Disclaimer:
i
personaggi sono proprietà di Fujimaki Tadatoshi.
Note: post Winter
Cup (si suppone con il nuovo anno scolastico, ergo
Imayoshi è già diplomato).
Dopo lunga riflessione, ho deciso che questo povero uomo è divertentissimo da
prendere velatamente in giro mentre si scrive di lui.
A IanGD, che è un cosino carino (L) Buon compleanno
<3
Come ogni adolescente, c’erano molte cose che lui
sognava di diventare, in ambito scolastico o sportivo; era necessario, alla sua
età, iniziare a muoversi in una precisa direzione e fare una scelta e non era
un mistero che un ruolo fondamentale fosse quello di genitori, insegnati e
compagni più grandi.
Se si parlava dei suoi senpai lui pensava necessariamente all’ormai ex capitano
della squadra, ossia Imayoshi Shoichi, all’epoca diplomando a dir poco
complicato da inquadrare e comprendere appieno – sempre che fosse possibile
capirlo del tutto, anche se era stato comunque un buon capitano – per una
persona istintiva come lui. Eppure osservando il moro e ritrovandosi a ricoprire
ora il suo stesso ruolo, c’erano molte cose di cui Kosuke era sicuro e
riguardavano tutte Aomine Daiki, con sempre presente la parola “mai”.
Non avrebbe mai accettato il suo fare
come gli pareva – sebbene dopo qualche sconfitta si degnasse di presenziare o
essere vagamente puntuale qualche volta più di prima.
Non gli avrebbe mai lasciato l’ultima
parola.
Non sarebbe mai andato d’accordo con
lui.
Nei rari momenti in cui non gli sbraitava contro,
Kosuke osservava Aomine nel contesto di squadra, facendo spesso saettare lo
sguardo da lui agli altri mentre Momoi gli faceva il resoconto dei dati di
allenamento su richiesta del coach – sembrava che questi avesse chiesto alla
manager di aiutare Wakamatsu i primi tempi, di abituarlo a tutti quei dettagli
che Imayoshi in quanto capitano aveva sempre chiesto da sé e che il biondo non
era abituato a dover considerare.
A sua insaputa – almeno finché la ragazza non glielo aveva confidato per
incoraggiarlo – Shoichi le aveva chiesto di tenerlo d’occhio, sostenendo che
Kosuke sarebbe stato un buon capitano ma a modo suo, che in lui non avrebbero
dovuto cercare l’ombra dello stesso Imayoshi perché sarebbe stata una partita
persa in partenza. Se inizialmente non gli era sembrato proprio un gran
complimento, Momoi si era premurata di spiegare che, benché non fossero state
testuali parole dell’ex capitano, di certo Imayoshi intendeva dire
semplicemente che avevano indole troppo diverse fra loro perché potessero
divenire simili su un campo da basket.
Eppure Wakamatsu non poteva fare a meno di notare che, nell’avere a che fare
con Aomine, Imayoshi era sempre stato a suo modo più efficiente – sebbene non
avesse mai digerito il fatto che lo viziasse lasciandogli fare il bello e il
cattivo tempo solo per il talento che si ritrovava.
Avrebbe voluto dire, sentendosi con la coscienza a posto, che il motivo per
cui non andava minimamente d’accordo con
il moro fosse la strafottenza di cui il carattere di questi sembrava essere
fatto – in parte di certo c’era scarsa compatibilità tra loro, di sicuro, ma
non era davvero tutta colpa dell’ace
della Touou – ma la verità era che ad una possibile antipatia a pelle si era
aggiunta un’altra sfumatura, una motivazione subdola e meschina a modo suo, di
cui Aomine non aveva colpe e Kosuke lo sapeva bene.
«A-Aomine-san!» sentì esclamare e non ebbe davvero bisogno di alzare lo sguardo
dalla cartelletta piena di schemini che Momoi gli stava mostrando, no.
Si incazzava abbastanza anche senza guardare Aomine che rubava qualcosa a
Sakurai, o fingeva di maltrattare Sakurai, o soffocava in un mezzo gesto
(secondo lui) complice Sakurai.
A dire il vero l’unica cosa per la quale avrebbe voluto i nomi dei due compagni
di squadra nella stessa frase era: “Aomine, gira il culo e allontanati da
Sakurai”.
O qualcosa sul genere.
Non ne aveva fatto parola con Ryou, perché aveva capito fin dall’inizio che non
sarebbe servito a nulla se non a far sentire l’altro ingiustamente e
inutilmente in colpa; avrebbe ottenuto nient’altro che una maggiore paranoia da
parte del castano e non voleva né sarebbe stato giusto – la verità era che per
orgoglio aveva taciuto e poi erano arrivate tutte le altre consapevolezze, sì.
La sua idea di Sakurai, all’inizio, era stata
probabilmente quella che per istinto avevano avuto tutti: morirà di stress
entro un mese.
C’era da dire però che non aveva mai pensato male di lui in termini di bullismo
o che – cosa che a vederlo, ne era certo, dovevano aver pensato in molti – ma
anzi fin dalle prime volte era stato anche divertente osservarlo: era a suo
modo comico nelle reazioni che aveva eppure, nonostante il continuo scusarsi,
quando lo guardavi non pensavi che fosse lì per caso, non ti chiedevi come
fosse finito (evidentemente per un errore) in palestra.
Sakurai il suo posto l’aveva sempre avuto e guadagnato ed era, quella, una cosa
che a Kosuke era da subito piaciuta e gli aveva fatto spuntare un sorriso prima
ancora che se ne accorgesse.
Forse il punto era averlo osservato a lungo senza nemmeno essere conscio della
cosa, o magari l’averlo semplicemente guardato sotto un aspetto diverso, avvicinandosi
a lui gradualmente; ma la cosa importante era che un giorno, semplicemente, non
c’era stata più distanza da colmare – la prima volta che aveva posato le labbra
sulle sue era stato rozzo e irruento, istintivo e passionale, aveva cercato
quelle di Ryou senza il minimo preavviso e lo aveva baciato, nient’altro.
Per un attimo doveva ammettere di essersi stupidamente chiesto se una persona
potesse morire in apnea, perché Sakurai non aveva respirato per un po’.
Un bel po’.
Poi il suo viso era diventato di un colore così vicino al porpora che
Wakamatsu, dopo un momento di completo panico nel vederlo con un’espressione
simile a quando piagnucolava spaventato, lo aveva trovato tenero e si era
avvicinato di nuovo, unendo le loro labbra in un bacio molto più tranquillo e
dolce, senza fretta.
Quando Sakurai aveva iniziato a balbettare qualcosa su quanto fosse stato
ingiusto l’agguato da parte dell’altro e di come fosse stato colto alla
sprovvista, impreparato e di come questo avesse portato a molte altre cose,
Kosuke aveva sorriso e poi ridacchiato, posato la fronte contro la sua e
ricevuto un pizzico dolorosissimo sul braccio – aveva imparato che Ryou non era
così indifeso come si credeva.
Lui e Sakurai non fanno mai cose come tornare insieme,
o meglio lo fanno ma hanno l’accortezza di farlo sembrare casuale e fortuito.
Non è mai stato un problema di vergogna per la loro relazione, anzi, ma un
semplice adattarsi al carattere estremamente riservato del castano e all’incapacità
cronica di Wakamatsu di passare sopra alle battutine che ne conseguirebbero,
seppur pronunciate senza cattive intenzioni.
Perciò lui e Ryou non si aspettano al cancello se non quando devono comunque
uscire e non andarsene a casa dell’uno o dell’altro, ed è solo per quello che
ha lasciato che il castano se ne andasse con Aomine – lo sa che Daiki non lo
punta in quel senso, tette-sessuale com’è, ma non è altrettanto facile
spiegarlo alla sua testa e alla sua inclinazione all’incazzatura facile ed
immotivata.
Quando arriva quasi alla fine del cortile che lo porta dentro e fuori scuola
ogni giorno è vicino al muretto che trova proprio Sakurai, che digita
distrattamente qualcosa sul cellulare; lo affianca che il castano quasi non se
ne accorge e sussulta quando Wakamatsu si china leggermente su di lui e gli
chiede come mai è lì.
«E-Eh? Ah, s-scusa, ho pensato di aspettarti.» è quel che balbetta tra la
sorpresa e il suo normale modo di fare.
Nonostante si frequentino da mesi, non è ancora riuscito a fargli capire che
non c’è bisogno di innervosirsi quando parlano o esprime la sua opinione – è irascibile,
ma non così tanto.
Benché non abbia la minima idea del perché Sakurai abbia deciso di aspettarlo
proprio quel giorno lo affianca e si avvia, sbircia di tanto in tanto in sua
direzione con la coda dell’occhio, mantiene la conversazione chiedendo questo o
quello: benché Wakamatsu non sia l’esempio vivente della pazienza ha capito,
con il tempo e la frequentazione, che il castano non è il tipo di persona che
puoi aiutare aggredendola o tempestandola di domande, specie quando è già
nervosa.
Perciò non importa quanto a lui invece metta ansia se gli altri girano intorno
alle questioni, fa del suo meglio per dargli il tempo che gli serve e quando
Ryou finalmente decide di parlare quasi tira un sospiro di sollievo.
«K-Kosuke-san» inizia, e lui vorrebbe davvero dirgli che basta solo “Kosuke”,
che ormai potrebbero abbandonarli i suffissi e i ruoli, ma poi ripensa a quanto
ha impiegato per convincerlo che non doveva usare il cognome e allora desiste: «va
tutto bene?»
Nel preciso istante in cui l’altro domanda Wakamatsu si rende conto che non sa
bene se ridere o farsi un esame di coscienza, perché sa che Sakurai è il tipo di persona che per carattere è portato ad
osservare gli altri – perché è sempre troppo ansioso di fare o dire qualcosa
per la quale poi si scusa comunque, in realtà, e non ha altro modo che spiare
dall’espressione altrui se ciò che teme si sta concretizzando – e con Kosuke
non è mai così complicato indovinare che cosa gli passi per la testa.
Non è difficile immaginare che sia stato il primo ad accorgersi della sua
irritazione in palestra e, soprattutto, a cosa fosse dovuta.
Hanno già affrontato quel discorso una volta, una delle rare – in mesi di
relazione – in cui hanno discusso e a Wakamatsu non piace l’idea di ripetere l’esperienza,
perché si conosce e sa che finirebbe con l’alzare la voce anche non volendo.
Perciò, con tutta la calma che sta imparando ad esercitare da quando Sakurai è
diventato più di una presenza di semplice contorno per lui, respira piano e
lentamente.
«Non è colpa mia se Aomine mi urta il sistema nervoso.» sbotta – a dimostrazione
che possono influenzarsi, loro due, ma non si cambieranno mai a tal punto e
dopotutto va bene così, anche se Kosuke ora si maledice per la totale
incoerenza del proprio pensiero rispetto a quanto poi invece dice e fa.
Stavolta però non ci sono litigi, non ci sono discussioni sull’insensatezza di
quella che a conti fatti è gelosia bella e buona; c’è solo Sakurai che cerca
apparentemente di sparire sul posto come se fosse colpa sua e Kosuke che si
schiaffa una mano in viso.
È il quello il momento in cui si arrende definitivamente: adocchia la strada
che stanno percorrendo fatta per lo più di negozi e gremita di persone, lascia
scivolare senza troppi complimenti la mano fino al braccio del castano che
afferra e poi lo tira di lato, gira un angolo e lo guida per la prima parte di
quella strada secondaria in cui probabilmente – di norma – entrano solo i bulli
e i barboni.
Non gli dà tempo di protestare e semplicemente lo fronteggia, si china su di
lui – fa giusto in tempo a vederne l’espressione preoccupata, temendo forse
irrazionalmente che l’idea del più grande sia di pestarlo o simili – e lo
bacia, in un modo che non somiglia né al primo che gli ha dato mesi prima, né a
quello che è seguito subito dopo le proteste del castano.
Lo bacia con la dolcezza di chi non ha fretta di un contatto da tempo
desiderato ma che si era negato e, al tempo stesso, con la sottile urgenza di
chi non sa comunicare bene con le parole quanto con i gesti; lo bacia con il
bisogno di fargli capire che il suo fastidio non è causato dall’infantile rivalità
con Aomine ma dall’istinto di tenere per sé qualcuno di importante.
E quando si allontana e socchiude gli occhi lo vede che Sakurai ha il viso
paonazzo e non lo guarda – non lo fa quasi mai – e allora gli scappa da
sorridere e posa la fronte contro la sua, chiude gli occhi e lo ascolta
balbettare qualcosa che nemmeno capisce bene ma che sa essere lo sfogo per l’imbarazzo
che gli ha appena causato.
La sorpresa è quando sente un bacio leggero e casto da parte dell’altro e,
ripristinando il contatto visivo, lo vede assumere quell’espressione che tanto
somiglia un broncio e che Sakurai si concede solo in sua presenza o sul campo
da basket – mai con Aomine, mai con nessun altro.
«Q-Questo è sleale.» borbotta neanche avesse subito un’offesa gravissima, ed è
così carino che Kosuke deve sospirare rumorosamente e ricordarsi che sono in un
vicolo e che il suo ragazzo apprezza poco l’avere occhi su di sé: «E-E
comunque, Aomine-san mi terrorizza, non mi corteggia…!»
fa notare, cercando di avere voce in capitolo – e Kosuke lo sa che ha ragione,
ma ammetterlo è un altro discorso.
Perciò assume un’espressione da ragazzino testardo e viziato, lo intrappola in
un mezzo abbraccio con la sinistra e la destra scivola con naturalezza a
prendere la mano dell’altro e ad intrecciare le dita con le sue: «Certo che non
ti corteggia, perché ha il romanticismo di un tubero!» specifica e quindi no,
non smetterà mai di fare del compagno di squadra il capro espiatorio della sua
gelosia.
Quella è un’altra delle tante cose che lo riguardano che sussiste in una frase
con la parola “mai”.
La cosa che davvero gli importa, però, è che nonostante l’impaccio dell’altro
quella sua affermazione lo fa sbuffare divertito e accennare un sorriso, e
quella è la sua vittoria – il sorriso di Ryou che sembra dirgli che ha perso
ogni speranza con lui e che non rivolge a nessun altro, facendo di Kosuke la
propria eccezione.