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Autore: Belle_    16/04/2013    9 recensioni
«Usagi...», ripeté con dolcezza.
Le stava accarezzando le guance piene di biancore, poi passò a toccarle i capelli dorati lasciati anonimi sulle spalle, ed infine sfiorò le sue labbra con entrambe le mani, con tutte e dieci le dita. La toccava come se fosse tutta roba sua, come se in qualche tempo tutta quella pelle, quelle palpitazioni e quelle ossa fossero state sue. Solo sue.
«Usagi...», sussurrò ancora.
Si chinò sul suo viso con gli occhi dischiusi, le labbra pronte ad improntarsi sulle sue, il respiro spezzato da un'emozione più grande.
Ma lei si scostò, spaventata, e iniziò a toccarsi le mani con morbosità.
Lui le fermò con la sua presa salda, sicura e spaventosa, consapevole di quel vizio immaturo, e la stava fissando con quegli occhi suoi, color cielo. Un cielo antico si stava stagliando su di lei, un cielo pieno di dolore. Ed era tremendo trovarsi sotto una volta così agghiacciante e morbida, meravigliosa e terribile.
* * *
...se perdessi la memoria, a chi crederesti?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inner Senshi, Mamoru/Marzio, Outer Senshi, Seiya, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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10) Color Giallo
       Un po' aurora, un po' tramonto




Usagi alzò gli occhi, fissò quella curva e scosse la testa.
Voler lavare quel sangue dal manto stradale era una cosa quasi sciocca, ma in cuor suo voleva rimuovere qualsiasi segno di quella sera disastrosa. Voleva cancellare quel litigio inutile con Mamoru, voleva annullare lo sguardo di Galaxia che l'aveva perforata con il suo dolore quando lui l'aveva assalita con quel bacio. Voleva togliersi di dosso quel sentimento che la faceva ancora rabbrividire a quel bacio, a quell'eccesso di rabbia, di paure, di dolore.
Ancora ricordava quelle mani che le scorrevano lungo la schiena e la spinta forse troppo violenta contro il suo torace, quel respiro sulla sua pelle e quelle labbra che minacciavano di divorarla. Ancora sentiva le punture delle lacrime negli occhi, al ricordo di quel dolore che permeava l'istante esatto del bacio.
Perché c'era dolore, in quel bacio. Colpevolezza, rammarico e dolore.
Cercò di spostare lo sguardo dalla curva, guardando Seiya, ma i ricordi affollavano la sua mente con un'orribile precisione. Si sentì in balia di quella sensazione enorme e schiacciante, quella che l'aveva annientata durante la corsa contro il monumento. Il dolore carnale, lo spavento, la sorpresa e una paura quasi mastodontica, opprimente, senza vie di scampo.
I suoi ricordi erano stati per un tempo interminabile appannati dal bianco accecante e non riusciva mai a vedere, invece adesso li ricordava con un nitore crudele. Erano come colorati di giallo ed erano sfolgoranti, spigolosi contro ogni sensazione, ma lucenti e puliti. Senza più ombre e foschie. Abbaglianti come un'alba, deludenti come un tramonto.
Riusciva a ricordare la mente vuota e poi quel pensiero futile e fuori luogo che l'aveva distratta per un millesimo di secondo: i suoi capelli. Li aveva visti gialli e non biondi, innaturali e non suoi. Doveva cambiare colore ai capelli.
Cosa c'era in quella curva? Un concentrato di ricordi?
Ma era una costante della sua vita, ormai, sentirsi priva di qualcosa. Prima non aveva i ricordi, quindi non aveva un passato e una vita, radici e respiri, ora li aveva e le mancava colui che aveva un posto in ogni sua memoria.
Finalmente ebbe il coraggio di spostare lo sguardo dalla curva che conservava quella macchia di sangue come un trofeo, un acido ricordo della sua stupidità, e guardò il suo amico. Sprofondò dentro il mare degli occhi di Seiya, un mare amico, cristallino, e si sentiva già meglio. Quegli occhi azzurri come il acqua, quelle sfumature tiepide e a volte con pagliuzze dorate le davano il senso di pace e di pienezza. Le era sempre piaciuto il mare e si era sempre sentita legata ad esso per uno strano e criptico motivo, perché aveva sempre osservato le 0nde in tutte le sue strane frotte con un misto di attrazione e paura. Le aveva guardate sempre con meraviglia e curiosità ed era straordinario come ogni onda, che aveva guizzato sotto le sue ciglia, rispecchiasse i morbidi sorrisi di Seiya. E le sue espressioni così limpide e sicure, altre ancora forti e indecise.
Come mare, come acqua, come vita.
E Seiya non era un ricordo spigoloso, non era una puntura sul cuore. Lui era morbido, sorridente, un ricordo senza spine, senza baci al sapore di sangue. Troppo presa dal cielo e troppo accecata dalla luce dell'aurora, aveva lasciato che il mare sotto di sé capitolasse in grandi cascate. E si annullasse.
<< Quella sera tu mi hai salvata. >>.
Fu un mormorio leggero quello che uscì dalla bocca piccola di Usagi. Quelle labbra fregiate da tanti sbagli, unte dalla lingua dell'amore sbagliato, da un desiderio affrettato, e cercò di seguire ancora quella linea, dorata e luminescente, tracciata dai sorrisi di Seiya. Una linea evanescente, lieve, eppure così sicura e c'era sempre stata, sempre tracciata per lei e in attesa che venisse afferrata prima o poi. Un ponte in costruzione senza cemento e senza pilastri, un ponte posto solo sui tramonti e sui testi di Ligabue. Eppure era più resistente di tanti cieli irraggiungibili e pieni di nuvole.
Seiya le sorrise amorevolmente.
<< Lo sai? >>, le chiese, accorciando la distanza.
Lei annuì e quasi le parve di riassaporare il dolore alla testa e quella sensazione di vuoto le mordicchiò il cuore. Ma lei non voleva sentire più quel dolore nella testa e nel cuore, non voleva essere più persa dentro la sua stessa vita, non voleva più farsi trasportare dagli eventi. Voleva guidare la sua vita.
<< Me l'ha detto Chibiusa e un po' credo di averlo letto dagli occhi di Mamoru. >>.
Già, quegli occhi che l'avevano ammaliata in ogni prima volta che aveva vissuto, quelle iridi chiare e adombrate che nel nido avevano spezzato chissà quali castelli di cristallo e che in ospedale le aveva fatto riassaporare il sapore antico e incomparabile del cielo servito in uno sguardo.
Quei maledetti occhi che occupavano lo spazio di notti insonni, quegli occhi che volevano amarla e non ci riuscivano mai. Quegli occhi che lei, invece, amava immensamente.
<< Cosa hai letto? >>. Stava facendo un altro passo verso di lei.
Usagi sperò che non facesse un solo altro passo verso di lei, che non cercasse di raggiungerla perché era irraggiungibile, maledetta e persa dentro la sua stessa vita. Lontana e sola. Sperò con ogni forza che non le allungasse una mano ancora, perché non se la sentiva di voltare le spalle ancora a quegli occhi pieni di maree limpide. Perché non voleva annegare più.
<< Rassegnazione, dispiacere. >>.
Seiya fece spallucce e si fermò a tre passi da lei, lasciandola sospirare in silenzio, e lanciò uno sguardo al cielo notturno e nebuloso. Era uno sguardo mesto e sincero, uno sguardo che comprendeva qualcosa che non gli era stato spiegato.
<< Il cielo è un mondo triste. >>, iniziò a dire.
Lei lo osservò con attenzione e seppe a cosa voleva riferirsi, a chi voleva rivolgere quell'insulto quasi innocente. Lui non aveva mai visto di buon occhio Mamoru, ricordò, e aveva sempre cercato di dirlo.
<< E' un mondo messo a testa in giù e non ci appartiene. E' troppo in alto, troppo lontano. Quel mondo là non ti appartiene, non farti ingannare dalle scintille delle stelle, dalle lacrime della luna che soffiano di notte, non farti ammaliare dai bestiali sorrisi del sole e dalle nuvole in cui giacciono angeli troppo giovani. Il cielo è vuoto e i tuoi occhi stanno prendendo lo stesso colore. >>.
.. e gli occhi han preso il colore del cielo
a furia di guardarlo.

<< Ligabue. >>, mormorò lei, trovando ancora rifugio dentro quelle canzoni.
Ma era sempre così con Seiya, si ricordò. Ogni volta che condivideva un momento con lui, una canzone di Ligabue faceva capolino nella sua testa e ripeteva allo sfinimento il ritornello fino a identificare quei momenti lì con una parola di Ligabue. Fino a che non si sentiva a casa. Forse perché in Seiya c'era sempre la passione della musica dentro i sorrisi, quel tormento di un sogno soppresso dalla realtà, o forse perché quelle canzoni avevano la qualità di farti morire dentro per la bellezza delle parole e nello stesso tempo comprendere un significato di vita nuovo.
Fissò i suoi piedi che erano diventati molto interessanti. E quelli di Seiya fecero un altro passo verso di lei, verso l'irraggiungibile Usagi che si era sporcata di un amore stupido, verso quella Usagi che non era da classificare come un'eroina per aver salvato la sorellina, ma piuttosto come un'adolescente stupida che aveva creduto alla favola e al lieto fine.
Come se Galaxia era stata la strega cattiva e lei la dolce e maltrattata fanciulla, come se Mamoru fosse l'unico principe rimasto al mondo o forse l'unico che sapeva farla sognare a questa maniera, benché il loro amore non avesse nulla di favolistico. Come se l'America era il nemico da sconfiggere e lei era l'eroina che correva verso il suo principe azzurro, per giurargli amore eterno e di aspettarlo per sempre.
Che vita si era costruita prima? Una farsa?
Come poteva ritenersi una brava ragazza, dopo aver strappato un padre ferito ad una madre altrettanto ferita per un distrattissimo colpo di fulmine?
Come aveva potuto vivere la sua vita, lasciandosi trascinare dagli eventi?
Aveva incontrato Mamoru, quindi basta: lo avrebbe sposato e amato in eterno perché era così che diceva la sua favola.
Usagi era stata troppo passiva alla vita, l'aveva lasciata scorrere e gli eventi le erano caduti addosso, sormontandola e schiacciandola contro un muro che si era costruita da sola. Un muro, una realtà infantile e idealizzata.
E i passi di Seiya si avvicinavano, mentre accorciavano quella distanza ineguagliabile, mentre raggiungevano la Usagi di diciassette anni e che rideva di fronte alla vita e che correva giù dalle scale dell'ospedale. Forse, voleva raggiungerla in quel nido, in quello sbadato giorno della nascita del bambino di Setsuna, e afferrarla prima che andasse a sbattere contro gli occhi di Mamoru. Salvarla da qualcosa di troppo grosso.
Sì, voleva raggiungere quella Usagi dai capelli dorati e non quella che era stata plasmata da Mamoru, quello scricchiolo a cui era stata data l'esperienza di un amore grosso e l'identità della vittima della sua stessa vita. Quella dai capelli gialli, quella finta. Non voleva vedere più quella ragazza remissiva, poco sorridente, rigida e silenziosa. Voleva bearsi del suo baccano, del rumore dei tacchi contro il pavimento, delle risate ubriache di vita e di ingenuità, di quelle urla agitate e violente. Quei sorrisi sinceri, quelle mani che si stringevano alle sue, quella spalla che gli dava appoggio, quelle battutine infelici, quell'amicizia pura di sempre e senza il sentore dell'attrazione che provavano l'uno per l'altra.
Seiya voleva Usagi, quella un po' stronza che non aveva mai filato di striscio un ragazzo solo perché pensava che era troppo presto per lei, quella che era consapevole di aver sbagliato ad avere Mamoru, anche se in maniera del tutto innocente, quella che si era gettata a salvare Chibiusa solo perché era sua sorella e non perché fosse un'eroina. Desiderava raggiungere il disincanto di Usagi e strapparla da quella dimensione fatta di cieli azzurri e nuvole piene di angeli dai capelli rossi, portarla verso di sé, sulla Terra dove c'era aria da respirare e mari nel quale annegare. Vita e risate, lacrime e esperienze.
Un mondo vivo e vero.
<< Ci sono cose più vere di un bacio sotto una quercia, Usagi. Ci sono giornate bellissime quaggiù, freddi inverni e sopravviviamo perché poi c'è l'estate. L'estate ha il mare e tu dovresti tuffartici, dovresti farti un bagno della vita vera perché la vita vera, quella che rischi e piangi giorno per giorno, è come il mare, come acqua che ti può travolgere con uno Tsunami e come acqua che ti può dissetare. E in entrambi i casi si allungano le mani, sia per bere e che per nuotare contro la corrente e salvarti, si muovono in cerca di qualcosa da prendere nel grembo del destino. >>.
Usagi lo osservò ed ebbe la voglia di urlare contro il cielo, di strappare urla gigantesche contro quelle nuvole candide che velavano la luna calante e stanca. Era stata per troppo tempo incantata dall'aurora dei cieli, dall'alba dei sorrisi di Mamoru, dai temporali improvvisi che la investivano e dai raggi del sole, accecanti e dispersivi.
Era stata innamorata del cielo per troppo tempo. Aveva sempre alzato gli occhi al cielo, aveva sempre guardato l'età di Mamoru come una cosa raggiungibile, una scala verso il cielo, come se fosse raggiungibile un uomo così.
Non poteva raggiungerlo: né sui cieli, né in America.
Un uomo così era impossibile da raggiungere, poiché non si lasciava mai raggiungere e non si dava la possibilità di raggiungersi e capire cosa voleva davvero dalla vita, dagli altri e dal mondo. E Usagi, che gli era stata vicino, aveva solo rischiato di cadere da quell'alta scala, si era rotta più e più volte solo perché cercava invano di raggiungerlo con un amore di cui, sì, aveva estremamente bisogno, ma che, no, non riusciva ad afferrare. Mamoru già conosceva quell'amore fatto di baci e di gambe divaricate che lo lasciavano entrare e non riusciva a farsi amare semplicemente da un abbraccio innocente o da un bacio dato sulla curva del sorriso. Era già padre e Usagi era ancora una bambina in cerca della vita e non della disperazione e della passione. Doveva ancora crescere.
In quella curva aveva creduto di morire, stesa a terra contro il suo stesso sangue, ma solo in quell'esatto momento poteva capire che le mani del destino stavano solo prendendo una scorciatoia per farle aprire gli occhi. La sua memoria intaccata, i flash back sempre più rari e quell'amore che aveva sentito sin da subito per Mamoru che le appiattiva il cuore sempre più giù, come una fortissima repulsione, erano solo quella parte lontana e sbagliata che doveva lasciare al passato. La sua stessa mente aveva intrappolato i ricordi legati a Mamoru, i suoi stessi sensi le impedivano di raggiungerlo, il suo stesso cuore le impediva di tornare quella biondina assurda che aveva lasciato la sua vita ad un canto per poter aiutare a vivere un uomo bello che grosso. Tutto formava un indistruttibile barriera anti-Mamoru, tutto la proteggeva da Mamoru, tutto l'allontanava da Mamoru. I suoi genitori, Nehellenia che le aveva voltato le spalle, le maldicenze, i suoi ricordi impastati di nubi, le sue mani che, quando lo cercavano, sapevano quanto fallaci potevano essere i suoi rimedi, anche se si sentiva morire.
Lei stessa, nella parte più profonda. Tutto perché lei capisse che era ora di crescere ed amarsi, volersi bene per quello che era e non per quello che diventava per Mamoru. Tutto, ma lei aveva tentato ancora il colpo grosso e lo aveva baciato ancora, dando la colpa alla vita per averla fatta innamorare di un uomo già impegnato, e lo aveva cercato ancora, sapendo che negli angoli della sua storia d'amore c'era sempre stato il cuore di Galaxia reso in frammenti solo a causa sua.
Tutto le diceva di allontanarsi e lei rimaneva. Incapace di prendere decisioni davvero sue e non dettate dal suo cuore, inadeguata alla sua stessa vita che non faceva altro che travolgerla e portarla sempre a toccare il fondo. Poche volte risaliva e non respirava mai perché trovava sempre il sorriso mozzafiato di Mamoru.
E cascava ancora e ancora, senza trovare una fine.
Si rompeva in mille pezzi. Ogni minuto.
Usagi non voleva più rompersi sotto l'aurora.


Passo dopo passo, Galaxia sentiva il cuore salirle in gola, centimetro dopo centimetro il dolore si faceva più nitido, più irruente. Quasi concreto, reale.
Si portò una mano sul cuore e respirò forzatamente, chiudendo gli occhi. Chiudeva gli occhi e respirava forte. Ininterrottamente e a scatti. Fortemente e smaniosamente.
Respirare le toglieva l'aria, paradossalmente, e più cercava invano di riafferrare dell'ossigeno e più sembrava mancarle, più la soffocava. Più si sentiva morire, si sentiva impotente. Sola.
Si appoggiò contro il palo della pensilina della stazione ferroviaria, una mano ancora sul cuore e un'altra contro l'acciaio, un respiro sforzato e ansioso, e una sensazione ributtante e acidula nella gola.
Riaprì gli occhi, ma il respiro ancora le mancava, ancora non giungeva, e lei impallidiva e annaspava contro... qualcosa. Uno spiraglio pur di vivere ancora, pur di cercare di farlo. Meritava un'altra possibilità, Cristo!
Galaxia era in preda a un attacco di ansia ed era completamente sola. Senza più il suo amato Mamoru, senza più quello scricciolo di Chibichibi ad unirli, senza più una città a stringerli. Non aveva più niente, era vuota ed era vuoto il futuro che si presentava. Persino i suoi polmoni erano vuoti.
Perché il destino doveva punirla così crudelmente?
Perché doveva perdere anche Mamoru?
Era il padre di sua figlia, era ciò per cui aveva vissuto fino a quel giorno.
Perché quel giorno Mamoru era andato nell'asilo nido?
Perché semplicemente non aveva voltato le spalle a quella ragazzina che veniva dal piano di sopra?
Perché Usagi non si era ritirata?
Cazzo, era un uomo impegnato.
Un altro respiro mozzato, un altro dolore approfondiva dentro le carni, dentro l'anima. Tutto questo era crudele, ingiustamente crudele. Strinse la mano sul petto e affondò le unghie contro la sua stessa pelle. Lì, sulla superficie che ricopriva il suo cuore fratturato, lì, sul quel cuore spento, vuoto.
Cosa avrebbe fatto d'ora in avanti?
Doveva lasciare la sua casa, il suo fidanzato, la tomba di Chibichibi. Doveva lasciare Tokyo. E Usagi. Lei aveva rovinato tutto, lei aveva distrutto ogni cosa. La odiava profondamente.
E ancora il cuore batteva forte e il respiro le mancava, facendole vorticare la testa. Sentiva i sensi deboli, flebili e impalpabili. Lontani. Voleva morire. Lì, in una stazione ferroviaria e di notte. Sola.
Al diavolo la seconda possibilità, al diavolo chi le aveva rovinato la sua unica possibilità. Lei voleva morire, voleva stendersi e smettere di respirare, anche se questo era profondamente doloroso, quasi lancinante.
Chiuse gli occhi un'altra volta, cercò di spegnersi a poco a poco.
Respirava fortemente e cominciava a spaventarsi, a perdere l'equilibrio. Ma l'aria ancora non le giungeva in corpo. Era come se l'aria stessa la ripudiasse, come se attorno a sé ci fosse stata una bolla che la isolava dal mondo intero, come se la mancanza di ossigeno servisse ad allontanarla dal suo mondo, da ... Mamoru.
Non ci sarebbero stati più albori biondi che le avrebbero sorriso, nemmeno tramonti rossicci che avrebbe ammiccato prima di sparire nel buio. Non ci sarebbe stato più nulla.
Niente.
Il vuoto.

Decise di non arrancare più e lasciare che morisse senza aria, che soffocasse in preda al dolore unico e spregevole che un amore frantumato sapeva portare dietro di sé. Decise di lasciarsi andare...
<< Signorina! Signorina! >>.
Una voce femminile e agitata le arrivava sin dentro le ossa e un senso di vuoto si faceva strada nelle sue membra, nella sua testa. Non voleva rispondere, era impegnata a morire.
<< Respiri, per favore. Respiri! >>.
Un paio di mani le circondarono la vita e la spostarono di qualche metro in avanti, trascinandola. Quelle mani erano calde e, sulla sua pelle fredda ed esposta al freddo invernale, marcavano superfici sottostanti alla pelle di Galaxia. Erano mani amiche.
<< Ora, da brava, inizi respirare lentamente. >>, la voce si era avvicinata. << Respiri con me, piano piano. D'accordo? >>. Galaxia non le rispose. Aveva ancora gli occhi chiusi, ma sentì il respiro lento e sincronizzato che le faceva da mentore, che cercava di guidarla. Non la stava lasciando sola, la seguiva, la guidava.
Dove la stava portando?
Inconsciamente Galaxia iniziò a seguire il respiro di quella sconosciuta, a farsi trasportare senza remore, senza pensieri. E l'aria cominciò a rientrare dentro i suoi polmoni, infrangendo quella bolla invisibile che l'allontanava dal mondo. Infrangendo i suoi dolori.
<< Brava. Continui così. >>.
E Galaxia non osò deludere quella voce che le stava vicino, orgogliosa del suo passo minimo verso il mondo. Verso sé stessa. Respirando lentamente, abbozzò un sorriso.
Dove la stava portando questa sconosciuta?
<< Ottimo. >>, continuava a dirle. << Ed ora non smetta mai più di farlo. >>.
Il sorriso di Galaxia si allargò e prese a splendere sul viso pallido, restituendo speranza.
Dove?
Aprì i suoi occhi color cioccolato e si trovò avanti una ragazza minuta e mora che le sorrideva premurosamente, i suoi occhioni grandi e verdi che la guardavano con bontà.
Dove l'avrebbe portata?
<< Fortuna che conoscevo questa tecnica, altrimenti chissà cosa sarebbe successo! >>.
Galaxia le sorrise e spostò lo sguardo verso l'ombra che era proprio accanto alla sua futura amica, un'ombra con capelli ramati e uno sguardo altrettanto verde. Un uomo.
Dove l'avrebbe portata?
<< Oh, non badi a lui. >>, le disse con il sorriso. << E' solo mio fratello. >>.
Osservò il ragazzo che la guardava in modo enigmatico e sorrise con dolcezza, socchiudendo quegli occhioni cioccolato e facendoli brillare.
Dove?
Alla vita, l'avrebbe portata alla vita.
Galaxia sorrise.


Seiya era rimasto in silenzio a osservare Usagi che guardava ancora la curva della strada e sperò che qualcosa dentro di lei si stesse rompendo o che tornasse in lei, in un certo senso.
Perché era stufo di perderla, di vederla andare via o di cascare nel baratro. Aveva sempre cercato di afferrarla per salvarla, aveva sempre allungato i suoi sorrisi silenziosi e lucenti, i suoi consigli affinché cercasse di prendere una strada diversa dalla ''Mamoru's street'', ma lei lasciava sempre la sua mano e cascava. Lui sarebbe stato soddisfatto solamente se avesse imboccato la ''Usagi's street'', perché se avesse scelto se stessa, avrebbe scelto anche lui e la sua amicizia.
Perché Seiya era la scelta giusta e non era amore. Seiya era la sua seconda possibilità, la sua rinascita, la sua capacità di prendere la vita con realismo e di lasciare al mondo l'idea del destino.
<< Entriamo, ok? >>, le chiese, rompendo i suoi pensieri.
Fece un altro passo e la raggiunse finalmente, chinò la testa e la poggiò sulla sua fronte, sorridendole con dolcezza. Usagi gli sorrise e lui ne fu come investito da quella luce bionda che finalmente aveva imporporato il suo viso.
<< D'accordo. >>, biascicò.
Entrarono nel locale e tutti salutarono i due arrivati. Brindarono, scherzarono, risero, mangiarono pizza e patatine e parlarono. Tanto, per tutta la serata e con tutti. Usagi era lì e tutti erano lì, ognuno un pezzetto importante di un puzzle enorme e bello, nonostante le avversità.
Ognuno con una luce dentro, una luce da un colore diverso e scintillante.


Usagi rideva, non erano più sorrisi tirati, ma risate larghe e luminose.
A quella rimpatriata c'era anche Nehellenia, ma e lei non importava più il dolore del tradimento e delle ingiurie alzate sulla sua persona. L'aveva guardata per un istante, ricordandosi di quella sera che le due amiche aveva litigato tanto a lungo e quel bacio che forse scottava ancora un po', ma le sorrise. Con dolcezza e senza il rancore degli ultimi tempi.
Semplicemente non erano così amiche come aveva creduto per anni, non si poteva dare una colpa troppo grossa a chi non poteva reggere il peso dell'amicizia. Semplicemente andava per la sua strada, ormai.
Il cellulare vibrò nella sua borsa e, nel profondo, sapeva già chi era.

Sto per andare via dal continente per due anni e tu non mi rispondi nemmeno a una semplice chiamata. Cristo, sono due anni!

Due anni. Due lunghissimi anni lontano da lui.
Scosse la testa e si morse le labbra. Quel messaggio era carico di dolore e di rabbia e lei infondo lo capì, ma non volle più saperne. Doveva chiarire con se stessa e far pace con il mondo. E il mondo era Seiya, la parte bella e bucata alla stessa maniera delle ciambelle, Seiya e i suoi interminabili sorrisi. Seiya e la realtà, la vita vera. Seiya e la sua amicizia.
Doveva aprire gli occhi e affrontarsi, prendere la decisione giusta. Doveva finalmente guardarsi allo specchio e vedere chi era davvero, senza i fronzoli delle favole, senza le giustificazioni date alla sua bontà.
Seiya continuava a sorriderle e a guardarla con quello sguardo un po' infiammato e un po' triste, si avvicinò un altro po' a lei e fece per abbracciarla.
Usagi sapeva che non c'era nulla di sbagliato in quello abbraccio e un pezzo di lei voleva tremendamente rifugiarsi dentro quelle braccia e salutare il mondo ancora una volta. Sentiva l'aria di casa, sentiva vivere tante possibilità dentro quelle braccia. Sentiva la svolta a tutto, sentiva un calore e un risveglio.
Si lasciò abbracciare, affondando nel suo petto. Lo strinse forte, si aggrappò contro alla sua schiena con una forza che non sapeva di possedere e si lasciò andare appena a quel profumo di salsedine che aveva indosso e che amava.
<< Non rispondi? >>, le chiese.
Gli sorrise. << No. >>.
Seiya annuì semplicemente, consapevole di ciò che Usagi aveva deciso.
Lei si voltò e osservò il suo cellulare.

Mamoru fissò lo schermo del suo cellulare con la speranza che arrivasse una risposta a tutto quel tormento, ma in Usagi si stava allargando qualcosa e lui non comprendeva cosa. La stava perdendo e lo sapeva, adesso se ne era uscito candidamente con questa storia dell'America e di doverlo aspettare per due anni lunghissimi. Era normale una reazione simile.
Scosse la testa e gettò il cellulare sul divano verde del suo salotto, sospirò con amarezza e lanciò distrattamente uno sguardo alla porta che stava in fondo al corridoio. Si maledì, ricordando quale porta fosse. Quella porta colorata di bianco e dal pomello dorato, quella che chiudeva una stanza con una culla bianca e rosa e un fasciatoio ancora incelofanato. Quella porta che in due anni non aveva avuto il coraggio di riaprire, né lui né Galaxia, quella che al solo pensiero di chi avrebbe potuto tener dentro nelle notti gli spezzava il cuore.
Il tempo non cura nulla, si disse. Il tempo è come sale.
Spostò lo sguardo da quella porta e tornò a fissare il suo cellulare che ancora non dava segni di ripresa, ma qualcosa dentro di sé gli diceva di non abbassare lo sguardo. Non ancora. Così, alzò gli occhi e osservò quella porta.
Come sale su una ferita.
Schioccò la lingua nella bocca, pensando che stava perdendo la testa per una ragazzina di diciotto anni, quando dentro la sua stessa casa aveva la prova di un amore finito male. Un amore... doloroso.
Fece quei pochi passi necessari ad arrivare in fondo al corridoio e, quando alzò il braccio, si fermò e scosse la testa, indeciso.
Come poteva tornare dentro quella stanza?
Ricordò quando trovò Usagi a sbirciare lì dentro e il dolore nell'entrare lì dentro fu talmente grosso che non fu capace di dire una sola parola, chiudendosi dentro quel guscio di pietre e diamanti che non lasciava entrare alcuna luce. Solo un'immensa oscurità.
No, non poteva entrare lì dentro. Non poteva essere sommerso da quel grosso dolore un'altra volta e rimanerne annientato proprio qualche giorno prima di partire per Boston. Non poteva annegare ancora dentro quel ricordo bello, quanto struggente, della sua bambina delicata e troppo vulnerabile per il mondo, a quel visino identico a quello di Galaxia e gli era sembrato, già da così piccola, portarsi dietro un dolore massiccio. Schiacciante.
Non poteva entrare dentro la stanza di Chibichibi...
La sua mano strinse il pomello e la porta si spalancò, cigolando mestamente e aprendo una stanza che colpì il naso di Mamoru per l'odore di chiuso e di cipria. L'altra mano accese la luce della stanza e il giallo pallido delle pareti sembrò cadergli addosso, ma i suoi occhi presero a guardare il resto della stanza, non stando agli ordini del suo cervello. Ritrovando tutto al suo posto, niente fuori posto, come il suo dolore. Ancora se ne stava lì, sulla culla.
Le sue gambe lo portarono vicino alla sedia a dondolo, la vernice bianca rischiava di cadere da un momento all'altro e il cuscino imbottito e con un orsacchiotto ritratto sopra era malridotto dalla polvere e dal tempo. Per qualche strano motivo, guardò la culla e la sua tendina bianca con le farfalline colorate e si sentì spiazzato nel rivedere sul cuscino rosa il ciondolo a forma di stella che aveva regalato a Usagi, quando erano stati insieme.
Forse le era caduto lì poco prima, poi c'era stata l'amnesia.
Crollò sulla sedia a dondolo, il ciondolo dorato tra le mani e la testa china, mentre i suoi capelli gli cadevano davanti. Crollò e si dondolò, stringendo la copertina della Disney e il ciondolo con una forza convulsa. Quella stanza puzzava di dolore. Quella stanza non poteva raccontare ancora la storia di Chibichibi con tanta perfezione, non poteva ancora ricordare i riccioli biondi e rossi di Galaxia nella stanza mentre montava faticosamente la culla.
Non poteva ricordarsi con tanto nitore la vistosa pancia che conteneva Chibichibi che nel letto occupava troppo spazio, quel rigonfiamento che gli aveva fatto credere di poter amare Galaxia in qualche modo. Non poteva trovare ancora il ricordo di lui stesso che posava quel peluche a forma di coniglietto nella culla e le sue stesse mani che avevano preso a cullare una culla vuota e ancora felice per l'attesa.
Non poteva avere ancora quei ricordi tanto magnifici e pensare che tutto quello non aveva avuto mai senso, però era così. Ancora ricordava e ancora soffriva, una lama simile non cadrà mai da un cuore squarciato.
Pianse tanto quella sera, a cavallo della sedia dove avrebbe cullato Chibichibi e stringendo una copertina che non aveva scaldato il corpicino giusto e un ciondolo che non era rimasto al collo giusto. Quando ebbe la forza di alzarsi da quella sedia, posò la copertina nella culla e aprì il ciondolo di Usagi, ricordandosi del carillon che era incorporato. La melodia triste e armoniosa affondò soffice nella stanza e riempì le orecchie di Mamoru con dolcezza e con un'immensa tristezza.
Il ricordo di lei gli riempì la mente e si mordicchiò le labbra.
Lì, seduta a terra mentre accarezzava i peluche e la copertina, i suoi occhi coperti da un dolore che osava affrontare e che conosceva attraverso i suoi ostinati silenzi, il sorriso addolcito e spezzato. Lei che non sobbalzò quando lui entrò in quella stanza, ma che lo fece sedere vicino a lei e che gli strinse la mano, senza dire una parola. Lei che lo aveva abbracciato con le lacrime che rigavano le sue guance e il mezzo sorriso che somigliava ad un'aurora.
Lei che adesso riprendeva un po' di amor proprio.
Depositò delicatamente il ciondolo sul cuscino della culla e lo lasciò aperto, facendolo suonare senza fine in quella stanza gialla e rosa. Uscì, ma non chiuse la porta. La lasciò aperta e lanciò un'occhiata prima di andare a dormire, poco dopo aver spento il cellulare.
Per tutta la notte ascoltò quella melodia e il giorno dopo fece le valigie e partì.
Se ne andò senza salutare i suoi amici e Usagi, se ne andò nel completo silenzio. Se ne andò con cicatrici e lividi, con gli occhi rossi e il sorriso bucato. Senza addii struggenti e ti amo urlati. Se ne andò e basta.
Perché è così che succede nella realtà: le persone se ne vanno in silenzio.
   
 
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