Cammino lesto, basso con la testa, mantengo stretto il fucile tra le mie mani, il viso sudato per la paura, gli occhi lucidi e irritati dal polverone alzato dagli spari e dalle esplosioni. Il mio plotone si muove ed io annesso, con un po' d'esitazione, lo seguo, mentre i nemici avanzano. Loro sono preparati, sono forti, sono abili, si sentono ad un livello superiore. Molti di noi, al contrario, sono reclute. C'è una boscaglia dove potersi riparare e, per qualche minuto, ci riposiamo, prima di tornare all'inferno.
Ho 19 anni, vivevo a Londra e studiavo, prima d'essere assoldato; per mantenermi lavoravo di notte, come guardia in un'acciaieria destinata alla fabbricazione di cannoni. Non avevo famiglia che potesse aiutarmi con le spese, la guerra si era portata via tutto il quartiere dove abitavo in precedenza, tranne pochi fortunati. Ero di fatto solo, ma ciò non mi abbatteva e, ad aiutarmi nel continuare gli studi, era una giovine fanciulla che seguiva lo stesso mio corso di letteratura. Lei non mi conosceva, non aveva neanche idea di come mi chiamassi, mentre, invece, io conoscevo il suo: Elizabeth. Ah, che nome splendido. Per tre mattine alla settimana potevo ammirarne la bellezza, una fila avanti rispetto alla mia, quattro posti a destra da me. Era sempre concentratissima, non distoglieva mai lo sguardo dal libro se non per annotarsi gli appunti scritti dal Professor Burbenk alla lavagna, uno degli insegnanti più anziani dell'istituto, sovrappeso e d'indole cinica e fredda che, tuttavia, mostrava passione vera verso l'arte della letteratura. Nella sua materia non avevo grosse difficoltà, o almeno fino a quando il mio chiodo fisso non diventò Elizabeth; passavo le ore a contemplarla, a guardare la sua chioma castana, leggermente mossa, scenderle giù fino a metà dorso, ricamando nel mio pensiero il suo volto, le sue avvenenti iridi blu e delineandone il perfetto naso, leggermente a punta, che io amavo sognare ad occhi aperti ogni sera prima di coricarmi tra le lenzuola, facendomi cullare, poi, dai mille pensieri che m'affliggevano. I più ameni istanti erano quelli in cui le sue rosse labbra le disegnavano sul volto dei rari sorrisi.
Passarono mesi prima che mi decidessi a fare la prima mossa e, quando finalmente mi feci coraggio, il caso volle che il suo posto in aula si mostrasse vacuo, quel giorno, come per molte lezioni successive. Mano a mano che il tempo passava, ascendeva il pensiero sulle plausibili cause delle sue assenze, ma mai avrei potuto intuirne il movente.
Era martedì, m'accomodai sulla consueta seggiola in legno, posai svariate carte d'appunti e controllai il banco di Elizabeth, ma, come ormai d'abitudine, era vuoto.
Non sapevo null'altro di lei, così decisi d'indagare, per scoprir chi frequentasse e chi fossero i suoi amici; pensai di seguirla ed osservar ove le sue eleganti gambe la conducevano al termine della lezione; feci ciò quello stesso giorno, cercando d'essere il più disinvolto possibile. Giunsi davanti all'aula d'aritmetica e notai che si mise a parlare con una ragazza bassina, dai capelli lunghi, anch'essa molto carina, ma di certo non paragonabile ad Elizabeth.
M'avvicinai il più possibile, mantenendo comunque un certo divario ed una naturalezza tale da non essere scambiato per matto o maniaco pedinatore. Il rumore mi impediva di capire su quali argomenti volgesse la loro discussione, ma la sublime vista del suo sorriso allegro, mi fece dimenticare per un attimo il motivo della mia presenza. Si coprì la bocca con una mano e, quasi forzatamente, smise di ridere per poi mettersi a piangere un momento dopo ed essere abbracciata dall'amica. Perché piangere? Cosa le era successo di così terribile? Che c'entrasse la sua assenza così prolungata? Dovevo capirne di più! Forse non ci sarei riuscito e non sarei nemmeno dovuto immischiarmi, ma io dovevo sapere.
Nel frattempo la guerra continuava ed io alla radio ascoltavo quali fossero le vittorie e le sconfitte, esultando a dovere quando opportuno, tra me e me.
Cosa dirle? Ciao? Conosci Elizabeth? Nah, sembra stupida come cosa.
Così però feci, "Ciao, conosci Elizabeth?"
La ragazza mi guardò un po' stranita e poi mi chiese a quale Elizabeth facessi riferimento e, dopo la mia risposta, mi avvertì che non conosceva nessuna Elizabeth James.
Cercai mentalmente ogni soluzione, ciononostante, nella mia testa, perpetuava l'idea che fossi stato ingannato.
Ma a quale scopo? Quella ragazza, di sicuro, non mi conosceva e non poteva sapere ch'io fossi: avrei potuto essere una persona con un messaggio importante per Elizabeth, sempre che quello fosse il suo nome. Certo che lo era, doveva esserlo!
La lezione successiva di letteratura, mi sedetti e lei, ancora non c'era. Presi il quaderno e cominciai a segnarmi le annotazioni prescritte alla lavagna da Burbenk. Non passò molto che una mano femminile poggiò sul mio banco un foglietto di carta; alzai lo sguardo ed era Elizabeth, diretta impassibile al suo posto. Non esitai un momento ad aprire il bigliettino visibilmente spiegazzato, notando subito una meravigliosa calligrafia che componeva in blu la parola "Elizabeth?"
Pensai un momento a cosa e a come risponderle, dato che quest'ultima non s'accinse mai spostar lo sguardo su di me; viceversa i miei occhi si poggiavan unicamente sulla sua bellezza, alternandosi al biglietto. Dopo una buona manciata di minuti, mi decisi a scrivere sotto Elizabeth, semplicemente "Si.", poi lo richiusi e lo posai sul bordo del tavolo aspettando di consegnarglielo a fine lezione. Diamine, stavo per avere un contatto diretto con lei! Solo che non avevo la più pallida idea di come cimentar una discussione. Ti guardo sempre, sei sparita e devo sapere perché? Non mi pareva molto idoneo.
Suonò la campana e io stavo ancora terminando di scrivere gli ultimi appunti prima di accingermi a ritirare le mie cose, quando la sua mano passò e si portò via il foglietto, senza che il suo sguardo incrociasse minimamente il mio.
Quella ragazza m'intrigava sempre più e dovevo sapere prima di tutto quale fosse il suo nome: Elizabeth?
Mi svegliai la mattina di sabato molto stanco, dato che la sera prima all'acciaieria ci fu un furto e l'inseguimento fu estenuante. Tuttavia il pensiero costante di incontrarla pochi giorni dopo mi rendeva felice e mi dava forza per affrontare bene la giornata. Andai a controllare la casella di posta e, tra le varie tasse da pagare, v'era la lettera di reclutamento.
Il plotone deve ripartire e io con esso. Mi sono riposato abbastanza. Riprendo in spalle lo zaino, punto il fucile avanti a me e, assieme ai compagni di battaglia, marcio verso la morte.