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Autore: I m a witch    24/04/2013    4 recensioni
Questa fic è ambientata anni dopo la fine degli Hunger Games di Peeta e Katniss. In questa storia è come se nulla degli altri due libri fosse successo, come se la storia si fosse interrotta con la minaccia di Snow; Peeta e Katniss si sono sposati, evitando così che il presidente potesse fare del male ai propri familiari.
Attenzione: se siete fan di Peeta, questa storia non fa assolutamente al caso vostro...!
Have a good time! =)
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Katniss Everdeen
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Se fossimo stati liberi
 



Quella notte mi sentivo molto sola.
Ero tremendamente sola, nonostante accanto a me, nel letto, ci fosse Peeta, mio marito ormai da anni.
Mi accartocciai su me stessa, assumendo una posizione fetale e tirando a me le morbide coperte di raso. Volevo ritornare a sentire sulla mia pelle il grezzo tocco del cotone non trattato; tuttavia quei materiali poco si addicevano al mio status attuale.
Sentivo freddo, come se una morsa di ghiaccio stesse stringendo il mio cuore fra le sue gelide spire. Più cercavo di prendere sonno più sembrava che i pensieri si accavallassero tra loro, ciascuno con lo stesso comune denominatore: il volto di un uomo.
Nella mia mente c'era solo quel viso, un viso ormai nero di polvere che rendeva ancor più luminosi due grandi occhi cerulei.
Mi alzai di scatto, passandomi una mano sulla fronte.
Era inutile restare lì su quel letto. Avevo bisogno di pensare, e c’era solo un posto in cui riuscivo a farlo.
Infilai i vecchi vestiti da caccia: erano passati anni dall'ultima volta che li misi, ma fortunatamente mi stavano ancora a pennello. Gli scarponi erano morbidi e resistenti proprio come li ricordavo, anche se i pantaloni erano leggermente stretti sulla vita. Sorrisi leggermente, cercando di fingere che niente fosse successo da quel lontano giorno in cui era toccato a me affrontare quel crudele destino.
Uscii dalla grande villa silenziosa in cui vivevo con la mia famiglia, cercando di non disturbare la quiete notturna.
Le strade e i vicoli del mio distretto erano illuminate solo dalle flebile luce di una falce di luna. Mi recai verso la recinzione, nel punto in cui sapevo vi fosse un passaggio sicuro per la foresta. Come sempre non vi era alcuna traccia di corrente tra i fili metallici. Passai sotto la rete, un po' arrugginita dal tempo.
Mi inoltrai tra il fitto della foresta, la mente ancora troppo attiva, troppo carica di pensieri.
Dieci anni.
Erano già trascorsi dieci anni, ormai, dalla volta in cui partecipai agli Hunger Games. Da lì in poi fu tutto un susseguirsi di conseguenze irrimediabili: l'esigenza di dover continuare il mio idillio con Peeta, il nostro matrimonio, i nostri due bambini (fortunatamente ancora troppo piccoli per il giorno della mietitura), il mio distacco da lui.
Cosa ancor più dolorosa, l'aver dovuto assistere impotente al suo matrimonio con un'altra donna.
Chissà se anche lui aveva provato la stessa sensazione di impotenza e frustrazione il giorno del mio matrimonio con Peeta. Sapeva bene che lo avevo fatto soprattutto per lui, per la sua vita. Il presidente Snow mi aveva avvertita molto chiaramente: se non avessi fatto in modo che la mia storia con Peeta fosse stata davvero credibile, lo avrebbe fatto uccidere, così come mia madre e mia sorella. Al solo pensiero mi vennero i brividi.

Tutto ma non questo!

Mentre camminavo all'interno della foresta, mi fermai automaticamente davanti a un albero. Lo riconobbi all'istante. Era l'albero in cui nascondevo l'arco e le frecce di mio padre. Con sorpresa vidi che erano ancora lì, un po' rovinati dal tempo. Li presi con me non per reale bisogno, ma per illudermi di essere tornata ai vecchi tempi, quando ancora, spinta dalla necessità di dar da mangiare alla mia famiglia, mi avventuravo per gli stessi boschi con il mio compagno di caccia.
 Mi recai verso quello che anni fa era il nostro luogo segreto, una sporgenza posta su un'altura che ci permetteva un'ottima visuale su tutta la valle proteggendoci al tempo stesso da sguardi indiscreti. Ricordo benissimo che fu il luogo del nostro primo bacio, ma anche quello del nostro ultimo vero incontro. D’allora le nostre strade si separarono inevitabilmente.
Proprio mentre stavo per attraversare i cespugli, mi fermai di colpo notando che vi era già qualcuno seduto di spalle, che rimirava la valle.
Ebbi un tuffo al cuore: l'avrei riconosciuto ovunque, anche senza guardarlo in viso. Dapprima pensai di andare via ma mi fermai, rendendomi conto che, inconsciamente, mi ero recata lì proprio sperando di poterlo incontrare. Dovevo approfittarne, per una volta che la buona sorte mi era accanto. Dunque mi feci forza e presi la parola.
«E' davvero una bella serata, non trovi?»
Lui però si girò di scatto, sorpreso. Mi aveva riconosciuta e ora mi guardava come se stesse avendo una visione.
«Katniss...»
«Gale» mi avvicinai «Posso sedermi?»
Si limitò ad annuire, facendomi spazio. Lo osservai attentamente. Il tempo e il lavoro nella miniera gli avevano donato un aspetto più adulto, più uomo. Spostai distrattamente la treccia su un lato. Chissà se ai suoi occhi ero cambiata anche io. Fu come se mi avesse letto nel pensiero.
«Non sei cambiata poi molto, Catnip»
Sorrisi, ricordando il mio vecchio soprannome: erba gatta.
«Neanche tu» risposi.
«Bugiarda» disse, sorridendo amaro. Sollevò gli occhi al cielo, stiracchiandosi le braccia «Mi sento vecchio di cent'anni»
«Allora non li dimostri... e poi non puoi essere vecchio quanto Sae la Zozza!»
«No, davvero!» si finse inorridito «Anche se devo dire che la invidio: come fa ad essere ancora viva quella vecchia, avrà più vite di un gatto!»
Ridemmo entrambi, riuscendo a ritrovare subito la vecchia affinità. Il tempo non ci aveva cambiati poi molto: era il solito vecchio Gale e io, per un momento, la solita vecchia Catnip.
Evitammo accuratamente di parlare di ciò che successe dagli Hunger Games in poi, rifugiandoci nei ricordi del passato, parlando delle trappole sistemate con cura nei boschi, delle prede che riuscivamo a prendere ogni giorno.
«Sai, mi mancano le nostre battute di caccia» sospirò. In quel momento il mio coraggio venne meno e non riuscii a guardarlo negli occhi per cui li fissai a terra, cercando di non sprofondare troppo in ricordi che mi avrebbero soltanto fatta soffrire.
«Già...» risposi semplicemente.
Gale sembrò guardare il mio arco.
«Vedo che sei già armata... perché non ne approfittiamo per rendere gloria ai vecchi tempi?»
Lo guardai attentamente, cercando di capire se scherzasse o fosse serio. La sua espressione era serena e tranquilla, ma senza alcuna traccia di scherno.
«Non so... non me la sento»
Non avevo voglia di cacciare, non con lui: sarebbe stato troppo doloroso dimenticare quella notte non appena il sole fosse sorto inaugurando un nuovo giorno. Un nuovo giorno in cui avrei dovuto fingere nuovamente di essere perdutamente innamorata di Peeta. Ma Gale mi conosceva bene. Sapeva esattamente come farmi accettare le sue sfide.
«Davvero? Secondo me hai solo paura di scoprirti troppo arrugginita... non sai più come si utilizza quello?» disse, indicando il mio arco. Ecco, appunto. Sapeva bene che, se colpita nell'orgoglio, non potevo dire no.
«L'hai voluto tu» sibilai, alzandomi di scatto.
Non mi importò più nulla di soffrire per i troppi ricordi: un'occasione così non mi sarebbe capitata mai più ed ero consapevole del fatto che avrei sofferto, con o senza quella battuta di caccia. Ormai non potevo più tirarmi indietro. Gale rise, riempiendo la foresta con quel suono leggero e spensierato. Ci immergemmo completamene nella caccia, dapprima con qualche difficoltà, riuscendo mano a mano a riprendere il ritmo e tornare quelli di una volta.
A fine giornata, o, per meglio dire, nottata riuscimmo a prendere quattro conigli, due scoiattoli e uno strano uccello notturno, una specie di incrocio tra un gufo e chissà che altro. Decidemmo di portare le prede al Forno e concludere in grande stile come da ragazzi, con una calda scodella di zuppa di Sae la Zozza.
Quando cominciammo a mangiare, calò uno strano silenzio tra noi. Non era dovuto al fatto che fossimo troppo impegnati a mangiare. Era la consapevolezza che, ormai, la nostra parentesi nostalgica si fosse conclusa e non sarebbe mai più stata riaperta. Lo guardai negli occhi, consapevole del fatto che anche lui come me stesse pensando la stessa cosa. Mi guardai intorno, accertandomi che non ci fosse nessuna guardia. Posai la scodella ancora a metà a terra e, con mano tremante, gli accarezzai una guancia. La barba un po' lunga mi pizzicò piacevolmente il palmo della mano. A quel contatto lui chiuse gli occhi.
«Katniss... hai scelto lui» disse laconico. SI vedeva bene che quella era ancora una ferita aperta.
«Lo so» risposi «ma non per mia scelta. Lo sai, l'hai sempre saputo anche se non ne abbiamo mai parlato»
«Ti hanno ricattata, vero?»
Mi limitai ad annuire, avvertendo un nodo alla gola.
Gale sospirò, prendendomi l'altra mano tra le sue. Giocherellò un po' con le mie dita, poi si decise a guardarmi in faccia.
«Potevamo scappare!» disse quasi con ira «Ci saremmo costruiti un futuro per noi, noi due soli! Una nostra famiglia, un luogo tutto nostro!»
«Sai bene che non potevamo! Cosa ne sarebbe stato delle nostre famiglie? Li avrebbero uccisi per costringerci a tornare!»
Mi sentii come se stessi cercando di spiegare per la milionesima volta a un bambino di non buttarsi dagli scogli: era troppo pericoloso, sarebbe stata morte certa.
Mi prese il viso tra le mani, guardandomi intensamente.
«Deve proprio finire così?»
Abbassai gli occhi, non sapendo cosa rispondere. Imprecò.
«Avrei dovuto prendere il posto di Peeta, quel giorno!»
«No!» tremai al solo pensiero, alzandomi di scatto dal muretto su cui eravamo seduti «Non avrei potuto sopportare di saperti in pericolo. Probabilmente saremmo morti entrambi, troppo distratti a guardare le spalle dell'altro per poterci realmente difendere»
Fece cadere le mani, sconvolto da quel pensiero.
«Forse hai ragione»
Si alzò anche lui, fissandomi negli occhi.
«Un tempo credevo che potevamo avere la forza di cambiare il nostro destino, se ci fossimo uniti...»
«Gale...»
«Mi rendo conto di essere stato uno stupido»
Mi si avvicinò pericolosamente. Sapevo che avrei dovuto fermarlo, ma non ne ebbi la forza. Lasciai che le nostre labbra si toccassero, in quel contatto dolce quanto fugace. Quello era probabilmente il nostro ultimo bacio. Legai le mie braccia attorno al suo collo, stringendolo forte. Non volevo che andasse via, non ora che, per una volta, la mia solitudine era totalmente scomparsa. Lui mise le sue mani tra i miei capelli avvicinandosi ancora di più, incollando i nostri corpi e approfondendo il bacio. Senza preavviso, però, si sciolse dalla mia presa, voltandosi.
Dal modo in cui alzava e abbassava le spalle, doveva avere il fiato corto. Proprio come me.
«Addio» detto questo andò verso casa.
Strinsi i pugni, sapendo di non poterlo fermare.

Continuammo le nostre vite come se nulla fosse successo.
Fui costretta a guardarlo con un'altra donna.
Fui costretta a vederlo sorridere a dei bambini che non gli avevo dato io.
Mi venne naturale, a quel punto, immaginare cosa sarebbe successo se fossimo stati liberi. Saremmo stati felici, insieme. Forse, pensai, era proprio quel divieto che ci era stato imposto che fomentava ancor di più i nostri sentimenti.
Non importava, però, più di tanto.
L'unico pensiero che mi tormentò per tutta la vita, fu quello di non poter essere sua, e di non poterlo avere per me.

 
  
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