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Autore: La Mutaforma    19/04/2013    1 recensioni
Quanta tristezza hai dovuto affrontare, amico mio? Quanto valgono adesso le tue fughe, il tuo imbarazzo?
Dov’è l’amore?

Feliciano pianse più forte, perché tanto Ludwig era dietro di lui e non poteva vederlo.
O forse perché era solo un bambino, e per i bambini non c’è vergogna a piangere.  
Qualcuno ha creato il mondo, bello come niente. Ci ha regalato il cielo, le stelle, il sole, il mare, la musica. Abbiamo inventato l’amore.
Eppure ci facciamo la guerra. 
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Chibitalia, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Lovino era solo.

Di nuovo.

Aveva rubato un cavallo ed era corso il più velocemente possibile ad Ancona.

Saverio gli aveva detto che era una pazzia, ma Lovino era pazzo. Pazzo e italiano. Inebriato del desiderio cancerogeno dell’unità, ormai il suo male più grave.

Un’infezione incurabile, che bruciava più del proiettile nella spalla.

La ferita  pulsava ancora dolorosamente, ogni giorno con più fermezza. Ma lui non aveva tempo per soffrire, non aveva tempo per morire.

Quando aveva sentito che la marina italiana si sarebbe radunata ad Ancona si era fiondato su un cavallo ed era partito al galoppo.

Ricordava ancora la parole che Saverio gli aveva gridato.

Sei un ragazzino! Non morire per l’astratto! La vita è lunga! Pensa a tuo fratello!

Lovino scosse la testa e piantò la punta del fucile in terra. Pianse.

Pianse perché si sentiva debole.

La ferita bruciava più di quel senso di inadeguatezza che provava.

Era arrivato ad Ancona poche ore prima: sceso a terra si era sentito morire. Aveva parlato con alcuni soldati della marina.

Lo avrebbero accettato, se non fosse stato per la spalla ferita. E la giovane età.

Lovino strinse il manico del fucile e si inginocchiò a terra, piangendo con violenza.

Guarderai da qua la maestosità della marina italiana, ragazzino.

Ma lui non voleva guardare. In quegli anni non era mai stato spettatore. Raccolse il fucile e si asciugò le lacrime infantili, e si diresse al molo. Con una manciata di sassi nelle tasche, per lanciarli in mare, e aspettare che qualcosa più in là del suo sguardo cambiasse.

Intanto, sono di nuovo solo.

 

Al suo risveglio, Feliciano si sorprese di come, pur avendo gli occhi aperti, tutto intorno a lui sembrava buio. Di un buio che non si dissolveva sbattendo violentemente le palpebre. Un buio dentro, appena sugli occhi, e che non andava via.

La consapevolezza arrivò in fretta, senza sconvolgerlo troppo, come se in fondo lo avesse saputo dall’inizio.

Così, questa è la prigione.

Notò con sollievo che il padrone non era stato tanto crudele da separarlo da Eliza, ancora svenuta al suo fianco.

“Eliza? Sei sveglia?”

La ragazza si mosse leggermente e si spostò sulla schiena. Mugolò di dolore, mantenendosi la testa con una mano. “Ita-chan? Cosa è successo?”

Il ragazzino scosse il capo e la aiutò a sedersi contro la parete di pietra. “Siamo in prigione, Eliza. Adesso non possiamo che aspettare”

Aspettare cosa?

La ragazza piegò le ginocchia sotto la gonna e nascose il viso tra i lunghi capelli castani.

Feliciano la sentì singhiozzare, ma l’umidità nella cella assorbiva ogni cosa.

La prigionia annullava tutto.

La luce, il tempo, il dolore. Persino la speranza.

Eppure Feliciano si accasciò alla porta di legno mezza marcia, e ci poggiò sopra la fronte. Non pianse.

Non ebbe vergogna di sperare ancora.

Chiuse gli occhi. Sognò Venezia, pur senza dormire.

Sognò la nebbia di mattina, quando apriva la finestra e guardava la laguna e le barche. Sognò suo fratello che impastava la pizza.

Sognò di tornare. Finalmente a casa propria.

 

Prussia lo riconobbe in un momento.

E Ludwig quasi non gli credette quando lo vide in ginocchio davanti a sé, con quegli occhi rossi persi, di una tristezza quasi rabbiosa. Gilbert lo abbracciò piangendo, e pianse anche lui. Un po’.

“Venti anni, fratello mio. Venti anni e ora ti posso riabbracciare”

Ludwig sorrise, perché suo fratello aveva il familiare odore della birra fresca e della guerra.

Pensò che forse qualcosa in quei venti anni di lontananza non era cambiato.  

“Perdonami, fratellino. Perdonami” gemette il più grande, stringendolo convulsamente a sé come aveva sognato spesso in quei venti anni.

Ludwig gli accarezzò i capelli color cenere. Non aveva nulla da perdonargli.

Aveva perdonato già tutto in quei venti anni di solitudine.

Gilbert si asciugò gli occhi prima che qualcuno potesse vederlo, poi lo aiutò ad alzarsi e lo portò in casa.

Il biondino gli raccontò il suo viaggio. Di come si era salvato grazie ad un brav’uomo che lo aveva caricato sul suo carro e lo aveva portato fino a Berlino. Di come si era nascosto nella paglia quando aveva sentito avvicinarsi il cavallo di Austria.

Il suo povero cuore così ansioso. Il suo pensiero che era rimasto fisso su Feliciano, e non aveva più pensato ad altro.

Gilbert gli chiedeva con pari ansia cosa ne fosse stato di Ungheria e gli si dipinse in viso un’espressione rabbiosa quando sentì il suo racconto.

“L’hanno portata via?”

“Sì”

“Pagheranno. Vado a Vienna!” disse il condottiero, furibondo, già avviandosi verso le porte del suo palazzo. Ludwig lo afferrò per il mantello, una fermezza difficile da esprimere con i suoi quindici anni.

“No. Devi finire la guerra. E’ così che la salverai!”

Gilbert sgranò i grandi occhi rossi, consapevole pur rifuggendo quell’idea.

“Ma… Eliza… cosa ne sarà di lei? Io e lei siamo amici da quando eravamo bambini…” lui guardò lontano, i suoi occhi cupi e malinconici si posarono su una Berlino spenta e vuota.

Ogni posto è vuoto, senza di te.

“La guerra è più importante, Gilbert. Finiamo questa guerra in fretta”

Il condottiero lo guardò e si appoggiò alla parete, fingendo naturalezza.

Poi ordinò ad un inserviente che fosse preparato l’esercito.

“Ti aspetto, Austria. Ci vediamo a Sadowa”

 

Si incontrarono, sì.

Fu diversa dalle altre battaglie a cui Gilbert aveva partecipato.

Perché c’era suo fratello con lui, perché stava combattendo per qualcosa di giusto.

Fu una vittoria così eclatante che l’albino, quando calò il silenzio sul campo di battaglia, gettò un urlo liberatorio.

Lo portarono via febbricitante, mentre ordinava che gli venisse portata carta e inchiostro, che doveva scrivere alla sua amata, anche se non aveva mai chiamato così Eliza.

Era il 3 luglio e Austria tornava a casa sconfitto.

 

Era il 20 luglio e Lovino stava ancora sul molo. L’isola di Lissa era lontana e quasi non la riusciva a vedere quando il sole era alto gli andava negli occhi.

Aveva fatto bene quel giorno a lasciare il molo e andarsene in giro per Ancona, aspettando che accadesse qualcosa.

Poi aveva sentito la gente mormorare.

L’Italia è stata sconfitta.

Perché Persano ha fatto ritirare la flotta?

Lovino ormai non si sorprendeva più, non piangeva più per l’Italia.

Perché sentiva ancora le parole di Saverio che gli rimbombavano nella testa.

L’Italia non esiste.

Però lui esisteva. E che esistenza era la sua! Da solo. Ovunque andasse, la solitudine era la sua unica compagnia.

La solitudine, i sogni infranti, i soldi che non aveva per comprarsi un po’ di vino.

Sono stufo di fare il brigante.

Sono stufo di essere il ragazzino meridionale che nessuno conosce.

Chiuse gli occhi, e si chiese perché con lui non ci fosse Antonio in quel momento. 

   
 
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