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Autore: _Lalli    26/04/2013    8 recensioni
Arya Dröttningu, ambasciatrice degli elfi, protegge l'unico uovo di drago in possesso alla resistenza; Durza lo Spettro attende da anni l'occasione di impossessarsene e finalmente pare esserci riuscito, ma l'elfa riesce a rovinare miseramente i suoi piani. Allo Spettro non rimane che un'unica soluzione: torturare la sua prigioniera senza pietà, fino a che non confessi il luogo in cui l'uovo è stato trasportato.
Ma se, durante la prigionia, qualcosa di inaspettato fosse accaduto ad Arya? Qualcosa di cui nessuno, a parte lei e Durza, è a conoscenza?
Costretta ad un viaggio avventato e ad un'improbabile alleanza, Arya scoprirà lati insospettabili del suo nemico e si lancerà in una ricerca che getterà i semi del suo destino. Coinvolta in segreti incredibili, finirà per svelare alcuni dei molti misteri che ancora oscurano la bellissima terra di Alagaësia.
Genere: Azione, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altri, Arya, Durza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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8. La Ragazza

Durza quel giorno pareva seriamente intenzionato ad uccidermi.
Ero incatenata alla lastra di pietra da tantissime ore e il mio corpo era nuovamente allo stremo delle forze, nonostante fino alla sera precedente mi fossi sentita quasi in forma.
I suoi occhi gelidi e impenetrabili non lasciavano presagire nulla di buono.
Forse la mia stanchezza era dovuta al fatto che quella notte non avevo avuto il coraggio di chiudere occhio, troppo spaventata dall’opportunità che la mia mente giocasse troppo con le parole che mi aveva rivolto lo Spettro e i ricordi che erano scivolati inavvertitamente fuori da lui.
Ma in effetti non avevo fatto altro che pensare a quello fino a che Durza non era venuto a prendermi per torturarmi.
Dalle sue parole e dalle immagini delle sue memorie avevo dedotto che lui, come molti altri in Alagaësia, doveva aver sofferto parecchio nella vita. Era una terra crudele, Alagaësia, era raro incontrare qualcuno che non avesse perso un amico o un lontano parente in qualche scaramuccia, il governo del re Galbatorix era troppo debole e decisamente disinteressato alle sorti dei propri sudditi, violenze senza giustizia avvenivano ovunque.
Per questo la mia pietà nei suoi confronti non era durata a lungo.
Le sue sofferenze non giustificavano il suo comportamento. Non potevo ignorare nemmeno per un attimo tutto il male che mi aveva fatto. Aveva ucciso Fäolin e Glenwing e distrutto completamente il mio corpo, rendendomi nient’altro che una debole donna indifesa nelle sue mani. Senza contare tutte le altre di cui sicuramente non ero al corrente.
E io lo odiavo.
Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno.
Ma poi avevo capito che il mio doveva essere lo stesso odio che provava ogni donna a cui veniva dato l’annuncio che il proprio uomo era caduto in battaglia. L’odio profondo, radicato e implacabile nei confronti del suo assassino.
E in quello stesso istante ero diventata cosciente della mia ipocrisia. Io osavo fare la parte della vittima quando avevo ormai perso da tempo il conto degli uomini che io stessa avevo ucciso. Di tutte le donne che avevo lasciato vedove, di tutti i bambini che avevo lasciato orfani.
Sotto quell’aspetto, io e Durza non eravamo poi così diversi.
Ma in tutta sincerità i miei nobili pensieri tendevano a sparire quando mi trovavo sotto i ferri e il mio odio nei confronti del mio boia ritornava con tutta la sua potenza.
Insieme alla paura annientante che lui riusciva a scatenare in me.
Quando avevo sentito i suoi passi scendere le scalette di pietra avevo sussultato e avevo finito per tremare senza ritegno. Avevo uno zigomo tumefatto per i suoi schiaffi violenti e due sottili ma scuri lividi sul collo, dove le sue mani si erano strette per la rabbia. Senza contare quello sulla gola. La sensazione di impotenza e umiliazione non si era ancora estinta.
Quando la tortura si concluse non avevo più un pollice di pelle esposta che si fosse salvato all’azione dei pugnali dello Spettro, delle fruste e dei ferri roventi. Durza mi porse i miei vestiti senza guardarmi e senza proferire parola e io fui ben felice di assecondare quel silenzio. La mia nuova camicia bianca si tinse di un macabro rosso cupo quando la feci scivolare sulle mie membra tremanti.
Arrancai dietro lo Spettro per il corridoio -la mia nuova cella era proprio accanto alle ripide scale di pietra- non riuscendo a pensare ad altro che al letto che mi aspettava e alla nuova coperta imbottita, calda.
Ma il turbamento non sembrava intenzionato a rimanere fuori dalla mia vita.
Proprio quando la porta della mia cella si stava chiudendo alle mie spalle, qualcuno si precipitò giù dalle scale, finendo praticamente a sbattere contro Durza, che imprecò a mezza voce.
L’uomo si scusò e riconobbi la voce di Hillr, il servo che gli aveva riferito dell’arrivo di Barst, qualche giorno prima.
Durza sbatté la porta e la chiuse a chiave, ma io rimasi in ascolto.
«Mio signore ho notizie interessanti» fu l’annuncio entusiasta.
«Ho notato» ribatté lo Spettro. «Un messaggero del re? Di Lord Barst?» la sua voce assunse un tono irritato.
«Niente del genere. Solo una consegna dei nostri esploratori».
Ci fu qualche istante di totale silenzio, sufficiente a farmi contorcere le viscere per l’attesa. Le gambe improvvisamente parvero incapaci di sorreggermi e la testa mi girò. Avevo perso troppo sangue. Strinsi i denti per riuscire a mantenermi salda nella mia posizione.
«Che genere di consegna?» chiese Durza titubante.
«Hanno catturato due omini sospetti» si lanciò Hillr. «Pensano che..»
«Basta così!» lo interruppe il mio boia «Proseguiremo questa conversazione nel mio studio. Anche se la gente ben educata dovrebbe sapere che origliare è considerata una delle azioni più scortesi di questa terra».
Incassai la frecciatina con rabbia. Ovviamente sapeva che ero in ascolto, aveva permesso a Hillr di continuare fino a quel punto solo per potermi privare immediatamente della notizia che avevo già sentito mia. Sapeva perfettamente che ero avida di sapere cosa stesse succedendo fuori e si era affrettato a creare piccole speranze che aveva annientato con sorprendente rapidità.
Se fossi stata un uomo o un nano avrei bestemmiato gli dei.
Però prima avrei dovuto inventarmeli.
Entrambe le cose andavano altre le mie capacità, quindi mi limitai ad ignorare la risatina gelida che emise Durza prima di allontanarsi con Hillr e mi buttai letteralmente distesa sul letto di legno, che gemette appena sotto il mio peso. Nessuna delle mie ferite era stata guarita e sanguinavo come un sacerdote dell’Helgrind.
Non potevo farci niente. Era da mesi che non potevo più usare la mia magia e non mi ero mai veramente resa conto di quanto affidamento facessi su di essa prima di ritrovarmi senza. Era proprio vero che il valore delle piccole cose si apprezza solo dopo averle perdute.
Per esempio in quel momento avrei tanto voluto avere una focaccia dolce con le noci, quelle che i cuochi reali mi procuravano tutte le mattine per colazione, in un tempo che mi pareva lontanissimo, mentre risaliva a poco più di un anno prima. L’ultima volta che ero stata ad Ellesméra.
Dovevo essere prigioniera da circa due mesi, forse quasi tre, così aveva detto Durza quando mi aveva salvata dagli intenti lascivi del conte Barst.
La mia vita mi mancava atrocemente. Avevo trascorso infinite notti di veglia, nella speranza di sentir suonare un flauto in lontananza. Ma sapevo perfettamente che l’esercito elfico non si sarebbe messo in moto solo per me, non era prudente. E probabilmente mi credevano morta nell’incendio che aveva divorato la foresta.
Chiusi gli occhi. Avrei tanto voluto dormire in pace, sogni tranquilli, senza incubi, senza immagini o sensazioni. Il vuoto. Avevo bisogno di oblio.
Durza mi stava lentamente conducendo sulla strada della follia.
Mi bastava serrare le palpebre che subito mi balenava in mente l’immagine dei suoi occhi felini, orrendamente rossi. Repressi un tremito.
            Quando i soldati fuori dalla porta si allontanarono capii che doveva essere il cambio serale.
Mi stirai faticosamente le membra. Una decina di minuti di pace e silenzio.
Il rumore di passi nel corridoio mi smentì immediatamente.
La finestrella dello spioncino fu scostata e un occhio ceruleo fece capolino nella penombra.
Mi si rizzarono i capelli sulla nuca.
Io avevo già visto quell’occhio.
Grande e ornato di lunghe ciglia. E bianco.
Però quello che avevo davanti era azzurro. E percepivo un cuore che batteva e un respiro tranquillo.
Quello era indubbiamente reale.
Mi alzai a sedere, sulla difensiva.
L’occhio si assottigliò e poi si levò una voce dall’altra parte della porta. «Allora è vero che c’è una donna in queste prigioni».
La voce era delicata e soave, striata di una sorta di ingenuo stupore. Era una ragazza, poco più che una bambina.
«Cosa vuoi?» domandai, più bruscamente di quanto avessi voluto. La presenza di una ragazza lì era una cosa piuttosto strana, ma mi diede quasi sicurezza. Era l’unica ad avermi rivolto delle parole civili, oltre a Rohat, il soldato che aveva tentato di risparmiarmi una sessione di torture. Ed era da un pezzo che non lo vedevo più.
«Il padrone viene sempre qui, ero curiosa» rispose candidamente.
Il padrone. Doveva riferirsi a Durza.
«Chi sei?» domandai più per cortesia che per vero interesse. Avevo solo voglia di dormire.
«Una cameriera signora» mormorò spostandosi lievemente dalla fessura dello spioncino, tanto che intravidi una ciocca di capelli chiari fare capolino dalla fessura. «Sono io che ti porto i pasti».
Annuii. Non sapevo chi fosse a portarmi i pasti, non lo vedevo mai in volto. Però in effetti ricordavo una risata femminile che rispondeva agli apprezzamenti dei soldati di guardia.
Cercai di ricacciare un’ondata di disprezzo per la frivolezza della mia interlocutrice.
Però il fatto che fosse lei a portarmi da mangiare poteva spiegare la faccenda dell’occhio. Forse, a causa della mia stanchezza, la mia mente mi aveva giocato brutti scherzi, impedendomi di percepire il corpo a cui l’occhio apparteneva e facendomelo apparire bianco anziché azzurro.
Sì, era tutto molto logico e plausibile.
«E cosa sei venuta a fare?» chiesi.
«Voglio aiutarti».
Feci una smorfia amareggiata. «Non vedo come».
«Ho sentito il mio padrone parlare con il suo siniscalco. Ha detto che tra pochi giorni partirà per Uru’bean e si presenterà al cospetto del re. Pare che voglia portarti personalmente a lui, perché possa interrogarti».
Oh! Non avevo contemplato l’imminenza di quella possibilità. Che probabilità avevo contro Galbatorix? Meno di zero. Tento valeva strangolarmi da sola.
Eppure qualcosa in quella faccenda non quadrava. Mi era parso che Durza non fosse in buoni rapporti con il suo re. Quando gli avevo chiesto perché avesse cercato di impedirmi di cedere alle torture di Barst lui mi aveva dato una risposta vaga, ma che suggeriva un certo distacco dal suo signore.
Ti dico solo questo: non è detto che io riferirei direttamente al mio re come un cagnolino obbediente chiaro?
Fissai con decisione l’iride della ragazza, che resse il mio sguardo con tranquillità. Come potevo sapere se potevo fidarmi di lei? E perché mi diceva quelle cose? Se Durza l’avesse scoperta avrebbe passato brutti guai.
Decisi di stare sul vago. «Perché sei qui?» chiesi di nuovo.
«Te l’ho detto, voglio aiutarti ad uscire».
«Perché mai dovresti? Sarebbero guai seri se il tuo padrone ti scoprisse» osservai.
Emise un sbuffo giocoso. «Se mai mi scoprirà..»
«Tra poco torneranno le guardie» la informai.
«Ci vorrà ancora un po’ perché arrivino. Si stanno intrattenendo con alcuni boccali di idromele».
La cosa non mi era troppo chiara. Non si erano mai ubriacati, che cominciassero in quel momento era un poco strano.
«Cosa ci fai nella fortezza di Gil’ead, nonché palazzo privato di Durza e prigione di stato per traditori e ribelli?» L’occhio azzurro si socchiuse. «Sei una traditrice o una ribelle?»
Non le risposi. «Dici di volermi aiutare..»
Va bene, non sapevo nulla di quella ragazza comparsa dal nulla, e non ero convinta affatto poter fare affidamento alle sue promesse.
Ma mi stava offrendo una via di fuga! Era un’occasione troppo allettante perché la facessi cadere nel vuoto con i miei sospetti. Tanto che avevo da perdere? Se di lì a poche settimane fossi finita nelle grinfie di Galbatorix mi sarei dovuta uccidere perché non prendesse con la sua forza misteriosa i segreti che custodivo.
E io non volevo morire senza nemmeno cercare un’alternativa.
«Sì» rispose la giovane prontamente. «Ho le chiavi della tua cella con me e ti farò uscire di qui. Solo.. potresti dirmi come ti chiami?»
Mi alzai in piedi. «Non vedo perché dovrebbe interessarti». Perché tutti in quella fortezza -a partire da Durza- parevano avere un’ossessione per i nomi?
«Non c’è un motivo preciso. Diciamo curiosità, voglio avere un nome quando mi ricorderò di te».
Riflettei un istante. Se ormai anche Durza possedeva quell’informazione, passarla ad una delle sue cameriere non doveva essere così pericoloso, però.. «Aryna» storpiai.
Vidi che annuiva. Poi aprì la porta. «La tua spada e il tuo arco sono nell’armeria, ma fossi in te non andrei a riprenderli. La struttura di questo posto è particolare. Tu ti trovi nell’area militare, nonché la più sorvegliata. Per avere qualche speranza di scappare di qui dovresti intrufolarti nel palazzo, c’è un’entrata dalle prigioni. Sali quelle scale» indicò le ripide rampe di pietra «e percorri tutto il corridoio a destra. Troverai una porta che ti condurrà direttamente nel giardino del palazzo. Tieni»
Mi porse un abbozzo di mappa stilizzata su un pezzo di carta.
Spostai lo sguardo su di lei. Era molto giovane, con la pelle del viso luminosa e leggermente tinta di rosa sulle gote. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore azzurro intenso del cielo sereno in estate. I capelli color del grano erano stretti sulla testa in una crocchia, ma un paio di ciocche ribelli erano scivolate dalla pettinatura e le incorniciavano il volto innocente. Era esile e almeno di una spanna più bassa di me, ma con delle curve che un uomo avrebbe decisamente definito sensuali, e che il semplice abito aderente risaltava. Per essere un’umana era molto graziosa, di una bellezza eterea e delicata. Anomala.
E per di più era anche pulita, cosa piuttosto rara per un umano. Persino i capelli non erano divisi in ciocche untuose, doveva aver fatto un bagno al più tardi qualche giorno prima.
Ancora non mi fidavo di lei. Per niente.
Sorrise. «Aspetta che mi allontani prima di salire le scale. Se Durza lo venisse a sapere..» la sua espressione si incupì.
«Perché lo fai?» chiesi.
Gli occhi azzurri persero la loro luminosità. «Troppo sangue innocente ha imbrattato questa città. Il re ha ucciso la mia famiglia, l’unica cosa che mi sento in grado di fare per contrastarlo è fargli sparire i suoi prigionieri».
Oh. Strinsi le labbra e annuii bruscamente. «Grazie». E il mio ringraziamento fu sincero.
Mi salutò con la mano, recuperando il buon umore. «Non accennare mai a me. Una volta raggiunto il giardino sali al secondo piano e cerca una stanza con la porta di legno di quercia. A quella stanza si affaccia un rampicante robusto che ti permetterà di calarti fuori dal muro. Una volta fuori non fermarti in città. Mascherati in qualche modo e corri fuori prima che si faccia buio del tutto, perché in quel momento chiudono il portone e ti individueranno subito. Buona fortuna. E addio».
Corse su per le ripide scalette, senza neppure darmi il tempo di ringraziarla nuovamente e come si conveniva.
Guardai le scale.
Le ripide scalette di pietra.
Quelle per cui mi aveva trascinata Durza dopo la mia cattura.
Più di due mesi prima.
Mi colse un capogiro: ero fuori! Libera! Finalmente avevo una possibilità di fuga, di tornare tra la mia gente. Il mio cuore si allargò di una speranza feroce. Mi parve che un fiotto di nuova energia fosse fluito nel mio corpo e all’improvviso l’ambiente non vorticava più intorno a me, i miei sensi erano relativamente vigili.
Sgomberai la mente e mi concentrai sui suoni. Non avrei sprecato quell’occasione.
Salii le scale senza riuscire a trattenere un tremito di emozione. Bastarono quei pochi scalini per rendere più aspro il mio respiro. Non ero più l’elfa guerriera e forte che era stata portata in quel luogo di morte.
Avvertii il respiro di un uomo nel corridoio superiore e mi ricordai dell’uomo che aveva aperto la porta a Durza, la notte che eravamo arrivati a Gil’ead. Doveva essere il custode delle prigioni.
Strisciai nel corridoio malamente illuminato dalle poche torce appese al muro, non vista.
L’uomo che mi dava le spalle era robusto e barbuto e stava canticchiando una volgare canzone popolare, che mai al mondo vorrei rievocare. E puzzava come solo gli uomini potevano puzzare. Sospirai di sollievo.
Durza aveva l’abitudine di lavarsi ed era pericoloso, gli uomini non si lavavano e non lo erano. La ragazza bionda si lavava e poteva essere pericolosa anche lei. Gli Elfi si lavavano ed erano pericolosi.
Mi venne da ridere di fronte alle mie sciocche congetture.
Poi mi feci seria non appena mi resi conto si ciò che avrei dovuto fare di lì a poco e mi avvicinai all’uomo; gli sgusciai alle spalle, gli afferrai la testa tra le mani e con una brusca torsione gli spezzai l’osso del collo. Si afflosciò a terra con un rumore di ferraglia.
Ricacciai un groppo alla gola e mi chinai su di lui per chiudergli gli occhi. Non ero una debole. Il mio cuore era troppo indurito per riuscire a provare ancora pietà per i morti.
Non indossava l’armatura, ma aveva una spada a cintura.
Gli sfilai lo spadone largo e pesante dalla cintura, di buona lega, ma scadente rispetto alla mia spada elfica. Ebbi una fitta di nostalgia per la mia spada, leggera e appena più larga di una spada a striscia, estremamente maneggevole. Purtroppo avrei dovuto abbandonarla chissà dove nella fortezza. Era nata per me, fabbricata da un fabbro di Ellesméra, ma non dalla famosa maestra Rhunön. Lei non forgiava più spade dalla caduta dell’ordine dei cavalieri.
Scacciai il pensiero. Ero veramente troppo distratta.
Seguendo le istruzioni della ragazza -non le avevo nemmeno chiesto il suo nome- percorsi il corridoio sulla destra, ignorando tutte le porte di ferro delle prigioni e puntando con sicurezza alla porticina di legno di fronte a me. Passando davanti ad una torcia, vi appoggiai sopra il pezzo di carta su cui era disegnata la mappa semplificata della fortezza e la lasciai bruciare, era meglio se non me la trovavano addosso o avrei anche dovuto trovare una scusa intelligente per giustificare il perché ce l’avessi. Ma a dire la verità non avevo la minima intenzione di farmi catturare.
Quando l’aria gelida all’esterno mi colpì, il respiro mi si mozzò. Rimasi qualche istante immobile nell’angolo del giardino, mangiando con gli occhi tutto quello che mi capitava allo sguardo. Gli alberi spogli, il pozzo di mattoni rossi coperto da un velo di neve, il cielo plumbeo e scuro della sera. Il grande giardino era circondato da un edificio che aveva una struttura a metà strada tra una caserma, un edificio pubblico ed una residenza. Intravidi da lontano l’ombra scura di una torretta di guardia, ma era buio e l’uomo che si trovava lassù in cima con una torcia in mano non poteva sicuramente vedermi.
Respirai avidamente l’aria gelida, che mi seccò la gola. Non vedevo uno spazio aperto da settimane.
Non c’era nemmeno la luce incerta della luna.
Rabbrividii per il gelo.
Nonostante il cattivo tempo era una notte perfetta per una fuga silenziosa.
Sorrisi.

[Hillr]
Hillr lavorava al servizio di Durza lo Spettro da più di vent’anni e conosceva l’umore del proprio padrone come conosceva le sue tasche.
Per quel motivo temeva l’espressione rannuvolata del suo signore mentre avanzava a passi veloci per il palazzo, imboccando con sicurezza lo scalone in pietra rivestito da un pesante tappeto rosso cupo. Lo scalone portava ai piani alti, dove stavano le stanze padronali e degli ospiti e la libreria e le camere dei servi più importanti. Come lui.
Hillr non poteva lamentarsi di nulla. Ormai vicino alla quarantina, aveva avuto una vita piuttosto serena, anche se passata al servizio di uno Spettro.
A dire il vero le premesse non erano state tra le migliori. Era figlio di una donnaccia, sua madre faceva la pescivendola al porto di Teirm e lui avrebbe potuto scegliere suo padre tra una decina di marinai, date le discutibili abitudini disinibite di sua madre, che a quanto pareva era solita trascinarsi nei magazzini portuali con uomini ogni notte diversi. Si era chiamata Moira, un nome insulso, appioppatole dai genitori che, dopo cinque figli, dovevano aver avuto altro da fare che cercare un nome poetico per lei. E così lei si era chiamata Moira, perché quell’anno c’era stata una gran moria di polli in città e tutti quelli della sua famiglia erano morti stecchiti, riducendoli alla fame.
Quando era rimasta in cinta -aveva sì e no quindici primavere- i genitori l’avevano ovviamente cacciata di casa. Non avevano certamente bisogno di un’altra bocca da sfamare!
Sua madre se l’era cavata piuttosto bene anche da sola. Era stata assunta da un uomo che possedeva gran parte del mercato di pesce a Teirm e aveva iniziato a vendere il pesce per conto di lui, perché certamente da sola non sarebbe riuscita a gestire un peschereccio. Aveva una paga misera, ma bastava per lei e il figlioletto.
Hillr ricordava perfettamente il giorno in cui avevano lasciato quella città. Lui sarebbe diventato uomo nel giro di un anno, aveva già qualche accenno di barba! Sua madre voleva allontanarsi dalla città che l’aveva disprezzata e lui era stato felice di seguirla. Avrebbe potuto renderle il favore che gli aveva fatto quando non lo aveva annegato appena nato, aiutandola nel suo futuro lavoro, e poi non amava farsi chiamare “bastardo” da tutti quelli che incontrava per strada, era felice di andarsene. Era un tipo pacifico lui e non voleva scatenare alcuna rissa.
Si spostarono di parecchie miglia e finirono a Gil’ead. Lì una vecchia signora che faceva l’erborista assunse Moira come sua apprendista e lei ne ereditò la bottega quando la vecchina morì, un paio di anni dopo.
Sua madre lo aveva costretto ad imparare a leggere e scrivere dalla vecchia, sostenendo che un giorno avrebbe potuto cambiargli la vita avere delle capacità simili. Lui odiava entrambe le attività, ma si costrinse a seguirle per amore della genitrice.
Sua madre si dedicava alla cura degli abitanti con solerzia e passione. Adorava quell’impiego, anche se Hillr ne era vagamente disgustato. Non era bello assistere a deliri di uomini febbricitanti, tirare indietro i capelli alle donne incinte perché potessero vomitare senza imbrattarli e ascoltare le ultime parole degli anziani sul loro letto di morte, tra la puzza di sudore e urina.
Lui non era come tutti gli altri ragazzi della sua età, non ambiva a diventare un cavaliere o un potente signore, avrebbe tanto voluto fare il contadino. Voleva un piccolo pezzo di terra da coltivare e magari qualche oca e qualche gallina. E una donna, una moglie che gli restasse accanto per tutta la vita, facendolo sentire accettato, come solo sua madre sapeva fare.
Erano desideri semplicissimi. E la moglie l’aveva quasi trovata. Era una ragazza che viveva vicino al lago, ma che saliva in città per comprare il pane. Aveva sempre un vestito color zafferano e un sorriso gentile per tutti. Si erano parlati spesso e quando lui aveva proposto di recarsi dal padre di lei per chiedere la sua mano lei si era dimostrata entusiasta.
Ma poi tutto era crollato.
Sua madre non era riuscita a curare ben tre persone di seguito! Era una brutta malattia e lei non aveva potuto fare nulla contro tutto quello, e i poveri disgraziati erano morti sputando sangue. Non li aveva curati, ma non perché non volesse, ma proprio non sapeva come fare, era oltre le sue capacità.
Ma nessuno le aveva creduto. L’avevano chiamata strega, figlia di Elfi, accusata di aver avvelenato le sorgenti affinché tutte quelle persone si ammalassero.
Lui l’aveva difesa, ovviamente. Sua madre non aveva fatto nulla! Era una donna buona nonostante tutto!
Non era bastato.
Si era radunata in fretta e furia una catasta di legna, legata sua madre ad un palo e appiccato il fuoco.
Lo avevano tenuto fermo e costretto a guardare mentre Moira la Strega bruciava viva, urlando atrocemente per il dolore e imprecando contro gli dei.
La ragazza che amava era stata la prima a sputare sulle sue ceneri. Anche suo padre era morto sotto le magie oscure che sua madre aveva imparato dagli Elfi.
Non contenti, gli abitanti vollero uccidere anche lui, perché il sangue maligno della Strega si esaurisse. Qualcuno si procurò una scure, non avrebbero sprecato del legno per una pira, la sua anima non aveva bisogno di bruciare dato che le streghe erano solo le femmine.
Ma quando la lama stava per calare sul suo collo tutto si era fermato.
Il padrone era tornato. Il governatore di Gil’ead stava rientrando in città a spron battuto sul suo gigantesco cavallo da guerra e tutti si affrettarono a fargli ala, lasciandolo passare.
Hillr non aveva mai visto il governatore, sapeva solo che era una creatura non umana, ma neppure un Elfo. Qualcuno diceva che fosse un demone. Ed in effetti pareva proprio un demone l’uomo che sorrise malignamente alla folla, snudando dei terribili denti aguzzi. La sua pelle era dello stesso colore di un osso sbiancato, sembrava un cadavere, e il contrasto con i capelli rossi la rendeva ancora più bianca. E non aveva ancora visto i suoi occhi! Quando per sbaglio aveva incrociato il suo sguardo mentre gli passava accanto e quasi aveva gridato. Quegli occhi. Non avevano nulla di umano. Rossi come sangue, da animale, eppure così penetranti, vigili, scrutatori. Quell’essere aveva qualcosa di profondamente inquietante e non era solo per il suo aspetto esteriore. Era una sensazione che colpiva l’anima di tutti i presenti, c’era qualcosa in lui, nel suo modo di camminare e di guardarsi intorno, qualcosa che rendeva indubbio il suo potere, di qualunque natura fosse.
Qualcosa che faceva paura.
Il mostro aveva scrutato attentamente il mucchio di legna annerita e ancora fumante che sorgeva in mezzo alla piazza del mercato, dove di solito si montava la gogna. C’era ancora odore di carne bruciata nell’aria.
Il governatore era scoppiato a ridere in un modo che aveva terrorizzato tutti.
«Avete bruciato una strega, dunque» aveva detto, con un tono così sprezzante che tutti nella piazza si erano sentiti stupidi. Tremendamente stupidi.
«Deduco che a nessuno di voi piaccia la stregoneria».
Tutti in città sapevano che quell’uomo -se tale poteva definirsi- praticava della magia nella sua forma più oscura. Erano voci che erano filtrate anche alle orecchie di Hillr. Una madre sussurrò alla figlia che quello che aveva davanti era Durza lo Spettro, il governatore della città.
Il giovane Hillr non sapeva esattamente cosa fosse uno Spettro, ma non lo avrebbe capito neppure più avanti. Gli Spettri erano creature misteriose che nessuno conosceva e lui non si sarebbe mai azzardato a fare domande al diretto interessato.
«E tu eri il rampollo suppongo» aveva proseguito la creatura dagli occhi felini, guardandolo da testa a piedi.
Hillr si era sentito snudato, come se quegli occhi animaleschi lo stessero rivoltando.
«Sai leggere?» gli aveva chiesto.
Allora Hillr aveva creduto che fosse una domanda stupida, posta in quel contesto. «Sì» aveva risposto, prontamente.
«Se hai bisogno di un lavoro, vieni più tardi al palazzo. Di’ che ti manda Durza lo Spettro».
Dette quelle poche parole aveva spronato il cavallo verso il palazzo di pietra grigia che troneggiava al centro di Gil’ead, sussurrando un paio di parole in una lingua sconosciuta, che spaventarono ancora di più gli abitanti.
Ma non era ancora finita.
Finite le parole, sette persone nella piazza caddero a terra. Morte.
Hillr li guardò uno ad uno. Erano i capi. Quelli che avevano esortato tutti a bruciare sua madre. C’era anche la ragazza che stava per sposare.
Aveva sorriso, mentre grida di panico rimbalzavano ovunque.
La morte ingiusta era già stata vendicata, ma a quel punto temeva per il cavaliere dai capelli rossi. Erano molti, gli abitanti di Gil’ead. E lui era solo. Se gli si fossero avvicinati lo avrebbero potuto disarcionare facilmente e uccidere a forza di pedate.
Ma nessuno lo fece. E Hillr credette di capire il perché. Quell’uomo era inavvicinabile, pareva avere il potere di piegare gli elementi al suo volere e incuteva un senso di timore che era pressoché insuperabile.
Nessuno gli torse un capello, nessuno fece un segno scaramantico contro la cattiva sorte, nessuno innalzò una preghiera agli dei, e nessuno fermò lui quando seguì l’uomo che gli aveva appena salvato la vita.
Da allora erano passati vent’anni. Hillr era entrato al servizio di Durza e si era subito trovato bene tra pile di carte da scrivere e trascrivere. Non amava il suo padrone, era impossibile amarlo, faceva troppa paura. Però lo rispettava e gli era profondamente grato per aver vendicato sua madre quel giorno di tanti anni prima. Adesso era il suo siniscalco, il suo consigliere, il vice governatore, il coordinatore della vita del castello, colui a cui tutti facevano riferimento per riferire i messaggi allo Spettro.
Era un ruolo degno di nota e Hillr ne andava fiero.
Sua madre aveva avuto ragione ad insistere nell’insegnargli a leggere e scrivere. Era stata la sua salvezza.
            L’uomo annaspò dietro alla camminata troppo rapida del suo padrone. Era invecchiato, non era più quello di un tempo e presto sarebbe stato troppo rincitrullito per continuare nel suo mestiere. Sarebbe stata una vecchiaia triste la sua. Niente moglie, né figli. La sua unica compagnia fuori dal castello erano le donne del bordello, ma non avevano alcun valore affettivo.
Respirò dalla bocca, praticamente correndo dietro alla chioma rossa che pareva sfrecciare davanti a lui. Una cosa inquietante del suo padrone era che non era invecchiato di un giorno da quando lo aveva visto per la prima volta, vent’anni prima. Era contro natura!
Come se il tempo gli scivolasse addosso senza scalfirlo. Sapeva che quella era una prerogativa degli Elfi, ma sapeva anche che il suo padrone non era un lurido Elfo!
Però sembrava comunque che la sua età si fosse cristallizzata intorno alle venticinque, forse trenta primavere. E a quanto pareva aveva anche le stesse energie di un uomo di quell’età.
«Gradirei che non venissi a cercarmi nelle prigioni per farmi annunci di questo tipo, Hillr» disse con voce monocorde dopo che si fu seduto oltre alla massiccia scrivania di legno, senza invitarlo a fare altrettanto. Del resto non aveva mai provveduto a sistemare un'altra sedia nella stanza.
«Si tratta di una notizia importante, Signore» ribatté, recuperando fiato ed entusiasmo.
«Appunto per questo» occhi rossi lo fulminarono, facendolo quasi indietreggiare. «La prigioniera non deve venire a sapere nulla. È una dei ribelli, te l’ho detto. Non credo che potrà mai sfuggirmi, ma nel caso ci riuscisse non deve avere in mano informazioni utili».
«Lei è molto bella» disse Hillr di punto in bianco.
Il suo padrone fece un gesto spazientito. «Lo dite tutti. Cosa ci troviate in una donna piatta come un tavolo ancora non lo capisco.»
Hillr era convinto che il suo padrone capisse benissimo. Era vero, forse la ragazza non aveva un corpo molto attraente: era veramente troppo alta e con curve pressoché inesistenti. Insomma aveva un fisico troppo androgino, ma il viso era estremamente esotico e ammaliante. Nulla deturpava la perfezione della sua pelle se non la sporcizia e le ferite, aveva occhi di una forma particolare e di un verde sorprendente. Innaturale. Hillr aveva molto sentito parlare degli elfi e aveva sentito qualche chiacchiera dei soldati. Qualcuno diceva che fosse stata lei ad aver ucciso Bastof, qualche mese prima. E lui ci credeva.
Quella ragazza era troppo strana per essere una semplice umana e un volto così affilato non l’aveva mai visto in vita sua, con il naso sottile e il mento aguzzo sembrava quasi un rapace.
Forse non era poi così tanto bella.
«Non è umana vero?» chiese, e subito fu certo di essersi spinto troppo in là.
Lo Spettro lo scrutò in silenzio, con circospezione. «Non ucciderai un’Elfa per vendicarti delle tue sofferenze» disse poi. «Non è colpa sua se i tuoi compaesani hanno accusato tua madre di discendere dalla sua razza».
«Ma la dovrai uccidere» replicò Hillr. «Sarà molto importante per te farlo di persona? Potrei occuparmene io al posto tuo» aggiunse speranzoso. Lui odiava gli elfi. Se non fossero mai esistiti sua madre non sarebbe morta, uccidere uno di loro era come dimostrare di aver avuto ragione.
«Se le succederà qualcosa sarai il primo a pagarne le conseguenze» disse tranquillamente lo Spettro, guardandosi distrattamente le unghie. Poi fece una smorfia «Anzi, forse il secondo».
«Credo di essere l’unico a sapere con esattezza chi sia la ragazza» lo rassicurò.
Il suo signore scosse la testa. «No Hillr. Anche lei lo sa, molto meglio di te».
Hillr spostò il peso da un piede all’altro a disagio. Lei. La spia del suo padrone. Anche lei era troppo sinistra.
Scosse la testa per scacciare tutti i pensieri funesti. «Devo ancora riferirti la notizia».
Durza annuì. «Ti ascolto».
«Ieri due dei tuoi soldati si trovavano in ricognizione quando si sono imbattuti in un viandante solitario» cominciò Hillr. «Ha evitato accuratamente Gil’ead e ha puntato verso Daret. Capirai che un viandante solo, a piedi, nella stagione del gelo e con l’aria schiva li ha immediatamente insospettiti». Durza annuì lentamente, serio e concentrato. «Lo hanno fermato e lo hanno interrogato, chiedendogli dove andasse e perché viaggiasse solo. Quello ha risposto dicendo che stava andando alla tomba della sorella morta qualche settimana prima e che veniva da Dras-Leona. La sua meta era proprio Daret e abbiamo avuto la fortuna sfacciata di avere un abitante di Daret tra i due soldati. Gli ha detto quasi per scherzare se conoscesse una determinata taverna dove il vino era buonissimo e il viandante ha risposto affermativamente, con entusiasmo».
«L’unico problema è che questa taverna non esisteva affatto, giusto?» lo interruppe Durza sorridendo malignamente.
Dei passi risuonarono fuori dalla stanza e poi scomparvero. Probabilmente qualcuno era venuto a portare la cena al padrone, ma aveva rinunciato trovandolo impegnato.
Hillr fece un cenno affermativo. «Esattamente. I soldati hanno proseguito con le domande ma hanno ricevuto solo risposte vaghe, quindi hanno deciso di portare l’uomo con loro. Lui ha opposto resistenza, aveva una corta spada sotto la tunica e la sua copertura di innocuo viandante è saltata. Non ha voluto rivelare nient’altro nonostante i metodi di persuasione, ma ora si trova qui a Gil’ead, nelle prigioni del piano terra ed è pronto a subire il tuo interrogatorio, quando più lo desideri».
Durza assunse un’espressione soddisfatta e incuriosita. «Sarà uno dei ribelli?»
«Non lo sappiamo signore».
«Lo scopriremo».
Hillr stava per replicare, quando il trillo stridulo della campana della torre lo interruppe.
Il siniscalco sbiancò in volto. Quella campana suonava solo segnali di allarme.

[Arya]
Ispirai ancora una volta l’aria fresca e poi decisi di mettere da parte i sentimentalismi. Sgusciai nel porticato che si affacciava sul cortile e poi all’interno di una piccola porticina di legno. Mi affacciai e uscii immediatamente quando capii che si trattava delle cucine, affollate di servitori intenti a lavare pentole.
Fortunatamente non c’era troppo movimento a quell’ora, probabilmente buona parte dei soldati stava cenando e i servitori erano impegnati a servirli.
Dovevo raggiungere il primo piano e cercare una porta di legno di quercia. Potevo farcela.
Entrai da un portone più grande e mi trovai di fronte ad un ampio scalone di pietra rivestito da un folto tappeto rosso scuro.
Usai la massima cautela, ma per salire lo scalone dovetti espormi alla luce delle torce e una serva che lo stava scendendo con un vassoio di cibo in mano mi vide e gridò.
In effetti non dovevo essere un bello spettacolo. La camicia bianca mi si era appiccicata alle ferite fresche della giornata, tingendosi di un macabro color cremisi, stringevo in mano uno spadone dei soldati e i miei piedi scalzi erano rossi, gonfi per il gelo e scorticati a sangue, i miei capelli scarmigliati.
Il grido della cameriera non si era ancora spento, quando una campana suonò. Fu un suono vicino e acuto, probabilmente veniva dalla torretta che avevo visto dal giardino. Aveva un ritmo allarmante. Era un segnale di allarme!
Schizzai su per i gradini, scostando bruscamente la cameriera impalata sul posto e facendola cadere a terra. Imboccai a casaccio la parte sinistra del corridoio che mi si apriva davanti, guardandomi febbrilmente intorno alla ricerca di una porta di quercia.
Andai a sbattere contro un muro solido. Riconobbi Durza dal rosso dei suoi capelli. Mi ero appena scontrata con lo Spettro, si poteva essere più sfortunati?
Un paio di mani forti si serrarono sulle mie spalle e Durza mi guardò con occhi severi. «Dovevi proprio fare sciocchezze durante l’ora di cena?»
In risposta alzai la mano che stringeva la spada, cercando di colpirlo al petto. Si scostò agilmente ed estrasse la spada che teneva sempre a cintura. Era uno scontro impari ed io ero così debole che finii subito disarmata. La lama quasi trasparente di Durza emise un trillo argentino quando si scontrò contro la mia, che scivolò dalla mia presa malferma.
Un’ondata di rabbia e frustrazione mi travolse.
Gli tirai qualche rabbioso pugno allo sterno, ma non potei continuare quando lui mi afferrò i gomiti.
Fece un lieve sorriso. «Smettila piccola Elfa o mi vedrò costretto a tirare fuori il metodo dell’ultima volta».
Avevo ancora il risultato del “metodo dell’ultima volta” sulla gola e non ci tenevo a ripetere l’esperienza.
«Ti odio» sputai.
«Prevedibile. Come hai fatto ad uscire?»
Serrai le labbra e alzai orgogliosamente il mento.
«HILLR!» gridò, così forte da farmi male alle orecchie.
L’uomo di mezza età annaspò nella nostra direzione qualche istante dopo e mi gettò uno sguardo sconcertato, che in un istante si fece ostile.
«Vai a vedere cosa è successo nelle prigioni e fammi rapporto. Due minuti» ordinò seccamente Durza.
L’uomo fece un inchino profondo. «Devo riportare la prigioniera nella sua cella?»
«No, vai. Io e la prigioniera dobbiamo scambiare due chiacchiere».
«E così mi porterai dal re!» dissi, non appena fummo di nuovo soli.
Inarcò un sopracciglio. «Perché dovrei?»
Scossi la testa. Non volevo tradire la ragazza, probabilmente avevo già detto qualcosa di troppo.
«Elfa» mi ammonì minaccioso.
Mi strappai un’unghia.
Mi afferrò i polsi. «Smettila». Annuì in direzione delle mie dita. «Odio quando lo fai»
«Lasciami» ordinai.
«Non credo che lo farò, non finché non avrai parlato. Come sei uscita dalla tua cella?»
Mi divincolai, ma le sue dita si strinsero saldamente. «Mi stai fermando la circolazione del sangue» lo informai.
Sospirò. «Cosa devo fare con te, Arya?»
Doveva essere la prima volta che pronunciava il mio nome. E non mi piacque il suono che aveva sulle sue labbra. Ogni parola detta da lui pareva essere insieme miele e veleno.
«Uccidimi» sibilai. «Avresti dovuto farlo subito. Uccidimi e i miei e i tuoi problemi saranno risolti».
Parve soppesare la mia proposta, estraendo con disinvoltura un pugnale dalla cintura.
«Ti semplificherei la vita, troppo». Mi fissò beffardo. «Hai sbagliato i tuoi calcoli, Elfa. È il mio signore che ama sentire i prigionieri implorare la morte, non io». Il suo sguardo si concentrò in un punto indefinito nella parte bassa del mio volto, intorno al mento. «Ci sono diverse altre cose che amerei fare, invece» bisbigliò suadente.
Non capii le sue parole, ma cercai in ogni modo di celargli la mia confusione.
Mi si avvicinò ancora, fino a farmi sentire l’odore di menta emanato da lui. C’era una strana luce nelle sue iridi rossicce, una luce che fui incapace di comprendere e che per questo mi atterrì ancora di più.
«Che vuoi fare?» cercai di assumere un tono spavaldo, ma la voce mi tremava.
Si mosse con la rapidità di un serpente, ebbi solo modo di vedere la lama lucente venirmi incontro e chiudere gli occhi.
Niente.
Non sentivo niente. Era così semplice morire?
Schiusi le palpebre, con cautela. Il pugnale era conficcato fino all’elsa nel portone alle mie spalle, ad una distanza millimetrica dalla mia tempia sinistra.
E respiravo ancora. E l’odore di menta selvatica era troppo.. vivo.
La mia attenzione saettò in un attimo al mio carceriere, che mi fissava con un insopportabile ghigno sfottente dipinto in viso. «Tu hai paura di morire.»
«Che ne sai?»
«Lo so» rispose asciutto, estraendo il pugnale senza sforzo.
«Sono pronta a sacrificarmi per il mio popolo» ribattei fiera.
Mi fissò con aria di compatimento. «Queste sono solo parole, e io ne ho abbastanza delle tue parole. Precedimi nella tua cella, Elfa» ordinò poi, puntandomi con noncuranza la lama all’altezza della gola, «vedrò di rendertela ancora più cara, così che tu non senta il bisogno di lasciarla mai più».
Fu quello il momento scelto da Hillr per tornare a fare rapporto. «Devo passare dopo signore?» chiese, lanciandomi nuovamente un’occhiata sospettosa. Capii di non piacergli.
«No parla pure, non credo che ci sia qualcosa che la nostra graziosa prigioniera non sappia già» fece un sorrisino feroce nella mia direzione.
L’uomo si schiarì la gola. «Non c’è segno di scasso nella porta della cella, chiunque l’abbia aperta deve averlo fatto con le chiavi, che però erano ancora appese alla cintura del custode. Che a dirla tutta, signore, è morto; aveva il collo spezzato. Gli uomini hanno poi notato l’assenza della prigioniera e hanno dato l’allarme».
Durza annuì con calma. «Le altre guardie dov’erano nel frattempo?»
«Erano state trattenute signore..»
«Cosa le ha trattenute?» ringhiò, perdendo pericolosamente il controllo.
Hillr aprì la bocca, poi la richiuse, poi parlò. «Alba, signore.»
Durza si spalmò una mano sul viso. «Quante volte vi ho detto di non ascoltarla?! EH?»
L’uomo si ritrasse.
Alba.
La ragazza. Aveva il nome della luce del mattino, nome che in effetti sembrava nato per il suo incarnato delicato e i capelli color dell’oro.
L’avevano scoperta. Un’altra innocente che sarebbe morta a causa mia.
«Con quegli idioti faccio i conti dopo, adesso» mi scoccò un’occhiata fiammeggiante, «tu ed io andiamo a decidere chi è che comanda qui dentro».
Mi afferrò per i capelli e mi fece rifare a ritroso la strada che avevo compiuto io qualche minuto prima per fuggire. L’ebbrezza della fuga si spense lentamente dentro di me, lasciandomi una sensazione di spiacevole vuoto.
«Ti ha fatto uscire una ragazza?» chiese Durza cupamente.
«So aprirla anche da sola una porta, Spettro, basta darsi da fare».
«Stai mentendo» sussurrò al mio orecchio.
Mi si accapponò la pelle. Era la prima volta che dava chiara dimostrazione del suo dono di leggere i sentimenti. E io ero troppo agitata, mi ero tradita da sola.
Il vento freddo sparì, le luci delle torce mi ferirono gli occhi, la puzza di chiuso e di muschio mi invase la gola mentre la porta nera della stanza delle torture si avvicinava inesorabilmente.
Quando Durza mi spinse dentro e chiuse la porta appoggiandocisi con la schiena, vidi nei suoi occhi una cupa soddisfazione che mi inquietò. Il suo umore pareva essere notevolmente migliorato da quel mattino, e non poteva essere dovuto a niente di buono.
«Forse dovremmo rimandare a domani mattina, piccola Elfa» disse.
«Non credo che andrò da qualche parte stanotte» ribattei seccamente, ma il mio tono mancò della durezza che avrei voluto imprimervi. La delusione per la libertà sfiorata mi bruciava ancora.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso raccapricciante. «Ma la tua mente viaggerà parecchio, te lo posso assicurare. Domani assisterai ad un bello spettacolo. I miei uomini hanno trovato un uccellino e domani vedremo di farlo cantare.. potrebbe rivelarsi parecchio interessante..»
Come potevo dormire sonni sereni con quelle parole che rimbalzavano nella mia mente?
Ero confusa.
Durza mi aveva fatto capire di non nutrire alcuna simpatia per Galbatorix.
La ragazza bionda, Alba, mi aveva assicurato di averlo sentito parlare con il suo siniscalco, e che aveva affermato di volermi portare dal re.
Il servo di Durza, Hillr, mi aveva guardata con l’aria di uno che mi avrebbe uccisa volentieri nel sonno.
Alba. Come aveva trattenuto i soldati? Perché Durza si era arrabbiato a tal punto nel sentirla nominare? Perché nel ricordare la sua immagine l’istinto mi suggeriva che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato in lei?
E Durza.. Sapevo cose significasse nel gergo militare “un uccellino da fare cantare”. Era un prigioniero, qualcuno a cui strappare confessioni. Chi altri era finito nelle abili mani dello Spettro? Intendeva forse farmi assistere a delle torture il giorno dopo? Quanto avrebbe resistito il prigioniero prima di implorare pietà?
La cella mi sembrava soffocante dopo quella breve sortita all’aria aperta.
Mi rannicchiai sul letto.
Gli uomini raccontavano spesso ai loro bambini che se non fossero andati a letto senza discutere o non si fossero comportati bene, l’uomo nero sarebbe uscito dalle ombre e li avrebbe portati via con sé. Ovviamente l’uomo nero non esisteva, era solo una fantasia che aveva come scopo quello di spaventare i bambini.
Ma in ogni caso, prima di nascondersi nell’ombra, avrebbe fatto meglio a controllare che non ci fosse Durza già acquattato nell’oscurità.

[Durza]
«Alba!»
Non le diede nemmeno il tempo di voltarsi che la schiaffeggiò con furia, lasciando un’impronta sulla sua pelle candida.
La ragazza emise uno strillo di dolore e si posò entrambe le mani sul viso.
«Cosa pensavi di ottenere, stupida!» la rimproverò aspramente.
Durza aveva fatto lui stesso domande agli uomini che sarebbero dovuti essere in servizio davanti alla cella dell’Elfa quando quella aveva tentato la fuga e tutti avevano confermato che Alba aveva fornito loro boccali di idromele, convincendoli a temporeggiare e assicurando loro di avere ancora parecchio tempo prima dell’inizio del turno di guardia.
Lo Spettro tolse bruscamente le mani dal bel viso della sua interlocutrice. «Perché?» chiese lapidario.
«I-io ero solo curiosa» balbettò la ragazza con un pizzico di indignazione. «Volevo solo controllare se lei fosse davvero..»
«Questo non ti riguarda più» la interruppe. «E perché l’hai fatta uscire?»
Gli occhi celesti si sgranarono. «Io non l’ho fatta uscire, le ho solo parlato per qualche minuto».
Lo Spettro la lasciò andare sospirando. «E chi se non tu? Sei l’ultima ad averla vista. Poi me la sono ritrovata davanti alla mia camera da letto».
«Non avrei avuto motivo di farla scappare» ribatté lei con sicurezza.
Durza la guardò con sospetto, per nulla convinto. Ma c’era una semplice maniera per conoscere la verità. Quella ragazza gli aveva giurato fedeltà e non poteva che dire la verità se lui l’avesse incastrata con la domanda giusta.
«Non mentirmi. Hai aperto la porta all’Elfa? L’hai aiutata a fuggire?»
«Non avevo la minima intenzione di farla fuggire».
Quelle parole furono la conferma che Durza aspettava. «Va bene» disse, più inquieto di prima.
Chi era stato allora? Possibile che l’Elfa fosse veramente riuscita ad aprire la porta con un qualche metodo a lui sconosciuto? Eppure la magia era totalmente fuori dalla sua portata..
«Portami la cena in camera» ordinò, prima di dirigersi un’ultima volta verso le prigioni.
Cominciava ad odiare quel luogo, era diventato un monumento alla sua sconfitta. Poteva almeno sperare che il nuovo prigioniero non sarebbe stato algido e insofferente come Arya.
Si affacciò alla cella del nuovo arrivato. Dormiva profondamente, avvolto nel suo mantello. Un taglio rossastro gli deturpava la fronte e aveva qualche livido sparso per tutto il viso. Tremava dal freddo e sembrava sofferente.
Durza pensò con un accenno di ottimismo che probabilmente sarebbe stato molto più facile con un comune essere umano, meno resistente sul piano fisico e mentale rispetto ad un elfo. E se quell’uomo era uno dei Varden, come lui sospettava, avrebbe potuto scoprire cose interessanti. Forse l’Elfa non gli sarebbe servita più e avrebbe potuto liberarsene. Aveva come la sensazione che la sua vita sarebbe stata molto più tranquilla senza di lei.
Forse avrebbe potuto soddisfare le richieste di Hillr e lasciare che la uccidesse.
O forse quelle di lei, anche se Durza non sapeva con esattezza cosa ne avrebbe fatto.
O forse avrebbe potuto tenere l’Elfa e piegarla al suo volere. Ci sarebbe riuscito prima o poi, ne era certo. Avrebbe impiegato mesi, forse un intero anno, ma alla fine l’avrebbe spezzata. Per piegare la volontà dei draghi anziani si impiegavano decenni, per quella di un’Elfa sarebbe certamente bastato meno.
Lo Spettro prese a tenere in considerazione l’idea con più serietà. Se voleva veramente prendere il potere al posto di Galbatorix aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. E avere un’Elfa vincolata a sé da un giuramento di fedeltà avrebbe potuto rivelarsi molto utile.
Ci avrebbe pensato.
Passò anche dalla sua cella e sussurrò un incantesimo per bloccare ulteriormente la porta. Più di così non avrebbe potuto fare.
Gli occhi verdi di Arya incontrarono i suoi nel buio. Era turbata.
Durza sorrise. Quella era una delle poche vittorie che aveva avuto su di lei.
Poi se ne andò dalle prigioni e camminò verso la parte del palazzo riservata a lui.
Alba e la cena lo aspettavano nelle sue stanze.

  
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