“Ecco fatto.”
Ed il suo viso era così, pieno di sollievo e di incanto.
Come quello di una bambina ancora tanto piccola da temere la morte per
un graffio.
Era così, Clara.
Fragile.
“La ringrazio. Sono
sbadata come al solito. Mi scusi per il disturbo...”
”Non pensarci. La prossima volta, però, fai attenzione. Mi sta bene
che tu aiuti Martha in cucina, ma non se ti fai male ogni volta.”
“Sono mortificata.”
”Su, su, non hai nulla di cui scusarti. Corri, c’è molto da fare.”
E lei correva via,
i suoi passi soffici, come se non pesasse. Era difficile rimproverare
una creatura tanto sottile. Da quando aveva iniziato a lavorare in
cucina, in cortile, nei corridoi, ovunque, non faceva che affaticarsi.
Per Hoffman e per Martha era più un ulteriore pensiero, ma entrambi si
sentivano divertiti dalla sua presenza. I bambini non riuscivano a
capire cosa fosse Clara, se considerarla una di loro o una
degli adulti. E lei riprovava, si sedeva sul pavimento, fra la
polvere, a far correre i treni e a parlare di sciocchezze.
Neanche Hoffman sapeva se considerarla una bimba o una donna. Ed era
difficile, tremendamente difficile decidere.
Sotto i vestiti pulsava un giovane corpo che stava ancora finendo di
crescere.
Sedici anni, in fondo, erano già tanti. A sedici anni, diceva Martha,
una ragazza come si deve ha già i suoi spasimanti. Ma Clara non sapeva
neanche cosa volesse dire. Sembrava ansiosa di sentirsi utile, con le
dita affilate e le caviglie tanto piccole da poter essere strette con
forza.
”Voglio lavorare qui.” aveva detto un giorno, accigliata. Ed Hoffman
non aveva saputo dirle di no, perchè in fondo non avrebbe potuto fare
altro. Era ciò che desiderava, perciò perchè negarle un po’ di
felicità? Ma c’erano giorni in cui la vedeva guardare dai vetri
sporchi delle finestre, verso qualcosa di indefinito, senza riuscire a
trovarlo.
Lui conosceva bene quelle sensazioni. O forse era così solo da
pretendere di conoscerle, pur di condividere qualcosa.
Con lei.
Lei che aveva passato così tanti anni all’orfanotrofio da divenire
parte di esso, senza poterne più uscire.
“Sei la fidanzata
del preside?” le chiedeva Wendy, con un sorriso beffardo. Clara
arrossiva, si portava le mani al volto, rideva.
La sciocca domanda di una bambina riusciva a confonderla. A farle
sentire nella pancia un calore sbagliato, qualcosa che non avrebbe
potuto provare. C’erano cose vietate, cose rosse e vergognose in quel
calore.
Quando aveva trovato del sangue sui vestiti, anni prima, aveva temuto
di essere morta. Quel pensiero era diventato un’ossessione. La morte
stava ad osservarla di continuo, dietro le porte, negli armadi, in
giardino. Sapeva di essere una creatura insensata, e svolgere qualche
faccenda era l’unico modo per non pensarci.
Per dimenticare il calore.
Ma quando Hoffman la toccava per medicarle un taglio sulle
braccia, un taglio che lei stessa si era provocata perchè il rosso
uscisse e andasse via da dentro, non poteva fare a meno di
rabbrividire.
Hoffman avrebbe potuto stringerla e baciarla, farle qualcosa di
misterioso che le avrebbe permesso di diventare adulta. Ma quel
qualcosa era anche sporco, non doveva scordarlo. Così entrambi,
seduti in infermeria, in silenzio scappavano dalla conclusione
inevitabile.
Nessuno le aveva mai detto come funzionava l’amore. Ne aveva letto in
qualche libro che non era riuscita a finire. Non sapeva se i
protagonisti avessero infine scontato la loro pena, o se si fossero
persi nella passione. Martha aveva provveduto a far sparire i libri, e
Clara era rimasta al centro di una stanza vuota, ad immaginare.
Ne era certa, alla fine erano morti tutti. Era la conclusione più
giusta. Chi si sporcava fino a quel punto, lasciando che un altro
toccasse e spingesse e leccasse, non poteva continuare a vivere.
Aveva chiesto, da bambina. Le risposte imbarazzate di un Hoffman
distratto non erano servite a capire. Nella sua mente vagavano mille
pensieri, mille voglie.
Sapeva che l’unica via per non peccare sarebbe stato indossare un
abito bianco e pieno di veli, e giurare fedeltà eterna. Ma sua madre
non l’aveva mai fatto, e così quel peccato strisciante si era
impossessato di lei, erede di un male insoluto.
Aveva immaginato sua madre, piccola creatura perduta, aveva costruito
una storia tragica in cui si era tolta la vita, e il rosso che
sgorgava dai polsi aveva avvolto la culla in cui lei dormiva.
Soffriva, ma recitare la parte era l’unica cosa che avesse senso,
ormai.
E quell’uomo, quell’uomo gentile e posato la chiamava senza un suono,
posava lo sguardo sul suo corpo tremante e lei si sentiva mancare.
Sarebbe bastata una parola, un gesto.
Un gesto che non arrivava mai.
|