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Autore: Shinsey    17/04/2013    0 recensioni
Finn è stato invitato a una festa. Cosa succederà?
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Finn Mikaelson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Sarebbe stata una tiepida e tipica mattina di un autunno inoltrato, se quel giorno non ci fosse stato il vento gelido che scuoteva senza sosta i rami degli alberi spogli.
 Era un vento insistente e pungente, ma non abbastanza forte da spostare le nuvole, grosse nubi che sovrastavano tutta la natura e il dolce quadro autunnale che pareva starsene per conto suo, governato dal silenzio della nebbia palpabile che sembrava non fosse intenzionata a lasciare un minimo squarcio di cielo da cui la luce del sole avrebbe potuto filtrare.
Ma non era un  mio problema.
Non ero né un romanticone che se ne stava fuori contemplando il cielo o l’ambiente circostante,maledicendo il tempaccio che aveva osato interrompere la ‘poesia della natura’, né tanto meno un barbone o un senza tetto che si sarebbe potuto ammalare alla prima folata leggermente più fredda delle altre.  No.
Io ero dentro, in un edificio comunemente chiamato casa, ma che io lo definivo semplicemente come un luogo dove rimanere, passare due o tre notti e poi sloggiare per poi trasferirmi in un’ altra dimora.
 Io non appartenevo a niente e nessuno; la mia vita non doveva essere legata a nulla di particolare, nemmeno ad una promessa.
Avevo acceso il camino, non perché avessi freddo, per quello non ne avevo bisogno, bensì perché sentivo di doverlo fare.
Mi piaceva guardare il fuoco, osservarlo in tutto il suo splendore, il suo colore vivo, il suo movimento infinito e imprevedibile.
Mi rilassava, e nello stesso momento mi ipnotizzava.
Ad un certo punto però, qualcuno tirò qualcosa attraverso la finestra, che si ruppe, andando in mille pezzi, e il freddo raggiunse la mia pelle come un  lieve e delicato sospiro.
Camminai verso quella direzione, colpito e irritato da quel brusco rumore improvviso.
Calpestai il vetro, che si ridusse in minimi pezzetti, simili a tante briciole di pane, finché finalmente trovai ciò che mi interessava: la causa di quella confusione.
Era un articolo di giornale che racchiudeva qualcosa al suo interno. Qualcosa che la mia curiosità mi spinse a vedere e cercare.
Strappai la rivista e la gettai a terra. In mano rimase solo una pietra.
La palpai in ogni sua rientranza, cercando di scoprire se al suo interno ci fosse un non so che di interessante, ma niente.
Era un minerale comune, una roccia senza  valore.
Mi chiesi che senso avesse  aver rotto il vetro tirando una pietra con la possibilità di ferire qualcuno, in questo caso, me.  Sbirciai fuori.
Nessun movimento né in strada, né verso il bosco. Ero sbigottito, sbalordito e stupito.
La situazione non aveva senso, non un perché che avrebbe potuto giustificare un atto così vandalico. Pensai ad uno scherzo, un banale trucco per attirare l’attenzione, una prova.
Dopotutto, era la giornata della notte di Halloween. La notte in cui tutto può succedere.
Tuttavia questa ipotesi non mi convinceva. L’inclinazione e l’angolazione del lancio erano perfette. La pietra, in volo, aveva scavalcato rami e cespugli, ed era arrivata senza fatica dentro casa. Non poteva essere stato improvvisato , ma doveva essere stato programmato, e molto accuratamente.
E a questo seguiva la domanda ‘perché?’ Beh, all’inizio non sapevo che conclusioni trarre:  la pietra si era rivelata inutile. Ma poi mi venne un dubbio.
Rovistai per terra, non ci misi molto tempo, ma abbastanza per ricordarmi dove l’avessi buttata.
Trovata sotto forma di pallottola, cercai di appiattire la carta con il peso del corpo, in modo tale da rendere visibile il più possibile ogni segno.
Rimase comunque leggermente stropicciata, increspata. La toccai.
 Era una pagina fresca di stampa, da come potevo constatare grazie al colore della carta e dell’inchiostro e all’odore;era la numero 31 del giornale della mattina.
Ero sicuro che chi me l’avesse tirata avesse un’idea e un motivo preciso; per questo potevo liberamente escludere il postino dalla lista dei sospettati. 
Ma torniamo alla pagina: essa presentava piccoli buchi dovuti al contatto con il vetro, ed era rotta per la maggior parte negli angoli, quindi  era perfettamente leggibile almeno buona parte, se non quasi tutte, delle parole.
Quello decritto non era un semplice articolo di cronaca, ma era una pubblicità, poche parole a caratteri cubitali e altrettante infinitamente piccole; la foto di una ragazza travestita che più che una strega dava l’impressione di essere babbo natale all’antica, vestito non di rosso ma di nero, come si vedeva in tv anni e anni fa.
Dietro di lei altri tizi in costume e un altro intento a mascherarsi da mummia utilizzando la carta igienica di un bagno di servizio.
“AFFRETTATI, LA FESTA STA PER COMINCIARE” diceva un fumetto che partiva dalla bocca, o meglio, dalla narice destra della donna con la lingua attaccata a un lecca-lecca. Il tizio in mutande e carta igienica sembrava leggere “NO COSTUME? NO DOLCIUME”, mentre gli altri seguivano una frase “LET’S DO IT!”.
Sotto le indicazioni: luogo, data (era ovvia, non so perché fosse scritta) e come arrivare a destinazione.  Conoscevo la strada, o almeno un bel pezzo di essa, perciò non trovai alcun impedimento che mi facesse tardare o rinunciare alla festa.
Ma sì, pensai.  Volevo divertirmi, no? Sì. E quella era un occasione per farlo. *Let’s do it!* dissi convinto. Forse troppo, perché la voce uscì con qualche differenza di tono e ritmo dal solito.  
Andai in camera; avevo già deciso quale vestito indossare, ed ero fiero della mia decisione e originalità. Se c’era una cosa per cui andavo matto, quella era ‘me’, ‘io’, ‘Finn’.
Adoravo essere al centro dell’attenzione, mi dava un senso di superiorità e potere.
E la cosa più bella è che sapevo di essere fatto per questo.
 L’avevo sempre saputo, forse gli altri no, ma io sì; e come biasimarli, piccoli egocentrici egoisti ingrati, io ero il Grande Finn e loro avevano tutti i motivi per invidiarmi.
 Ero stanco di sentire le lamentele degli altri, di Klaus, specialmente, che si riteneva il migliore, il prescelto.
*Eppure, caro mio, non credi che se tu fossi stato davvero così importante mamma ti avrebbe messo al mondo per primo? Bah, invece ha avuto la necessità di creare me. Tu non sei altro che il frutto di una notte di divertimento e sfogo sessuale. Non hai alcun motivo di reclamare una qualche importanza, dal momento che sei al mondo solo grazie a un passatempo comune e naturale e non per amore  serio e incondizionato. Il tuo nome è una prova. Sei sempre stato e sempre sarai un impiccio impiccione per tutti.* non sapevo perché, ma la rabbia contro Niklaus  mi aveva indotto a parlare allo specchio e con lo specchio, come se ce l’avessi davanti, ma con la differenza che era indifeso e disarmato.
Mi abbottonai  la camicia e andai in bagno.
 Ero sicuro che con quel costume avrei dato nell’occhio.
Si prospettava proprio una bella serata, almeno per me.
Finita la doccia, tornai in sala per rileggere bene le informazioni a proposito della festa, e con mio grande stupore, vidi che qualcosa era cambiato.
I vetri non erano più per terra, e la finestra non era rotta. La pietra era sopra il tappeto e il giornale era dove l’avevo lasciato.
Mi avvicinai e notai che portava una scritta che prima non avevo notato, forse perché prima non c’era: “See you later, baby!”.
 La cosa mi fece saltare in aria e crebbe in me un misto di ansia. Ero combattuto tra una sorta di rabbia e di divertimento. Chi mi aspettava? E chi aveva osato chiamarmi “baby”?
Lasciata da parte ogni singola emozione, quella sera andai alla festa come avevo programmato.
Abiti di colori sgargianti in mezzo ad altri del tutto neri, viola, rossi o bianchi.
Giacca arancio e faccia verde. Sì, avete letto bene, verde. 
Beh,  il mio obiettivo non era imitare Shrek, ma il protagonista di The Mask.  Passeggiavo, mentre le persone travestite tutte nello stesso modo mi fissavano; lo sguardo pieno di invidia e stima per la geniale e originale trovata, o almeno così avevo tradotto io.
Dopo aver spaventato due bambini e una nonnina che pensava che la mia fosse una maschera di bellezza al cetriolo e sedano, ne ero sempre più convinto: la serata sarebbe stata un successone.
Entrai nella villa un tempo abbandonata, che ora era piena di gente venuta per la festa. Tutti ballavano. In una sala la musica era alta, rock, e le coppie erano formate da scalmanati scatenati che si dimenavano con una furia da Jurassic Park, mentre nell’altra l’atmosfera era completamente ribaltata: la stanza piena di sonno,  pesante, e chi si muoveva aveva lo stile di Topo Gigio addormentato e mezzo ubriaco.
Le attraversai soltanto: non intendevo restare lì ad impazzire di noia o di orrore, mentre la gente vomitava o puzzava di sudore e birra di scarsa qualità ma di abbondante quantità.
Ad un tratto sentii una voce, o così mi parve: “Finn”… “Finn..”. All’inizio sembrava un ronzio, poi si accentuò finchè non mi convinsi che qualcuno mi stesse realmente chiamando.
Sentivo la voce sempre più vicina. Ormai sembrava quasi che pochi metri ci stessero separando. Ero curioso.
Dovevo solo oltrepassare una sala colma di effetti speciali.
Ragni da tutte le parti, piccoli, grossi. Non erano velenosi, ma mi facevano rabbrividire. Specialmente il modo in cui penzolavano come se stessero cercando di toccarmi. Uno ce la fece. Il segno del morso sul mio polso era evidente. Speravo che sarei diventato Spiderman, ma la fortuna volle che quello non facesse parte del mio futuro.
Passai sotto una scala e, nell’impeto di appoggiarmi a qualcosa o qualcuno, rovesciai del vino sopra dei costumi.
 Niente da fare. “Finn, Finn…”provai ad attaccarmi ad un bancone ma rovesciai tutto ciò che vi era sopra, compreso del sale.
 Alla fine, caddi. Non come corpo morto cade, ma come un ubriacone, volteggiando di qua e di là con la testa che girava e il battito a mille.
 Non riuscivo più a respirare e no, non era per l’emozione. L’atmosfera diventava insostenibile. Vedevo tutto sfumato.
Non so bene dove caddi dopo un lungo vagabondare privo di senso e grazia, ma so che mi ritrovai tra le braccia di un’infermiera sexy.
Pensavo di essere stato molto fortunato. Solo più avanti mi accorsi che quella notte la fortuna mi aveva girato completamente le spalle.
Fu solo un attimo, perché poi mi addormentai. Non so per quanto tempo, ma tanto bastò per rintontirmi ulteriormente e nel frattempo ad aiutarmi a ritrovare le forze.
Mi risvegliai con gli occhi che bruciavano. Solo. Non c’era traccia dell’infermiera. Che fosse stata solo un sogno? L’unica cosa certa è che la voce continuava a chiamarmi. ”Finn..Finn..”
Non mi sembrava il caso di rispondere, non sapevo  a chi dire cosa, per cui mi limitai a seguirne il suono. Mi trascinai davanti ad una porta chiusa. La  voce sempre più vicina, e proveniva da lì dentro.
Aprii la porta senza difficoltà e mi ritrovai in una stanza che pareva quella di una bambino. Il caminetto col fuoco scalpitante e sfavillante.
Al centro una sedia a dondolo. E dondolava, da sola. Sembrava non ci fosse nessuno, eppure il suo movimento suggeriva il contrario.
L’atmosfera era fredda nonostante il fuoco caldo che emanava una luce non così debole. Alla mia destra c’era un quadro con un nome scritto a caratteri cubitali: NINFA SIMELNOK. * che nome bizzarro, deve sicuramente appartenere ad una russa o polacca.* pensai.
Mi accorsi un po’ in ritardo che la voce era cessata e  la sedia a dondolo si era fermata. Quando constatai ciò, il fuoco si spense, e il silenzio occupò la stanza insieme ad un buio opprimente.
Silenzio. Un silenzio di tomba, e non solo letteralmente.
Per fortuna avevo con me una torcia, che prontamente stavo per accendere quando dietro di me sentii un rumore.
La puntai verso il quadro.
 E con orrore notai che era diventato, forse lo era sempre stato, una lapide.
La tomba cominciò a tremare, e dalle pareti cominciò a sgorgare del liquido rosso.
E non era polpa di pomodoro e nemmeno vernice.
Lo conoscevo bene.  Poi un grido.
Uno soltanto, ma alquanto terrificante.
Degli occhi verdi, di un verde smeraldo.
Quelli dell’infermiera e gli stessi della ragazza del giornale, e poi un nome: anzi, delle lettere: Ninfa Simelnok era l’anagramma di Finn Mikaelson.
Dallo stupore mi cadde la torcia che si frantumò in piccoli pezzi.  E poi tornò il silenzio, e con esso, il buio.*
 
 
  
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