoscessi, come se dopo tutti questi anni ancora non sapessi leggermi dentro. Jeanine, dolce amica mia, tu hai perso il diritto di sorprenderti di me già da parecchio tempo. Diciamo da parecchie notti, non ti pare?

Ecco, così va meglio. Quel tuo sorrisino piegato solo a destra l’ho sempre trovato delizioso. Lo sai, non posso resistergli. Oh, se lo sai... E sai anche che la tua cara Rosalie non ama rimanere con la gola secca, soprattutto in una serata come questa. Sì, un bicchierino di Porto andrà benissimo. Per cominciare.

Dunque, cominciare. Ma da dove? No, non essere impaziente, dammi il tempo di raccogliere i pensieri. Sì, d’accordo, anche tu sei confusa come me e non vedi l’ora di avere delle risposte. Però mi concederai che ne sono successe di cose in questi ultimi mesi. Beh, adesso è il mio turno di sorridere. Parecchie di queste cose le ho fatte succedere io.

Andiamo, non voglio annoiarti e quando sono con te nessuna serata è abbastanza lunga da farmi sprecare il tempo. Giusto, possiamo cominciare proprio dal tempo. O meglio, da un orologio. Che doveva essere suo. Di quella donna. Beh, così doveva essere secondo i piani di Martin. 

Ho sempre negli occhi quelle luci, i riflessi delle candele sulla sua cassa dorata. Luci che si perdono in un labirinto di incisioni, per poi rimanere intrappolate dietro il vetro del coperchio. E quella catena a cui è appeso... Ogni volta che lo lascia dondolare dalla sua mano, me la sento sulla pelle. 

Che stranezza, Jeanine. Ci sono alcuni piccoli oggetti, alcuni dettagli che ad un certo punto entrano nella tua vita e che sono in grado di sconvolgerla. Così, in un secondo. Ci si può perdere o si può rinascere per colpa di un pezzo di metallo, di un quadro, di una chiave o di un fiore. E io non te lo nascondo, quell’orologio un po’ aveva preso ad ossessionarmi, anche se mai quanto ossessionava Martin.

Quel pezzo così pregiato, appartenuto alla madre e ora uno dei pochi ricordi di famiglia che gli rimanevano, esercita su di lui uno strano sortilegio. In un modo o nell’altro spuntava sempre fuori, nella tasca del gilet o sopra il comodino o in mezzo alle cataste dei mille fogli di carta nei quali finivo sempre con l’inciampare quando andavo a casa sua. Anche quando facevamo l’amore. Soprattuto quando facevamo l’amore.

Quell’oggetto faceva parte integrante delle mie sere con lui, come il profumo del vino italiano che ama così tanto e il sapore dell’orribile stufato che si ostina a prepararmi ogni volta perché - lo ha deciso lui - a me piace così tanto. Quell’intruglio! Beh, d’accordo, sappiamo sia io che te cosa significhi non riuscire a fare andare d’accordo il pranzo con la cena, e non sono certo schizzinosa. Ma ti assicuro che nemmeno i gatti del vicolo qui sotto si affretterebbero a mangiare quella brodaglia insipida, con tre pezzacci di carne tutta nervi e due patate mezze crude. 

Perché gli è venuta quest’idea? No, piccola impertinente che non sei altro, non gliel’ho fatta venire io. E non fingo che mi piaccia solo perché me lo cucina lui! Beh, Alle volte è quasi passabile. Magari se lo anneghi nel vino.

Ma basta parlare di stufato, torniamo all’orologio e piantala di sorridere. Mi fai perdere sempre il filo, tu. L’orologio lo ha sempre dominato, dunque. Un bel po’ di cose nella sua vita lo dominano. Ricordi, idee, pensieri. Sogni e speranze, rimpianti. E poi ancora progetti, supposizioni, deduzioni e controdeduzioni.

Tutta robaccia che gli intasa il cervello, che lo porta via dalla realtà, anzi che lo rende indifeso nei confronti della realtà. Questa è sempre stata la sua vera debolezza, e la tragedia è che lui ne è anche consapevole. Solo che non ci può fare nulla, è il suo modo di essere più ancora che di vivere. Ha l’intelligenza e l’acume di un genio, ma è sciocco e sbadato come un bambino. Altrimenti come ti spiegheresti il fatto che gli ci sono voluti più di dieci anni, da quando ha lasciato l’università, per riuscire a tirar fuori qualche soldo dal suo lavoro? E che lavoro! Se vedessi i suoi progetti!

A uomini così dovrebbero impedire di arrivare alla maggiore età. Sono un vero e proprio pericolo pubblico e te ne devi guardare. Perché prima o poi uno così lo incontrerai sulla tua strada e allora dovrai stare molto attenta. O lo cacci dalla tua vita il più in fretta possibile, o te ne impadronisci in tutto e per tutto, senza lasciargli alcuno scampo. Qualsiasi via di mezzo sarebbe una sciagura per te.

Ma no, ma quale predica! Ora ci arrivo all’orologio. E’ solo che il tuo Porto mi fa sempre divagare, lo sai. Un ottimo motivo per riempirmi un’altro bicchiere, da brava. Perché non è facile per me continuare a parlare e forse non sarà nemmeno facile per te continuare ad ascoltare, specie quando arriveremo alla fine di questa serata.

Una sera, è trascorso ormai quasi un anno, ero da lui. Sì, in quel senso. Non è che ci andassi solo per la sua cucina o per vedere come se la passasse! Va bene, quando lo incontravo per strada lo salutavo e magari passavo un po’ di tempo con lui. Ma sempre fuori e lontano da quella casa. Lo facevo apposta, sì, quando passeggiavamo cercavo di allontanarlo il più possibile dal suo squallido appartamentino. Perché non volevo che lui associasse la mia presenza in mezzo alle sue cose, alla sua vita più intima, con qualsiasi cosa che non fosse il puro e semplice piacere. Quando andavo a casa sua non gli permettevo mai di considerarmi altro che la sua donna da letto.

E così, ero a letto, tra le lenzuola. Mi aveva riservata per tutta una notte (quando si trattava di certe cose, ha sempre avuto le mani bucate il buon Martin!), lo avevamo già fatto un paio di volte, ed io ero lì ad aspettare che venisse il momento per la terza. Credi a me, la terza è sempre la migliore. Ti togli l’idea di doverlo fare che provi durante la prima e la voglia di dimostrare che non è una serata come tutte le altre della seconda. Se riesci a farci arrivare il tuo uomo, la terza è in assoluto quella più bella. E lui, lo devo dire, ci arriva spesso. Non sempre, ma spesso, e un po’ di merito me lo prendo anch’io. Sono sempre stata brava a gestire le mie notti, Jeanine. Anche questo lo sai bene.

Comunque me la ricordo bene quella sera, perché è da lì che le cose hanno cominciato a cambiare. Da lì ho capito che la mia illusione che Martin fosse un cliente come molti altri era finita. Non fu lui a farmelo capire, ma io stessa. Lo realizzai dalla velocità con cui scattai su di lui quando lo vidi mettersi seduto sul letto, afferrare un grosso martello - uno dei tanti arnesi che quell’inguaribile disordinato lascia sempre in giro per la stanza! - e alzare il braccio per mandare in frantumi l’orologio con una bella botta.

Non appena si era mosso io mi ero istintivamente girata verso di lui e riaprendo a metà gli occhi potevo già vedere i muscoli delle spalle abbassarsi per vibrare il colpo.

«Martin, cosa fai?» gli urlai, scansando le lenzuola che mi imprigionavano le gambe e gettandomi contro la sua schiena. Era ancora immobile in quella strana posizione quando le mie braccia si strinsero sul suo petto e gli impedirono almeno per qualche istante di portare a compimento il gesto. 

Sentii i suoi muscoli del collo irrigidirsi e compresi che avevo solo lo spazio di un respiro per fermarlo definitivamente. 

Le mie mani presero ad accarezzarlo, con leggerezza, e tutta la sua persona cominciò a rilassarsi, divenendo più debole. Più fragile. Allora avvicinai la bocca al suo orecchio e mentre con la mano iniziavo a fargli abbassare dolcemente il braccio, presi a sussurrargli. 

«Quello è l’orologio di tua madre. Ci tieni così tanto. Perché vuoi romperlo? E’ tuo, ed è un bellissimo orologio.» 

La sua mano era adesso appoggiata sul letto e anche se stringeva ancora il martello percepivo con assoluta certezza che non aveva più la forza di sferrare nessun colpo. Gliel’avevo tolta io, e la riprova era il lento adagiarsi della sua testa sulla mia guancia, quasi che il collo ormai non riuscisse nemmeno a sorreggerne il peso.

«E’ mio, sì,» disse, socchiudendo gli occhi, «E rimarrà mio. Ma non volevo che lo rimanesse. Volevo che fosse di Lucille.»

Già, quel nome. Brava, versami un altro bicchiere. Ottima idea. 

Lucille, ancora lei. Credo che quel grande idiota le sia andato appresso da quando aveva, quanto, dieci anni? Ah, al diavolo! Al diavolo lei e quel suo bel paparino così amico della povera vedova che era la madre di Martin. Per quel che mi ha detto lui, quei due vecchiacci erano così amici che Lucille potrebbe essere la sorellastra di Martin! Ah, che bella sorpresa sarebbe questa, non ti pare? Che bello scherzo per quella biondina tutta eleganza e belle maniere!

Beh, comunque sia, io me ne stavo lì. Con quel pezzo di cretino imbronciato tra le braccia e gli occhi fissati su quel pezzo di metallo. Quell’orologio che più lo guardavo più lui sembrava guardare me. Tanto che mi sentii passare un brivido lungo la schiena e mi scostai un po’ da Martin. Adesso ero io quella irrigidita.

«Vuoi che sia di Lucille? E allora perché non glielo dai? Lei amava tanto tua madre e il sentimento era ricambiato, da quel che mi dici.» Da quel che mi diceva sempre, ogni santa notte che venivo a scaldare il suo letto, mentre quell’angelo biondo se ne stava con chissà chi altri. A me che per qualche ora gli tenevo il pensiero della biondina lontano dalla sua testa di legno.

Martin reclinò il capo all’indietro e si mise a guardare il soffitto, come se volesse parlare al cielo o alle nuvole. Ho sempre odiato quel gesto, dice le peggiori sciocchezze quando lo fa.

«Perché non posso più darglielo. Meglio, potrei anche ma sarebbe solo un regalo di nozze come tanti altri.»

Per un attimo la mia mano strinse le lenzuola. Poi la riaprii e scattai nuovamente in avanti. Ma per scostarmi da Martin, non per riabbracciarlo di nuovo. Scesi dal letto e, senza preoccuparmi di vestiti o altre stupidaggini del genere (uno dei pochi privilegi del nostro mestiere, Jeanine), mi accostai al tavolino dove si trovava la bottiglia di vino e ne versai quel poco che ne rimaneva in uno dei due bicchieri. Lasciai che il suo gusto acre mi scendesse in gola senza perdere troppo tempo a passarmelo sulla lingua, ma nel berlo così velocemente una goccia cadde sopra la collana di finti rubini, falsa come la mia virtù di ragazza. Martin insiste sempre che io la tenga al collo quando facciamo l’amore. Lasciai la goccia ad indugiare sulla pelle della mia gola. Gli piaceva quella collana? Gli piacevo io, al punto da pagarmi e anche bene nonostante non avesse quasi di che mangiare? E allora che mi prendesse così com’ero, vino e tutto il resto.

Sentivo il suo sguardo su di me, ma sentivo anche che c’era ben poco desiderio in lui in questo momento. Strinsi per un momento le labbra e mi preparai a sentire una delle sue solite lagne. Perché poi io abbia così tanta voglia di farlo frignare davanti a me è ancora un mistero.

«Quali nozze? Chi si sposa il tuo bell’uccellino prima di te?»

Una specie di sorriso sulla sua bocca. Gli occhi di lui scesero rapidamente ad accarezzarmi dalla testa ai piedi. Ricominciò a volermi. Gli faccio sempre questo effetto, anche quando ce l’ha con me e vuole farmi male.

«Perché me lo chiedi? La cosa ti disturba?»

«A me? Nient’affatto. Sei tu quello che stava per distruggere un orologio da cento franchi con un martello.»

Lui non replicò subito alle mie parole. Era nudo come me, ma in quel momento io e lui tutto sembravamo tranne che amanti. Quella non era una scena erotica. Aveva un che di ridicolo, piuttosto.

«Dai che lo sai chi è il fortunato,» riprese poi, passandosi per un istante la lingua sulle labbra. «Il nome non può che essere uno.»

Rimasi interdetta di fronte a quell’ennesimo indovinello, e non è facile riuscire a sorprendermi. Senza pensare, la mano tornò alla bottiglia e provò a versare di nuovo del vino che però, ahimè, non c’era più. Con un brontolio, la rimisi a posto e mi accostai di nuovo al letto. Mi passai la mano tra i capelli, lasciando che la luce delle candele li riempisse di riflessi ramati. Riuscivo a sentire lo sguardo di Martin che seguiva ogni ciocca, quasi che lo tenessi tra le dita.

No, Jeanine, non ero così in controllo della situazione come voglio farti credere. Martin mi desiderava fisicamente, voleva il mio corpo, questo sì. Ma quello sguardo non vedeva me. I capelli che vedeva non erano castani, ma biondi. La donna che in quel momento voleva accanto a sé nel letto non ero io, Rosalie. Era Lucille.

Ma in tutto questo, al di là della rabbia che sentivo dentro di me, era la curiosità a dominarmi. Chi accidenti poteva essere costui? Uno che Martin conosceva bene e del quale doveva avermi parlato, visto che si aspettava che lo conoscessi anch’io. Uno molto vicino a lui e un uomo tiene vicino a sé solo gli amici più stretti (ma Martin non ne aveva molti) oppure...

Socchiusi gli occhi. Riuscii quasi a sopprimere una risata.

«Florent? Si sposa Florent?» gli dissi. Il suo sguardo fu l’unica risposta di cui avevo bisogno. «Il tuo caro, vecchio Florent. Quello che ti tormenta da quando sei un ragazzino. Quello così ricco da potersi comprare perfino il patrimonio del padre di Lucille, sempre pronto a far pesare la sua condizione su di te e sulla tua povera mammina. Certo che avrà molto tempo per la sua Lucille, visto che non ha alcun bisogno di lavorare per vivere. E che bei ritratti che le farà, lui con quella sua mania di essere un grande pittore! Oh, Cielo, altro che orologio, povero mio, fossi in te io avrei spaccato la testa a lui!»

Mentre gli dicevo questo la mia mano si scostò dai capelli e andò a cercare il suo braccio. Quella sublime ironia del destino era riuscita infine a rendere Martin vagamente umano, aveva messo il grande genio allo stesso livello di noi comuni mortali. E a quel livello c’ero io, pronta a consolarlo. Per la terza volta quella sera.

Ma lui scostò la mano con decisione. Non lo aveva mai fatto. Per lo stupore, scattai all’indietro, coprendomi il ventre. Gli occhi di Martin mi facevano paura. I miei si posarono d’istinto sul martello, ancora vicino alla sua mano.

Non disse nulla, non fece un gesto. Si alzò e si diresse alla sua scrivania. Scostò tutta quella montagna di carta della quale non sembrava poter fare a meno per vivere e afferrò una lettera, un foglio tra mille. La stringeva in mano mentre si voltava di nuovo verso di me, ma lo faceva con tanta forza che non avrei certo voluto essere quel pezzo di carta. Quando riprese a parlare, sentivo le sue dita strette attorno alla mia gola.

«Mi fa piacere che la cosa ti renda allegra. Allora riderai ancora di più nel sapere che Lucille ha bisogno più che mai del suo caro e dolce amico di una vita. Di suo fratello, come ha preso a chiamarmi da qualche tempo.»

La pazienza non è mai stata una delle mie virtù. Troppo noiosamente saggia, quasi pedante. Di quella storia, delle paranoie di Martin, delle sue giravolte emotive ne avevo abbastanza. Mi alzai e gli strappai quasi la lettera dalle mani, tanto che gliene rimase un angolo tra le dita. Ma quello che vi lessi era già sufficiente a lasciarmi senza fiato. Aveva dell’incredibile.

«Cosa? Florent sta per diventare cieco?»

«Esatto,» rispose Martin, afferrando la sua vestaglia e coprendosi le spalle alla bell’e meglio. «Un’infezione, una malattia o che so io. Di medicina non ci ho mai capito un accidenti. Conoscendolo, si sarà preso la sifilide in chissà che bordello. Oh, senza offesa, Rosalie...»

Gli regalai un sorriso piuttosto tirato. «Ti ringrazio a nome della categoria. Ma qui la faccenda è seria. Lucille ti chiede...»

«Di aiutare il suo povero futuro marito infermo con la mia abilità tecnica e le mie conoscenze scientifiche. Le stesse che Florent ha sempre preso in giro da quando lo conosco.»

Misi la lettera da parte, o meglio la lasciai cadere a terra. Per quel che mi importava, Lucille e Florent potevano diventare ciechi entrambi. Non è che facesse propriamente caldo e magari in quel momento avrei dovuto mettermi anch’io una vestaglia o delle coperte addosso. Ma la cosa mi sarebbe stata d’impaccio. Mi avvicinai invece a Martin, che adesso mi dava le spalle, chino sulla sua scrivania. Lo abbracciai da dietro, poggiando il viso sulla sua schiena. Senza nemmeno accorgermene socchiusi gli occhi. Così, per un riflesso automatico.

«Lascia stare quel cretino. Lucille ti dice anche che è disposto a darti una rendita vitalizia di diecimila franchi al mese se riuscirai ad aiutarlo. Saresti quasi ricco... O almeno potresti permetterti un posto più decente di questo. Potresti dedicarti con più tranquillità al tuo lavoro. Ai tuoi progetti. Quella roba elettrica di cui mi hai parlato tante volte. E pensa anche alla pubblicità che ti faresti, a quanto diverrebbe celebre il tuo nome.»

La mia mossa ebbe l’effetto che speravo. Sentii il corpo di Martin piegarsi all’indietro e di nuovo sorreggersi a me. Lo sentii quasi ridere.

«Potrei anche permettermi una puttana migliore di te.»

La risposta che gli diedi gli arrivò sotto forma di un morso, deciso, sulla nuca. «Una meglio di me non la troveresti nemmeno se diventassi primo ministro della Repubblica, Martin. Ti ho raccontato di quella volta in cui sono stata con un deputato? Gli è bastata una notte con me. C’è mancato poco che mi sposasse...»

Adesso la sua risata divenne piena. Si girò di colpo e me lo ritrovai addosso. Il mio istinto professionale mi mise in guardia dal mostrare eccessivo entusiasmo per quella sua manovra, tuttavia le mie gambe salirono sulle sue prima ancora che glielo ordinassi. La cosa era piacevole, ma mi disturbava. Peggio, mi distraeva.

«Me lo avrai raccontato una decina di volte. E ti ci vedo proprio all’Assemblea Nazionale.»

Riaprii del tutto gli occhi per ritrovarmi il suo viso sorridente a pochi centimetri dalla mia bocca. Ma quando incontrai il suo sguardo vi lessi solo una profonda tristezza. Mi sembrava di sprofondare in quel vuoto. Di nuovo, non erano le mie gambe ad intrecciarsi alle sue, non erano le mie braccia ad accarezzargli le spalle e a sfilargli la vestaglia. In quel momento pensai che di fronte a lui non ci sarei mai stata io, come non ci sarebbe mai stata nessun’altra donna. Ci sarebbe stato soltanto un fantasma, l’ombra semitrasparente di una donna dalla figura sottile, elegante e con degli orribili capelli color paglia. La biondina.

Ecco, il momento. Dicono che si sente quando nella vita arriva uno di quei momenti decisivi, gli attimi in cui la tua esistenza può prendere una svolta e trasformarsi per sempre. E’ vero. L’ho sentito anch’io in quell’istante, mentre me ne stavo tra le sue braccia e mi ritrovavo combattuta tra la voglia di baciarlo e quella di dargli uno schiaffo. Quello che non ti dicono, però, è che non senti mai quanto sia decisivo quel momento. Fai di tutto per pensare con lucidità, ti illudi a questo scopo che potrai sempre recuperare, che se prendi una certa strada e le cose andranno male poi riuscirai comunque a cavartela, a tornare indietro.

E’ falso. Non si torna mai indietro, perché non lo fa il tempo e noi ci ritroviamo tutti prigionieri di quel maledetto orologio d’oro, con la sua catenella raffinata e le sue belle incisioni.

Beh, in quell’attimo io non le pensavo tutte queste cose, non le sapevo. Ero solo arrabbiata, delusa, impaurita, frustrata, spazientita, irritata, confusa... triste... Triste, sì, perché quella Lucille, quella ragazzina viziata che aveva avuto tutto dalla vita e che avrebbe avuto ancora di più negli anni a venire, non solo stava per sposare uno degli uomini più ricchi di Francia, ma stava rovinando l’esistenza anche ad un altro uomo, ai miei occhi uno dei più promettenti ingegneri del Paese. Io, nel migliore dei casi, sarei stata chiamata ogni tanto da Martin per raccogliere i suoi pezzi e rabberciarli alla bell’e meglio. Sempre che quel cretino non si facesse venire in testa la grande idea di ammazzarsi. No, l’ingiustizia di tutto ciò mi faceva male, mi strappava l’aria dai polmoni: dovevo impedirlo ad ogni costo!

Nonostante tutto, nel bel mezzo del vortice riuscivo ancora a pensare e a pensare bene, come sempre. Non sarei dove sono adesso se non riuscissi a pensare con un uomo nudo accanto a me. Pensare, pensare ancora e in fretta. E allora mi venne un’idea, anzi l’idea.

Un’idea così folle che Martin, con tutto il suo raziocinio e la sua innata propensione all’autoflagellazione emotiva, non l’avrebbe mai accettata. Non potevo dunque dirgliela e basta, mettergliela davanti al naso perché la giudicasse con calma. Dovevo invece insinuargliela dentro, fargliela entrare attraverso la pelle, fargliela respirare, fargliela gustare tra le labbra e di lì nel suo stesso sangue. Non dovevo parlare al suo cervello e nemmeno al suo cuore. Il primo non l’avrebbe accettata per motivazioni di morale, il secondo per il sentimento che lo legava a Lucille. Dovevo parlare ad un pezzo di lui che stava, diciamo, un po’ più in basso della testa e del petto.

«Magari all’Assemblea Nazionale non ci arrivo,» gli sussurrai, lasciando che le mie labbra danzassero a pochi millimetri dalle sue. «Però non è detto che non riesca a diventare qualcosina di meglio di quello che sono ora.» 

Martin mi guardò con un’espressione incuriosita. Che si trasformò in qualcos’altro quando le mie mani scesero dalle sue spalle, dirigendosi verso altre mete. Mete più interessanti sia per lui che per me.

«Cosa intendi?» riuscì, con una certa fatica, a chiedermi.

Io salutai quella fatica con un leggero bacio sulle sue labbra e qualche altro centimetro della sua pelle tra le mie mani. Ora le mie gambe avevano cominciato a stringerlo davvero. «Potresti dare a Lucille quello che vuole. Aiutare il povero Florent a non perdere la vista.»

Lui si guardò per un attimo intorno, quasi alla ricerca di una soluzione a quella che, in fondo, gli si presentava come una delle sue adorate sfide tecniche. Una di quelle cose che ad un uomo importano più di una donna avvinghiata alla sua schiena.

«In fondo... beh, qualche ricerca nel campo dell’ottica l’ho anche fatta. Dovrei capire che danno stanno subendo i suoi occhi che, in fondo, non sono poi così diversi da una lente. Ma se... potessi agire sulla rifraz...»

La parola gli morì nella mia bocca.

«Sì, certo. Agisci su quello che vuoi. Io lo faccio spesso,» gli dissi. Quando le mie carezze, le mie gambe e le mie labbra gli permisero nuovamente di respirare.

Martin, come avevo previsto, mi divorò con un secondo bacio. Lo fa sempre. Ma quella volta si arrestò, prima del terzo.

«E a me che me ne viene da questa storia? Oltre ad aiutare l’uomo che sta per rovinarmi la vita, è naturale.»

Abbassai di poco la testa per non ridergli propriamente in faccia. Abbassai di poco anche la mano per avere propriamente tutta la sua attenzione.

«E’ qui che entro in scena io.»

«Tu?»

«Esatto, mio caro... Cosa c’è di peggio per una futura sposina?» La mia gamba iniziò a muoversi, la mia mano a stringere. Ecco, quello era il momento in cui dovevo impedirgli di pensare. Come se ci fossi mai riuscita con lui...

«Non... non so. Forse...»

«Forse venire a sapere che il tuo futuro maritino non è quello stinco di santo che credevi. Forse,» la mia stretta si fece inesorabile, le mie labbra di nuovo vicine, la mia gamba lo premette da dietro la schiena contro il mio ventre, «Forse scoprire che una delle modelle per le sue croste, magari una bella donna dai lunghi capelli castani come me, si trattiene nel suo studio un po’ troppo a lungo. E, prima che tu me lo chieda, non ci sarà bisogno che sia tu a presentarmi a lui. Penserò a tutto io, da sola...»

Gli sorrisi, prima di baciarlo. Prima di accarezzarlo. Prima di accoglierlo.

Non attesi risposta, perché sapevo che non doveva essere la sua bocca a darmela. Doveva essere quello che iniziava a muoversi dentro di me.

Seguirono uno, due secondi di dominio completo. In quegli attimi, Jeanine, soprattutto in quei primi attimi, un uomo è completamente tuo. In un certo senso, è una responsabilità enorme e penso davvero che non sia stato un caso se il buon Dio nella sua infinita saggezza abbia messo un tale potere solo nelle mani di noi donne. Solo un essere in fondo stupido come il maschio può provare piacere nel ritrovarsi fisicamente intrappolato in un corpo altrui. Nella loro prigionia sta la nostra libertà.

Eppure, era difficile imprigionare Martin. Lo è sempre stato e, temo, lo sarà sempre. Il movimento con cui si staccò da me fu netto, deciso, inatteso. Doloroso.

«Un istante, Ros... E a te che ti importa di tutto questo? Cosa ci guadagni?»

«Tremila,» risposi senza indugio, mordendomi le labbra.

«Tremila?»

«Tremila. Al mese, per tutta la vita. Florent te ne avrebbe dati dieci volte tanto. Dopo questo bello scherzetto Lucille sarà pronta a gettarsi tra le braccia dell’unica certezza che le rimarrà, ossia il suo fraterno amico. Che magari, se gioca bene le sue carte, potrebbe divenire qualcosa di più. Una piccola spesa di tremila franchi al mese non sarà nulla per te quando avrai tra le mani tutte le sue ricchezze, ma per me, soprattutto dopo che ti avrò perso come cliente, sarà la differenza tra la miseria e la vita. Magari una vita migliore di questa.»

Martin rimase in silenzio. Sbatté le palpebre per un paio di volte e io lo conosco fin troppo bene quel gesto. Stava cominciando a pensare, a riflettere. Quel suo dannato cervello sempre in movimento!

Mi ci ributtai contro, questa volta con forza, anzi con tanta violenza da fargli colpire il bordo della scrivania. Forse gli feci male. Ben gli stava.

«Allora, Martin? La cosa ti piace? Dimmelo subito, oppure fammi tornare a casa. Sai quanto detesto perdere tempo!»

Lui aprì la bocca, e io non attendevo altro. Gliela chiusi subito. Di nuovo, non doveva rispondermi a voce. Era fuori discussione. Lasciai che fossero la notte, le lenzuola, il letto, le gambe, le mani a parlare per lui. A sigillare quel patto.

Te l’ho detto, la terza volta è quella migliore.

   
 
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