Durza
quel giorno pareva seriamente intenzionato ad uccidermi.
Ero
incatenata alla lastra di pietra da tantissime ore e il mio corpo era
nuovamente allo stremo delle forze, nonostante fino alla sera
precedente mi fossi sentita quasi in forma.
I suoi occhi gelidi e
impenetrabili non lasciavano presagire nulla di buono.
Forse la
mia stanchezza era dovuta al fatto che quella notte non avevo avuto
il coraggio di chiudere occhio, troppo spaventata
dall’opportunità
che la mia mente giocasse troppo con le parole che mi aveva rivolto
lo Spettro e i ricordi che erano scivolati inavvertitamente fuori da
lui.
Ma in effetti non avevo fatto altro che pensare a quello fino
a che Durza non era venuto a prendermi per torturarmi.
Dalle sue
parole e dalle immagini delle sue memorie avevo dedotto che lui, come
molti altri in Alagaësia, doveva aver sofferto parecchio nella
vita.
Era una terra crudele, Alagaësia, era raro incontrare qualcuno
che
non avesse perso un amico o un lontano parente in qualche
scaramuccia, il governo del re Galbatorix era troppo debole e
decisamente disinteressato alle sorti dei propri sudditi, violenze
senza giustizia avvenivano ovunque.
Per questo la mia pietà nei
suoi confronti non era durata a lungo.
Le sue sofferenze non
giustificavano il suo comportamento. Non potevo ignorare nemmeno per
un attimo tutto il male che mi aveva fatto. Aveva ucciso
Fäolin e
Glenwing e distrutto completamente il mio corpo, rendendomi
nient’altro che una debole donna indifesa nelle sue mani.
Senza
contare tutte le altre di cui sicuramente non ero al corrente.
E
io lo odiavo.
Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno.
Ma
poi avevo capito che il mio doveva essere lo stesso odio che provava
ogni donna a cui veniva dato l’annuncio che il proprio uomo
era
caduto in battaglia. L’odio profondo, radicato e implacabile
nei
confronti del suo assassino.
E in quello stesso istante ero
diventata cosciente della mia ipocrisia. Io osavo fare la parte della
vittima quando avevo ormai perso da tempo il conto degli uomini che
io stessa avevo ucciso. Di tutte le donne che avevo lasciato vedove,
di tutti i bambini che avevo lasciato orfani.
Sotto quell’aspetto,
io e Durza non eravamo poi così diversi.
Ma in tutta sincerità i
miei nobili pensieri tendevano a sparire quando mi trovavo sotto i
ferri e il mio odio nei confronti del mio boia ritornava con tutta la
sua potenza.
Insieme alla paura annientante che lui riusciva a
scatenare in me.
Quando avevo sentito i suoi passi scendere le
scalette di pietra avevo sussultato e avevo finito per tremare senza
ritegno. Avevo uno zigomo tumefatto per i suoi schiaffi violenti e
due sottili ma scuri lividi sul collo, dove le sue mani si erano
strette per la rabbia. Senza contare quello sulla gola. La sensazione
di impotenza e umiliazione non si era ancora estinta.
Quando la
tortura si concluse non avevo più un pollice di pelle
esposta che si
fosse salvato all’azione dei pugnali dello Spettro, delle
fruste e
dei ferri roventi. Durza mi porse i miei vestiti senza guardarmi e
senza proferire parola e io fui ben felice di assecondare quel
silenzio. La mia nuova camicia bianca si tinse di un macabro rosso
cupo quando la feci scivolare sulle mie membra tremanti.
Arrancai
dietro lo Spettro per il corridoio -la mia nuova cella era proprio
accanto alle ripide scale di pietra- non riuscendo a pensare ad altro
che al letto che mi aspettava e alla nuova coperta imbottita,
calda.
Ma il turbamento non sembrava intenzionato a rimanere fuori
dalla mia vita.
Proprio quando la porta della mia cella si stava
chiudendo alle mie spalle, qualcuno si precipitò
giù dalle scale,
finendo praticamente a sbattere contro Durza, che imprecò a
mezza
voce.
L’uomo si scusò e riconobbi la voce di Hillr, il
servo
che gli aveva riferito dell’arrivo di Barst, qualche giorno
prima.
Durza sbatté la porta e la chiuse a chiave, ma io rimasi
in ascolto.
«Mio signore ho notizie interessanti» fu
l’annuncio
entusiasta.
«Ho notato» ribatté lo Spettro.
«Un messaggero del
re? Di Lord Barst?» la sua voce assunse un tono irritato.
«Niente
del genere. Solo una consegna dei nostri esploratori».
Ci fu
qualche istante di totale silenzio, sufficiente a farmi contorcere le
viscere per l’attesa. Le gambe improvvisamente parvero
incapaci di
sorreggermi e la testa mi girò. Avevo perso troppo sangue.
Strinsi i
denti per riuscire a mantenermi salda nella mia posizione.
«Che
genere di consegna?» chiese Durza titubante.
«Hanno catturato
due omini sospetti» si lanciò Hillr.
«Pensano che..»
«Basta
così!» lo interruppe il mio boia
«Proseguiremo questa
conversazione nel mio studio. Anche se la gente ben educata dovrebbe
sapere che origliare è considerata una delle azioni
più scortesi di
questa terra».
Incassai la frecciatina con rabbia. Ovviamente
sapeva che ero in ascolto, aveva permesso a Hillr di continuare fino
a quel punto solo per potermi privare immediatamente della notizia
che avevo già sentito mia. Sapeva perfettamente che ero
avida di
sapere cosa stesse succedendo fuori e si era affrettato a creare
piccole speranze che aveva annientato con sorprendente
rapidità.
Se
fossi stata un uomo o un nano avrei bestemmiato gli dei.
Però
prima avrei dovuto inventarmeli.
Entrambe le cose andavano altre
le mie capacità, quindi mi limitai ad ignorare la risatina
gelida
che emise Durza prima di allontanarsi con Hillr e mi buttai
letteralmente distesa sul letto di legno, che gemette appena sotto il
mio peso. Nessuna delle mie ferite era stata guarita e sanguinavo
come un sacerdote dell’Helgrind.
Non potevo farci niente. Era da
mesi che non potevo più usare la mia magia e non mi ero mai
veramente resa conto di quanto affidamento facessi su di essa prima
di ritrovarmi senza. Era proprio vero che il valore delle piccole
cose si apprezza solo dopo averle perdute.
Per esempio in quel
momento avrei tanto voluto avere una focaccia dolce con le noci,
quelle che i cuochi reali mi procuravano tutte le mattine per
colazione, in un tempo che mi pareva lontanissimo, mentre risaliva a
poco più di un anno prima. L’ultima volta che ero
stata ad
Ellesméra.
Dovevo essere prigioniera da circa due mesi, forse
quasi tre, così aveva detto Durza quando mi aveva salvata
dagli
intenti lascivi del conte Barst.
La mia vita mi mancava
atrocemente. Avevo trascorso infinite notti di veglia, nella speranza
di sentir suonare un flauto in lontananza. Ma sapevo perfettamente
che l’esercito elfico non si sarebbe messo in moto solo per
me, non
era prudente. E probabilmente mi credevano morta
nell’incendio che
aveva divorato la foresta.
Chiusi gli occhi. Avrei tanto voluto
dormire in pace, sogni tranquilli, senza incubi, senza immagini o
sensazioni. Il vuoto. Avevo bisogno di oblio.
Durza mi stava
lentamente conducendo sulla strada della follia.
Mi bastava
serrare le palpebre che subito mi balenava in mente
l’immagine dei
suoi occhi felini, orrendamente rossi. Repressi un tremito.
Quando
i soldati fuori dalla porta si allontanarono capii che doveva essere
il cambio serale.
Mi stirai faticosamente le membra. Una decina di
minuti di pace e silenzio.
Il rumore di passi nel corridoio mi
smentì immediatamente.
La finestrella dello spioncino fu scostata
e un occhio ceruleo fece capolino nella penombra.
Mi si rizzarono
i capelli sulla nuca.
Io avevo già visto quell’occhio.
Grande
e ornato di lunghe ciglia. E bianco.
Però quello che avevo
davanti era azzurro. E percepivo un cuore che batteva e un respiro
tranquillo.
Quello era indubbiamente reale.
Mi alzai a sedere,
sulla difensiva.
L’occhio si assottigliò e poi si levò
una
voce dall’altra parte della porta. «Allora
è vero che c’è una
donna in queste prigioni».
La voce era delicata e soave, striata
di una sorta di ingenuo stupore. Era una ragazza, poco più
che una
bambina.
«Cosa vuoi?» domandai, più bruscamente
di quanto
avessi voluto. La presenza di una ragazza lì era una cosa
piuttosto
strana, ma mi diede quasi sicurezza. Era l’unica ad avermi
rivolto
delle parole civili, oltre a Rohat, il soldato che aveva tentato di
risparmiarmi una sessione di torture. Ed era da un pezzo che non lo
vedevo più.
«Il padrone viene sempre qui, ero curiosa» rispose
candidamente.
Il padrone. Doveva riferirsi a Durza.
«Chi sei?»
domandai più per cortesia che per vero interesse. Avevo solo
voglia
di dormire.
«Una cameriera signora» mormorò
spostandosi
lievemente dalla fessura dello spioncino, tanto che intravidi una
ciocca di capelli chiari fare capolino dalla fessura. «Sono
io che
ti porto i pasti».
Annuii. Non sapevo chi fosse a portarmi i
pasti, non lo vedevo mai in volto. Però in effetti ricordavo
una
risata femminile che rispondeva agli apprezzamenti dei soldati di
guardia.
Cercai di ricacciare un’ondata di disprezzo per la
frivolezza della mia interlocutrice.
Però il fatto che fosse lei
a portarmi da mangiare poteva spiegare la faccenda
dell’occhio.
Forse, a causa della mia stanchezza, la mia mente mi aveva giocato
brutti scherzi, impedendomi di percepire il corpo a cui
l’occhio
apparteneva e facendomelo apparire bianco anziché azzurro.
Sì,
era tutto molto logico e plausibile.
«E cosa sei venuta a fare?»
chiesi.
«Voglio aiutarti».
Feci una smorfia amareggiata. «Non
vedo come».
«Ho sentito il mio padrone parlare con il suo
siniscalco. Ha detto che tra pochi giorni partirà per
Uru’bean e
si presenterà al cospetto del re. Pare che voglia portarti
personalmente a lui, perché possa interrogarti».
Oh! Non avevo
contemplato l’imminenza di quella possibilità. Che
probabilità
avevo contro Galbatorix? Meno di zero. Tento valeva strangolarmi da
sola.
Eppure qualcosa in quella faccenda non quadrava. Mi era
parso che Durza non fosse in buoni rapporti con il suo re. Quando gli
avevo chiesto perché avesse cercato di impedirmi di cedere
alle
torture di Barst lui mi aveva dato una risposta vaga, ma che
suggeriva un certo distacco dal suo signore.
Ti dico solo
questo: non è detto che io riferirei direttamente al mio re
come un
cagnolino obbediente chiaro?
Fissai con decisione l’iride
della ragazza, che resse il mio sguardo con tranquillità.
Come
potevo sapere se potevo fidarmi di lei? E perché mi diceva
quelle
cose? Se Durza l’avesse scoperta avrebbe passato brutti
guai.
Decisi di stare sul vago. «Perché sei
qui?» chiesi di
nuovo.
«Te l’ho detto, voglio aiutarti ad
uscire».
«Perché
mai dovresti? Sarebbero guai seri se il tuo padrone ti
scoprisse»
osservai.
Emise un sbuffo giocoso. «Se mai mi
scoprirà..»
«Tra
poco torneranno le guardie» la informai.
«Ci vorrà ancora un
po’ perché arrivino. Si stanno intrattenendo con
alcuni boccali di
idromele».
La cosa non mi era troppo chiara. Non si erano mai
ubriacati, che cominciassero in quel momento era un poco strano.
«Cosa ci fai nella fortezza di Gil’ead,
nonché palazzo
privato di Durza e prigione di stato per traditori e
ribelli?»
L’occhio azzurro si socchiuse. «Sei una traditrice
o una
ribelle?»
Non le risposi. «Dici di volermi aiutare..»
Va
bene, non sapevo nulla di quella ragazza comparsa dal nulla, e non
ero convinta affatto poter fare affidamento alle sue promesse.
Ma
mi stava offrendo una via di fuga! Era un’occasione troppo
allettante perché la facessi cadere nel vuoto con i miei
sospetti.
Tanto che avevo da perdere? Se di lì a poche settimane fossi
finita
nelle grinfie di Galbatorix mi sarei dovuta uccidere perché
non
prendesse con la sua forza misteriosa i segreti che custodivo.
E
io non volevo morire senza nemmeno cercare un’alternativa.
«Sì»
rispose la giovane prontamente. «Ho le chiavi della tua cella
con me
e ti farò uscire di qui. Solo.. potresti dirmi come ti
chiami?»
Mi
alzai in piedi. «Non vedo perché dovrebbe
interessarti». Perché
tutti in quella fortezza -a partire da Durza- parevano avere
un’ossessione per i nomi?
«Non c’è un motivo preciso.
Diciamo curiosità, voglio avere un nome quando mi
ricorderò di
te».
Riflettei un istante. Se ormai anche Durza possedeva
quell’informazione, passarla ad una delle sue cameriere non
doveva
essere così pericoloso, però..
«Aryna» storpiai.
Vidi che
annuiva. Poi aprì la porta. «La tua spada e il tuo
arco sono
nell’armeria, ma fossi in te non andrei a riprenderli. La
struttura
di questo posto è particolare. Tu ti trovi
nell’area militare,
nonché la più sorvegliata. Per avere qualche
speranza di scappare
di qui dovresti intrufolarti nel palazzo, c’è
un’entrata dalle
prigioni. Sali quelle scale» indicò le ripide
rampe di pietra «e
percorri tutto il corridoio a destra. Troverai una porta che ti
condurrà direttamente nel giardino del palazzo.
Tieni»
Mi porse
un abbozzo di mappa stilizzata su un pezzo di carta.
Spostai lo sguardo su di lei.
Era molto giovane, con la pelle del viso luminosa e leggermente tinta
di rosa sulle gote. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore
azzurro intenso del cielo sereno in estate. I capelli color del grano
erano stretti sulla testa in una crocchia, ma un paio di ciocche
ribelli erano scivolate dalla pettinatura e le incorniciavano il
volto innocente. Era esile e almeno di una spanna più bassa
di me,
ma con delle curve che un uomo avrebbe decisamente definito sensuali,
e che il semplice abito aderente risaltava. Per essere
un’umana era
molto graziosa, di una bellezza eterea e delicata. Anomala.
E per
di più era anche pulita, cosa piuttosto rara per un umano.
Persino i
capelli non erano divisi in ciocche untuose, doveva aver fatto un
bagno al più tardi qualche giorno prima.
Ancora non mi fidavo di
lei. Per niente.
Sorrise. «Aspetta che mi allontani prima di
salire le scale. Se Durza lo venisse a sapere..» la sua
espressione
si incupì.
«Perché lo fai?» chiesi.
Gli occhi azzurri
persero la loro luminosità. «Troppo sangue
innocente ha imbrattato
questa città. Il re ha ucciso la mia famiglia,
l’unica cosa che mi
sento in grado di fare per contrastarlo è fargli sparire i
suoi
prigionieri».
Oh. Strinsi le labbra e annuii bruscamente.
«Grazie». E il mio ringraziamento fu sincero.
Mi salutò con la
mano, recuperando il buon umore. «Non accennare mai a me. Una
volta
raggiunto il giardino sali al secondo piano e cerca una stanza con la
porta di legno di quercia. A quella stanza si affaccia un rampicante
robusto che ti permetterà di calarti fuori dal muro. Una
volta fuori
non fermarti in città. Mascherati in qualche modo e corri
fuori
prima che si faccia buio del tutto, perché in quel momento
chiudono
il portone e ti individueranno subito. Buona fortuna. E
addio».
Corse
su per le ripide scalette, senza neppure darmi il tempo di
ringraziarla nuovamente e come si conveniva.
Guardai le scale.
Le
ripide scalette di pietra.
Quelle per cui mi aveva trascinata
Durza dopo la mia cattura.
Più di due mesi prima.
Mi colse un
capogiro: ero fuori! Libera! Finalmente avevo una
possibilità di
fuga, di tornare tra la mia gente. Il mio cuore si allargò
di una
speranza feroce. Mi parve che un fiotto di nuova energia fosse fluito
nel mio corpo e all’improvviso l’ambiente non
vorticava più
intorno a me, i miei sensi erano relativamente vigili.
Sgomberai
la mente e mi concentrai sui suoni. Non avrei sprecato
quell’occasione.
Salii le scale senza riuscire a trattenere un
tremito di emozione. Bastarono quei pochi scalini per rendere
più
aspro il mio respiro. Non ero più l’elfa guerriera
e forte che era
stata portata in quel luogo di morte.
Avvertii il respiro di un
uomo nel corridoio superiore e mi ricordai dell’uomo che
aveva
aperto la porta a Durza, la notte che eravamo arrivati a
Gil’ead.
Doveva essere il custode delle prigioni.
Strisciai nel corridoio
malamente illuminato dalle poche torce appese al muro, non vista.
L’uomo che mi dava le spalle era robusto e barbuto e stava
canticchiando una volgare canzone popolare, che mai al mondo vorrei
rievocare. E puzzava come solo gli uomini potevano puzzare. Sospirai
di sollievo.
Durza aveva l’abitudine di lavarsi ed era
pericoloso, gli uomini non si lavavano e non lo erano. La ragazza
bionda si lavava e poteva essere pericolosa anche lei. Gli Elfi si
lavavano ed erano pericolosi.
Mi venne da ridere di fronte alle
mie sciocche congetture.
Poi mi feci seria non appena mi resi
conto si ciò che avrei dovuto fare di lì a poco e
mi avvicinai
all’uomo; gli sgusciai alle spalle, gli afferrai la testa tra
le
mani e con una brusca torsione gli spezzai l’osso del collo.
Si
afflosciò a terra con un rumore di ferraglia.
Ricacciai un groppo
alla gola e mi chinai su di lui per chiudergli gli occhi. Non ero una
debole. Il mio cuore era troppo indurito per riuscire a provare
ancora pietà per i morti.
Non indossava l’armatura, ma aveva
una spada a cintura.
Gli sfilai lo spadone largo e pesante dalla
cintura, di buona lega, ma scadente rispetto alla mia spada elfica.
Ebbi una fitta di nostalgia per la mia spada, leggera e appena
più
larga di una spada a striscia, estremamente maneggevole. Purtroppo
avrei dovuto abbandonarla chissà dove nella fortezza. Era
nata per
me, fabbricata da un fabbro di Ellesméra, ma non dalla
famosa
maestra Rhunön. Lei non forgiava più spade dalla
caduta dell’ordine
dei cavalieri.
Scacciai il pensiero. Ero veramente troppo
distratta.
Seguendo le istruzioni della ragazza -non le avevo
nemmeno chiesto il suo nome- percorsi il corridoio sulla destra,
ignorando tutte le porte di ferro delle prigioni e puntando con
sicurezza alla porticina di legno di fronte a me. Passando davanti ad
una torcia, vi appoggiai sopra il pezzo di carta su cui era disegnata
la mappa semplificata della fortezza e la lasciai bruciare, era
meglio se non me la trovavano addosso o avrei anche dovuto trovare
una scusa intelligente per giustificare il perché ce
l’avessi. Ma
a dire la verità non avevo la minima intenzione di farmi
catturare.
Quando l’aria gelida all’esterno mi
colpì, il
respiro mi si mozzò. Rimasi qualche istante immobile
nell’angolo
del giardino, mangiando con gli occhi tutto quello che mi capitava
allo sguardo. Gli alberi spogli, il pozzo di mattoni rossi coperto da
un velo di neve, il cielo plumbeo e scuro della sera. Il grande
giardino era circondato da un edificio che aveva una struttura a
metà
strada tra una caserma, un edificio pubblico ed una residenza.
Intravidi da lontano l’ombra scura di una torretta di
guardia, ma
era buio e l’uomo che si trovava lassù in cima con
una torcia in
mano non poteva sicuramente vedermi.
Respirai avidamente l’aria
gelida, che mi seccò la gola. Non vedevo uno spazio aperto
da
settimane.
Non c’era nemmeno la luce incerta della
luna.
Rabbrividii per il gelo.
Nonostante il cattivo tempo era
una notte perfetta per una fuga silenziosa.
Sorrisi.
[Hillr]
Hillr
lavorava al servizio di Durza lo Spettro da più di
vent’anni e
conosceva l’umore del proprio padrone come conosceva le sue
tasche.
Per quel motivo temeva l’espressione rannuvolata del suo
signore mentre avanzava a passi veloci per il palazzo, imboccando con
sicurezza lo scalone in pietra rivestito da un pesante tappeto rosso
cupo. Lo scalone portava ai piani alti, dove stavano le stanze
padronali e degli ospiti e la libreria e le camere dei servi
più
importanti. Come lui.
Hillr non poteva lamentarsi di nulla. Ormai
vicino alla quarantina, aveva avuto una vita piuttosto serena, anche
se passata al servizio di uno Spettro.
A dire il vero le premesse
non erano state tra le migliori. Era figlio di una donnaccia, sua
madre faceva la pescivendola al porto di Teirm e lui avrebbe potuto
scegliere suo padre tra una decina di marinai, date le discutibili
abitudini disinibite di sua madre, che a quanto pareva era solita
trascinarsi nei magazzini portuali con uomini ogni notte diversi. Si
era chiamata Moira, un nome insulso, appioppatole dai genitori che,
dopo cinque figli, dovevano aver avuto altro da fare che cercare un
nome poetico per lei. E così lei si era chiamata Moira,
perché
quell’anno c’era stata una gran moria di polli in
città e tutti
quelli della sua famiglia erano morti stecchiti, riducendoli alla
fame.
Quando era rimasta in cinta -aveva sì e no quindici
primavere- i genitori l’avevano ovviamente cacciata di casa.
Non
avevano certamente bisogno di un’altra bocca da sfamare!
Sua
madre se l’era cavata piuttosto bene anche da sola. Era stata
assunta da un uomo che possedeva gran parte del mercato di pesce a
Teirm e aveva iniziato a vendere il pesce per conto di lui,
perché
certamente da sola non sarebbe riuscita a gestire un peschereccio.
Aveva una paga misera, ma bastava per lei e il figlioletto.
Hillr
ricordava perfettamente il giorno in cui avevano lasciato quella
città. Lui sarebbe diventato uomo nel giro di un anno, aveva
già
qualche accenno di barba! Sua madre voleva allontanarsi dalla
città
che l’aveva disprezzata e lui era stato felice di seguirla.
Avrebbe
potuto renderle il favore che gli aveva fatto quando non lo aveva
annegato appena nato, aiutandola nel suo futuro lavoro, e poi non
amava farsi chiamare “bastardo” da tutti quelli che
incontrava
per strada, era felice di andarsene. Era un tipo pacifico lui e non
voleva scatenare alcuna rissa.
Si spostarono di parecchie miglia e
finirono a Gil’ead. Lì una vecchia signora che
faceva l’erborista
assunse Moira come sua apprendista e lei ne ereditò la
bottega
quando la vecchina morì, un paio di anni dopo.
Sua madre lo aveva
costretto ad imparare a leggere e scrivere dalla vecchia, sostenendo
che un giorno avrebbe potuto cambiargli la vita avere delle
capacità
simili. Lui odiava entrambe le attività, ma si costrinse a
seguirle
per amore della genitrice.
Sua madre si dedicava alla cura degli
abitanti con solerzia e passione. Adorava quell’impiego,
anche se
Hillr ne era vagamente disgustato. Non era bello assistere a deliri
di uomini febbricitanti, tirare indietro i capelli alle donne incinte
perché potessero vomitare senza imbrattarli e ascoltare le
ultime
parole degli anziani sul loro letto di morte, tra la puzza di sudore
e urina.
Lui non era come tutti gli altri ragazzi della sua età,
non ambiva a diventare un cavaliere o un potente signore, avrebbe
tanto voluto fare il contadino. Voleva un piccolo pezzo di terra da
coltivare e magari qualche oca e qualche gallina. E una donna, una
moglie che gli restasse accanto per tutta la vita, facendolo sentire
accettato, come solo sua madre sapeva fare.
Erano desideri
semplicissimi. E la moglie l’aveva quasi trovata. Era una
ragazza
che viveva vicino al lago, ma che saliva in città per
comprare il
pane. Aveva sempre un vestito color zafferano e un sorriso gentile
per tutti. Si erano parlati spesso e quando lui aveva proposto di
recarsi dal padre di lei per chiedere la sua mano lei si era
dimostrata entusiasta.
Ma poi tutto era crollato.
Sua madre non
era riuscita a curare ben tre persone di seguito! Era una brutta
malattia e lei non aveva potuto fare nulla contro tutto quello, e i
poveri disgraziati erano morti sputando sangue. Non li aveva curati,
ma non perché non volesse, ma proprio non sapeva come fare,
era
oltre le sue capacità.
Ma nessuno le aveva creduto. L’avevano
chiamata strega, figlia di Elfi, accusata di aver avvelenato le
sorgenti affinché tutte quelle persone si ammalassero.
Lui
l’aveva difesa, ovviamente. Sua madre non aveva fatto nulla!
Era
una donna buona nonostante tutto!
Non era bastato.
Si era
radunata in fretta e furia una catasta di legna, legata sua madre ad
un palo e appiccato il fuoco.
Lo avevano tenuto fermo e costretto
a guardare mentre Moira la Strega bruciava viva, urlando atrocemente
per il dolore e imprecando contro gli dei.
La ragazza che amava
era stata la prima a sputare sulle sue ceneri. Anche suo padre era
morto sotto le magie oscure che sua madre aveva imparato dagli
Elfi.
Non contenti, gli abitanti vollero uccidere anche lui,
perché il sangue maligno della Strega si esaurisse. Qualcuno
si
procurò una scure, non avrebbero sprecato del legno per una
pira, la
sua anima non aveva bisogno di bruciare dato che le streghe erano
solo le femmine.
Ma quando la lama stava per calare sul suo collo
tutto si era fermato.
Il padrone era tornato. Il governatore di
Gil’ead stava rientrando in città a spron battuto
sul suo
gigantesco cavallo da guerra e tutti si affrettarono a fargli ala,
lasciandolo passare.
Hillr non aveva mai visto il governatore,
sapeva solo che era una creatura non umana, ma neppure un Elfo.
Qualcuno diceva che fosse un demone. Ed in effetti pareva proprio un
demone l’uomo che sorrise malignamente alla folla, snudando
dei
terribili denti aguzzi. La sua pelle era dello stesso colore di un
osso sbiancato, sembrava un cadavere, e il contrasto con i capelli
rossi la rendeva ancora più bianca. E non aveva ancora visto
i suoi
occhi! Quando per sbaglio aveva incrociato il suo sguardo mentre gli
passava accanto e quasi aveva gridato. Quegli occhi. Non avevano
nulla di umano. Rossi come sangue, da animale, eppure così
penetranti, vigili, scrutatori. Quell’essere aveva qualcosa
di
profondamente inquietante e non era solo per il suo aspetto
esteriore. Era una sensazione che colpiva l’anima di tutti i
presenti, c’era qualcosa in lui, nel suo modo di camminare e
di
guardarsi intorno, qualcosa che rendeva indubbio il suo potere, di
qualunque natura fosse.
Qualcosa che faceva paura.
Il mostro
aveva scrutato attentamente il mucchio di legna annerita e ancora
fumante che sorgeva in mezzo alla piazza del mercato, dove di solito
si montava la gogna. C’era ancora odore di carne bruciata
nell’aria.
Il governatore era scoppiato a ridere in un modo che
aveva terrorizzato tutti.
«Avete bruciato una strega, dunque»
aveva detto, con un tono così sprezzante che tutti nella
piazza si
erano sentiti stupidi. Tremendamente stupidi.
«Deduco che a
nessuno di voi piaccia la stregoneria».
Tutti in città sapevano
che quell’uomo -se tale poteva definirsi- praticava della
magia
nella sua forma più oscura. Erano voci che erano filtrate
anche alle
orecchie di Hillr. Una madre sussurrò alla figlia che quello
che
aveva davanti era Durza lo Spettro, il governatore della
città.
Il
giovane Hillr non sapeva esattamente cosa fosse uno Spettro, ma non
lo avrebbe capito neppure più avanti. Gli Spettri erano
creature
misteriose che nessuno conosceva e lui non si sarebbe mai azzardato a
fare domande al diretto interessato.
«E tu eri il rampollo
suppongo» aveva proseguito la creatura dagli occhi felini,
guardandolo da testa a piedi.
Hillr si era sentito snudato, come
se quegli occhi animaleschi lo stessero rivoltando.
«Sai
leggere?» gli aveva chiesto.
Allora Hillr aveva creduto che fosse
una domanda stupida, posta in quel contesto.
«Sì» aveva risposto,
prontamente.
«Se hai bisogno di un lavoro, vieni più tardi al
palazzo. Di’ che ti manda Durza lo Spettro».
Dette quelle poche
parole aveva spronato il cavallo verso il palazzo di pietra grigia
che troneggiava al centro di Gil’ead, sussurrando un paio di
parole
in una lingua sconosciuta, che spaventarono ancora di più
gli
abitanti.
Ma non era ancora finita.
Finite le parole, sette
persone nella piazza caddero a terra. Morte.
Hillr li guardò uno
ad uno. Erano i capi. Quelli che avevano esortato tutti a bruciare
sua madre. C’era anche la ragazza che stava per sposare.
Aveva
sorriso, mentre grida di panico rimbalzavano ovunque.
La morte
ingiusta era già stata vendicata, ma a quel punto temeva per
il
cavaliere dai capelli rossi. Erano molti, gli abitanti di
Gil’ead.
E lui era solo. Se gli si fossero avvicinati lo avrebbero potuto
disarcionare facilmente e uccidere a forza di pedate.
Ma nessuno
lo fece. E Hillr credette di capire il perché.
Quell’uomo era
inavvicinabile, pareva avere il potere di piegare gli elementi al suo
volere e incuteva un senso di timore che era pressoché
insuperabile.
Nessuno gli torse un capello, nessuno fece un segno
scaramantico contro la cattiva sorte, nessuno innalzò una
preghiera
agli dei, e nessuno fermò lui quando seguì
l’uomo che gli aveva
appena salvato la vita.
Da allora erano passati vent’anni.
Hillr era entrato al servizio di Durza e si era subito trovato bene
tra pile di carte da scrivere e trascrivere. Non amava il suo
padrone, era impossibile amarlo, faceva troppa paura. Però
lo
rispettava e gli era profondamente grato per aver vendicato sua madre
quel giorno di tanti anni prima. Adesso era il suo siniscalco, il suo
consigliere, il vice governatore, il coordinatore della vita del
castello, colui a cui tutti facevano riferimento per riferire i
messaggi allo Spettro.
Era un ruolo degno di nota e Hillr ne
andava fiero.
Sua madre aveva avuto ragione ad insistere
nell’insegnargli a leggere e scrivere. Era stata la sua
salvezza.
L’uomo annaspò
dietro alla camminata troppo rapida
del suo padrone. Era invecchiato, non era più quello di un
tempo e
presto sarebbe stato troppo rincitrullito per continuare nel suo
mestiere. Sarebbe stata una vecchiaia triste la sua. Niente moglie,
né figli. La sua unica compagnia fuori dal castello erano le
donne
del bordello, ma non avevano alcun valore affettivo.
Respirò
dalla bocca, praticamente correndo dietro alla chioma rossa che
pareva sfrecciare davanti a lui. Una cosa inquietante del suo padrone
era che non era invecchiato di un giorno da quando lo aveva visto per
la prima volta, vent’anni prima. Era contro natura!
Come se il
tempo gli scivolasse addosso senza scalfirlo. Sapeva che quella era
una prerogativa degli Elfi, ma sapeva anche che il suo padrone non
era un lurido Elfo!
Però sembrava comunque che la sua età si
fosse cristallizzata intorno alle venticinque, forse trenta
primavere. E a quanto pareva aveva anche le stesse energie di un uomo
di quell’età.
«Gradirei che non venissi a cercarmi nelle
prigioni per farmi annunci di questo tipo, Hillr» disse con
voce
monocorde dopo che si fu seduto oltre alla massiccia scrivania di
legno, senza invitarlo a fare altrettanto. Del resto non aveva mai
provveduto a sistemare un'altra sedia nella stanza.
«Si tratta di
una notizia importante, Signore» ribatté,
recuperando fiato ed
entusiasmo.
«Appunto per questo» occhi rossi lo fulminarono,
facendolo quasi indietreggiare. «La prigioniera non deve
venire a
sapere nulla. È una dei ribelli, te l’ho detto.
Non credo che
potrà mai sfuggirmi, ma nel caso ci riuscisse non deve avere
in mano
informazioni utili».
«Lei è molto bella» disse Hillr di punto
in bianco.
Il suo padrone fece un gesto spazientito. «Lo dite
tutti. Cosa ci troviate in una donna piatta come un tavolo ancora non
lo capisco.»
Hillr era convinto che il suo padrone capisse
benissimo. Era vero, forse la ragazza non aveva un corpo molto
attraente: era veramente troppo alta e con curve pressoché
inesistenti. Insomma aveva un fisico troppo androgino, ma il viso era
estremamente esotico e ammaliante. Nulla deturpava la perfezione
della sua pelle se non la sporcizia e le ferite, aveva occhi di una
forma particolare e di un verde sorprendente. Innaturale. Hillr aveva
molto sentito parlare degli elfi e aveva sentito qualche chiacchiera
dei soldati. Qualcuno diceva che fosse stata lei ad aver ucciso
Bastof, qualche mese prima. E lui ci credeva.
Quella ragazza era
troppo strana per essere una semplice umana e un volto così
affilato
non l’aveva mai visto in vita sua, con il naso sottile e il
mento
aguzzo sembrava quasi un rapace.
Forse non era poi così tanto
bella.
«Non è umana vero?» chiese, e subito fu
certo di essersi
spinto troppo in là.
Lo Spettro lo scrutò in silenzio, con
circospezione. «Non ucciderai un’Elfa per
vendicarti delle tue
sofferenze» disse poi. «Non è colpa sua
se i tuoi compaesani hanno
accusato tua madre di discendere dalla sua razza».
«Ma la dovrai
uccidere» replicò Hillr.
«Sarà molto importante per te farlo di
persona? Potrei occuparmene io al posto tuo» aggiunse
speranzoso.
Lui odiava gli elfi. Se non fossero mai esistiti sua madre non
sarebbe morta, uccidere uno di loro era come dimostrare di aver avuto
ragione.
«Se le succederà qualcosa sarai il primo a pagarne
le
conseguenze» disse tranquillamente lo Spettro, guardandosi
distrattamente le unghie. Poi fece una smorfia «Anzi, forse
il
secondo».
«Credo di essere l’unico a sapere con esattezza chi
sia la ragazza» lo rassicurò.
Il suo signore scosse la testa.
«No Hillr. Anche lei lo sa, molto meglio
di te».
Hillr
spostò il peso da un piede all’altro a disagio.
Lei. La spia del
suo padrone. Anche lei era troppo sinistra.
Scosse la testa per
scacciare tutti i pensieri funesti. «Devo ancora riferirti la
notizia».
Durza annuì. «Ti ascolto».
«Ieri due dei tuoi
soldati si trovavano in ricognizione quando si sono imbattuti in un
viandante solitario» cominciò Hillr. «Ha
evitato accuratamente
Gil’ead e ha puntato verso Daret. Capirai che un viandante
solo, a
piedi, nella stagione del gelo e con l’aria schiva li ha
immediatamente insospettiti». Durza annuì
lentamente, serio e
concentrato. «Lo hanno fermato e lo hanno interrogato,
chiedendogli
dove andasse e perché viaggiasse solo. Quello ha risposto
dicendo
che stava andando alla tomba della sorella morta qualche settimana
prima e che veniva da Dras-Leona. La sua meta era proprio Daret e
abbiamo avuto la fortuna sfacciata di avere un abitante di Daret tra
i due soldati. Gli ha detto quasi per scherzare se conoscesse una
determinata taverna dove il vino era buonissimo e il viandante ha
risposto affermativamente, con entusiasmo».
«L’unico problema
è che questa taverna non esisteva affatto,
giusto?» lo interruppe
Durza sorridendo malignamente.
Dei passi risuonarono fuori dalla
stanza e poi scomparvero. Probabilmente qualcuno era venuto a portare
la cena al padrone, ma aveva rinunciato trovandolo impegnato.
Hillr
fece un cenno affermativo. «Esattamente. I soldati hanno
proseguito
con le domande ma hanno ricevuto solo risposte vaghe, quindi hanno
deciso di portare l’uomo con loro. Lui ha opposto resistenza,
aveva
una corta spada sotto la tunica e la sua copertura di innocuo
viandante è saltata. Non ha voluto rivelare
nient’altro nonostante
i metodi di persuasione, ma ora si trova qui a Gil’ead, nelle
prigioni del piano terra ed è pronto a subire il tuo
interrogatorio,
quando più lo desideri».
Durza assunse un’espressione
soddisfatta e incuriosita. «Sarà uno dei
ribelli?»
«Non lo
sappiamo signore».
«Lo scopriremo».
Hillr stava per
replicare, quando il trillo stridulo della campana della torre lo
interruppe.
Il siniscalco sbiancò in volto. Quella campana
suonava solo segnali di allarme.
[Arya]
Ispirai ancora una
volta l’aria fresca e poi decisi di mettere da parte i
sentimentalismi. Sgusciai nel porticato che si affacciava sul cortile
e poi all’interno di una piccola porticina di legno. Mi
affacciai e
uscii immediatamente quando capii che si trattava delle cucine,
affollate di servitori intenti a lavare pentole.
Fortunatamente
non c’era troppo movimento a quell’ora,
probabilmente buona parte
dei soldati stava cenando e i servitori erano impegnati a
servirli.
Dovevo raggiungere il primo piano e cercare una porta di
legno di quercia. Potevo farcela.
Entrai da un portone più grande
e mi trovai di fronte ad un ampio scalone di pietra rivestito da un
folto tappeto rosso scuro.
Usai la massima cautela, ma per salire
lo scalone dovetti espormi alla luce delle torce e una serva che lo
stava scendendo con un vassoio di cibo in mano mi vide e
gridò.
In
effetti non dovevo essere un bello spettacolo. La camicia bianca mi
si era appiccicata alle ferite fresche della giornata, tingendosi di
un macabro color cremisi, stringevo in mano uno spadone dei soldati e
i miei piedi scalzi erano rossi, gonfi per il gelo e scorticati a
sangue, i miei capelli scarmigliati.
Il grido della cameriera non
si era ancora spento, quando una campana suonò. Fu un suono
vicino e
acuto, probabilmente veniva dalla torretta che avevo visto dal
giardino. Aveva un ritmo allarmante. Era un segnale di
allarme!
Schizzai su per i gradini, scostando bruscamente la
cameriera impalata sul posto e facendola cadere a terra. Imboccai a
casaccio la parte sinistra del corridoio che mi si apriva davanti,
guardandomi febbrilmente intorno alla ricerca di una porta di
quercia.
Andai a sbattere contro un muro solido. Riconobbi Durza
dal rosso dei suoi capelli. Mi ero appena scontrata con lo Spettro,
si poteva essere più sfortunati?
Un paio di mani forti si
serrarono sulle mie spalle e Durza mi guardò con occhi
severi.
«Dovevi proprio fare sciocchezze durante l’ora di
cena?»
In
risposta alzai la mano che stringeva la spada, cercando di colpirlo
al petto. Si scostò agilmente ed estrasse la spada che
teneva sempre
a cintura. Era uno scontro impari ed io ero così debole che
finii
subito disarmata. La lama quasi trasparente di Durza emise un trillo
argentino quando si scontrò contro la mia, che
scivolò dalla mia
presa malferma.
Un’ondata di rabbia e frustrazione mi
travolse.
Gli tirai qualche rabbioso pugno allo sterno, ma non
potei continuare quando lui mi afferrò i gomiti.
Fece un lieve
sorriso. «Smettila piccola Elfa o mi vedrò
costretto a tirare fuori
il metodo dell’ultima volta».
Avevo ancora il risultato del
“metodo dell’ultima volta” sulla gola e
non ci tenevo a
ripetere l’esperienza.
«Ti odio» sputai.
«Prevedibile.
Come hai fatto ad uscire?»
Serrai le labbra e alzai
orgogliosamente il mento.
«HILLR!» gridò, così forte da
farmi
male alle orecchie.
L’uomo di mezza età annaspò nella
nostra
direzione qualche istante dopo e mi gettò uno sguardo
sconcertato,
che in un istante si fece ostile.
«Vai a vedere cosa è successo
nelle prigioni e fammi rapporto. Due minuti»
ordinò seccamente
Durza.
L’uomo fece un inchino profondo. «Devo riportare la
prigioniera nella sua cella?»
«No, vai. Io e la prigioniera
dobbiamo scambiare due chiacchiere».
«E così mi porterai dal
re!» dissi, non appena fummo di nuovo soli.
Inarcò un
sopracciglio. «Perché dovrei?»
Scossi la testa. Non volevo
tradire la ragazza, probabilmente avevo già detto qualcosa
di
troppo.
«Elfa» mi ammonì minaccioso.
Mi strappai
un’unghia.
Mi afferrò i polsi. «Smettila».
Annuì in
direzione delle mie dita. «Odio quando lo fai»
«Lasciami»
ordinai.
«Non credo che lo farò, non finché non
avrai parlato.
Come sei uscita dalla tua cella?»
Mi divincolai, ma le sue dita
si strinsero saldamente. «Mi stai fermando la circolazione
del
sangue» lo informai.
Sospirò. «Cosa devo fare con te,
Arya?»
Doveva essere la prima volta che pronunciava il mio nome.
E non mi piacque il suono che aveva sulle sue labbra. Ogni parola
detta da lui pareva essere insieme miele e veleno.
«Uccidimi»
sibilai. «Avresti dovuto farlo subito. Uccidimi e i miei e i
tuoi
problemi saranno risolti».
Parve soppesare la mia proposta,
estraendo con disinvoltura un pugnale dalla cintura.
«Ti
semplificherei la vita, troppo». Mi fissò
beffardo. «Hai sbagliato
i tuoi calcoli, Elfa. È il mio signore che ama sentire i
prigionieri
implorare la morte, non io». Il suo sguardo si
concentrò in un
punto indefinito nella parte bassa del mio volto, intorno al mento.
«Ci sono diverse altre cose che amerei fare,
invece» bisbigliò
suadente.
Non capii le sue parole, ma cercai in ogni modo di
celargli la mia confusione.
Mi si avvicinò ancora, fino a farmi
sentire l’odore di menta emanato da lui. C’era una
strana luce
nelle sue iridi rossicce, una luce che fui incapace di comprendere e
che per questo mi atterrì ancora di più.
«Che vuoi fare?»
cercai di assumere un tono spavaldo, ma la voce mi tremava.
Si
mosse con la rapidità di un serpente, ebbi solo modo di
vedere la
lama lucente venirmi incontro e chiudere gli occhi.
Niente.
Non
sentivo niente. Era così semplice morire?
Schiusi le palpebre,
con cautela. Il pugnale era conficcato fino all’elsa nel
portone
alle mie spalle, ad una distanza millimetrica dalla mia tempia
sinistra.
E respiravo ancora. E l’odore di menta selvatica era
troppo.. vivo.
La mia attenzione saettò in un attimo al
mio carceriere, che mi fissava con un insopportabile ghigno sfottente
dipinto in viso. «Tu hai paura di morire.»
«Che ne sai?»
«Lo
so» rispose asciutto, estraendo il pugnale senza sforzo.
«Sono
pronta a sacrificarmi per il mio popolo» ribattei fiera.
Mi fissò
con aria di compatimento. «Queste sono solo parole, e io ne
ho
abbastanza delle tue parole. Precedimi nella tua cella, Elfa»
ordinò
poi, puntandomi con noncuranza la lama all’altezza della
gola,
«vedrò di rendertela ancora più cara,
così che tu non senta il
bisogno di lasciarla mai più».
Fu quello il momento scelto da
Hillr per tornare a fare rapporto. «Devo passare dopo
signore?»
chiese, lanciandomi nuovamente un’occhiata sospettosa. Capii
di non
piacergli.
«No parla pure, non credo che ci sia qualcosa che la
nostra graziosa prigioniera non sappia già» fece
un sorrisino
feroce nella mia direzione.
L’uomo si schiarì la gola. «Non
c’è segno di scasso nella porta della cella,
chiunque l’abbia
aperta deve averlo fatto con le chiavi, che però erano
ancora appese
alla cintura del custode. Che a dirla tutta, signore, è
morto; aveva
il collo spezzato. Gli uomini hanno poi notato l’assenza
della
prigioniera e hanno dato l’allarme».
Durza annuì con calma.
«Le altre guardie dov’erano nel
frattempo?»
«Erano state
trattenute signore..»
«Cosa le ha trattenute?» ringhiò,
perdendo pericolosamente il controllo.
Hillr aprì la bocca, poi
la richiuse, poi parlò. «Alba, signore.»
Durza si spalmò una
mano sul viso. «Quante volte vi ho detto di non ascoltarla?!
EH?»
L’uomo si ritrasse.
Alba.
La ragazza. Aveva il nome
della luce del mattino, nome che in effetti sembrava nato per il suo
incarnato delicato e i capelli color dell’oro.
L’avevano
scoperta. Un’altra innocente che sarebbe morta a causa mia.
«Con
quegli idioti faccio i conti dopo, adesso» mi
scoccò un’occhiata
fiammeggiante, «tu ed io andiamo a decidere chi è
che comanda qui
dentro».
Mi afferrò per i capelli e mi fece rifare a ritroso la
strada che avevo compiuto io qualche minuto prima per fuggire.
L’ebbrezza della fuga si spense lentamente dentro di me,
lasciandomi una sensazione di spiacevole vuoto.
«Ti ha fatto
uscire una ragazza?» chiese Durza cupamente.
«So aprirla anche
da sola una porta, Spettro, basta darsi da fare».
«Stai
mentendo» sussurrò al mio orecchio.
Mi si accapponò la pelle.
Era la prima volta che dava chiara dimostrazione del suo dono di
leggere i sentimenti. E io ero troppo agitata, mi ero tradita da
sola.
Il vento freddo sparì, le luci delle torce mi ferirono gli
occhi, la puzza di chiuso e di muschio mi invase la gola mentre la
porta nera della stanza delle torture si avvicinava
inesorabilmente.
Quando Durza mi spinse dentro e chiuse la porta
appoggiandocisi con la schiena, vidi nei suoi occhi una cupa
soddisfazione che mi inquietò. Il suo umore pareva essere
notevolmente migliorato da quel mattino, e non poteva essere dovuto a
niente di buono.
«Forse dovremmo rimandare a domani mattina,
piccola Elfa» disse.
«Non credo che andrò da qualche parte
stanotte» ribattei seccamente, ma il mio tono
mancò della durezza
che avrei voluto imprimervi. La delusione per la libertà
sfiorata mi
bruciava ancora.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso
raccapricciante. «Ma la tua mente viaggerà
parecchio, te lo posso
assicurare. Domani assisterai ad un bello spettacolo. I miei uomini
hanno trovato un uccellino e domani vedremo di farlo cantare..
potrebbe rivelarsi parecchio interessante..»
Come potevo dormire
sonni sereni con quelle parole che rimbalzavano nella mia mente?
Ero
confusa.
Durza mi aveva fatto capire di non nutrire alcuna
simpatia per Galbatorix.
La ragazza bionda, Alba, mi aveva
assicurato di averlo sentito parlare con il suo siniscalco, e che
aveva affermato di volermi portare dal re.
Il servo di Durza,
Hillr, mi aveva guardata con l’aria di uno che mi avrebbe
uccisa
volentieri nel sonno.
Alba. Come aveva trattenuto i soldati?
Perché Durza si era arrabbiato a tal punto nel sentirla
nominare?
Perché nel ricordare la sua immagine l’istinto mi
suggeriva che ci
fosse qualcosa di profondamente sbagliato in lei?
E Durza.. Sapevo
cose significasse nel gergo militare “un uccellino da fare
cantare”. Era un prigioniero, qualcuno a cui strappare
confessioni.
Chi altri era finito nelle abili mani dello Spettro? Intendeva forse
farmi assistere a delle torture il giorno dopo? Quanto avrebbe
resistito il prigioniero prima di implorare pietà?
La cella mi
sembrava soffocante dopo quella breve sortita all’aria aperta.
Mi
rannicchiai sul letto.
Gli uomini raccontavano spesso ai loro
bambini che se non fossero andati a letto senza discutere o non si
fossero comportati bene, l’uomo nero sarebbe uscito dalle
ombre e
li avrebbe portati via con sé. Ovviamente l’uomo
nero non
esisteva, era solo una fantasia che aveva come scopo quello di
spaventare i bambini.
Ma in ogni caso, prima di nascondersi
nell’ombra, avrebbe fatto meglio a controllare che non ci
fosse
Durza già acquattato nell’oscurità.
[Durza]
«Alba!»
Non
le diede nemmeno il tempo di voltarsi che la schiaffeggiò
con furia,
lasciando un’impronta sulla sua pelle candida.
La ragazza emise
uno strillo di dolore e si posò entrambe le mani sul viso.
«Cosa
pensavi di ottenere, stupida!» la rimproverò
aspramente.
Durza
aveva fatto lui stesso domande agli uomini che sarebbero dovuti
essere in servizio davanti alla cella dell’Elfa quando quella
aveva
tentato la fuga e tutti avevano confermato che Alba aveva fornito
loro boccali di idromele, convincendoli a temporeggiare e assicurando
loro di avere ancora parecchio tempo prima dell’inizio del
turno di
guardia.
Lo Spettro tolse bruscamente le mani dal bel viso della
sua interlocutrice. «Perché?» chiese
lapidario.
«I-io ero solo
curiosa» balbettò la ragazza con un pizzico di
indignazione.
«Volevo solo controllare se lei fosse davvero..»
«Questo non ti
riguarda più» la interruppe. «E
perché l’hai fatta uscire?»
Gli
occhi celesti si sgranarono. «Io non l’ho fatta
uscire, le ho solo
parlato per qualche minuto».
Lo Spettro la lasciò andare
sospirando. «E chi se non tu? Sei l’ultima ad
averla vista. Poi me
la sono ritrovata davanti alla mia camera da letto».
«Non avrei
avuto motivo di farla scappare» ribatté lei con
sicurezza.
Durza
la guardò con sospetto, per nulla convinto. Ma
c’era una semplice
maniera per conoscere la verità. Quella ragazza gli aveva
giurato
fedeltà e non poteva che dire la verità se lui
l’avesse
incastrata con la domanda giusta.
«Non mentirmi. Hai aperto la
porta all’Elfa? L’hai aiutata a fuggire?»
«Non avevo la
minima intenzione di farla fuggire».
Quelle parole furono la
conferma che Durza aspettava. «Va bene» disse,
più inquieto di
prima.
Chi era stato allora? Possibile che l’Elfa fosse
veramente riuscita ad aprire la porta con un qualche metodo a lui
sconosciuto? Eppure la magia era totalmente fuori dalla sua
portata..
«Portami la cena in camera» ordinò,
prima di
dirigersi un’ultima volta verso le prigioni.
Cominciava ad
odiare quel luogo, era diventato un monumento alla sua sconfitta.
Poteva almeno sperare che il nuovo prigioniero non sarebbe stato
algido e insofferente come Arya.
Si affacciò alla cella del nuovo
arrivato. Dormiva profondamente, avvolto nel suo mantello. Un taglio
rossastro gli deturpava la fronte e aveva qualche livido sparso per
tutto il viso. Tremava dal freddo e sembrava sofferente.
Durza
pensò con un accenno di ottimismo che probabilmente sarebbe
stato
molto più facile con un comune essere umano, meno resistente
sul
piano fisico e mentale rispetto ad un elfo. E se quell’uomo
era uno
dei Varden, come lui sospettava, avrebbe potuto scoprire cose
interessanti. Forse l’Elfa non gli sarebbe servita
più e avrebbe
potuto liberarsene. Aveva come la sensazione che la sua vita sarebbe
stata molto più tranquilla senza di lei.
Forse avrebbe potuto
soddisfare le richieste di Hillr e lasciare che la uccidesse.
O
forse quelle di lei, anche se Durza non sapeva con
esattezza
cosa ne avrebbe fatto.
O forse avrebbe potuto tenere l’Elfa e
piegarla al suo volere. Ci sarebbe riuscito prima o poi, ne era
certo. Avrebbe impiegato mesi, forse un intero anno, ma alla fine
l’avrebbe spezzata. Per piegare la volontà dei
draghi anziani si
impiegavano decenni, per quella di un’Elfa sarebbe certamente
bastato meno.
Lo Spettro prese a tenere in considerazione l’idea
con più serietà. Se voleva veramente prendere il
potere al posto di
Galbatorix aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. E avere
un’Elfa vincolata a sé da un giuramento di
fedeltà avrebbe potuto
rivelarsi molto utile.
Ci avrebbe pensato.
Passò anche dalla
sua cella e sussurrò un incantesimo per bloccare
ulteriormente la
porta. Più di così non avrebbe potuto fare.
Gli occhi verdi di
Arya incontrarono i suoi nel buio. Era turbata.
Durza sorrise.
Quella era una delle poche vittorie che aveva avuto su di lei.
Poi
se ne andò dalle prigioni e camminò verso la
parte del palazzo
riservata a lui.
Alba e la cena lo aspettavano nelle sue stanze.