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Autore: Flower In The Sun    28/04/2013    1 recensioni
Che cosa succede quando siamo stanchi della nostra vita? Quando non abbiamo più alcuno scopo per andare avanti? Quando tutto si colora di grigio, e magari noi odiamo il grigio profondamente?
Semplice, prima arriva la depressione, poi l’avvelenamento da Vetriolo ed in fine il desiderio costante di morte, che ci tiene svegli la notte, ci accompagna a fare la spesa, ci segue di nascosto mentre passeggiamo per le calli di Venezia, attendendo qualcuno che non verrà, fino a diventare parte di noi stessi, fino ad farci desiderare la morte più di ogni altra cosa, più dei soldi, del sesso, della salute, della felicità. Ecco che entra in campo Evey Jackson, una suicida alle prime armi con il resocnonto della vita. Una lettera, un poster ed un ultimo desiderio che palpita nella sua mente: prendere l’ultima tazza di Tea, alle cinque, con la persona che più brama al mondo.
Partecipa al concorso " Do you have some tea? After theater with me, Mr. Darcy. "‏ di Tilde Moon
Genere: Drammatico, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: John Lennon , Nuovo personaggio
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Autore(EFP e Forum):Flower In The Sun/ VirginRevolution
Titolo: It’s a Good Day (To Die)  [ N.d.A. Canzone della cantante Peggy Lee. Il “(to die)” è stato aggiunto da me, in riferimento ad una colonna sonora di un film di cui, ahimè, non rimembro il titolo D:]
Genere: What If? | Drammatico | Fantasy
Personaggio: Evey Jackson | John Lennon.
 Breve introduzione: Che cosa succede quando siamo stanchi della nostra vita? Quando non abbiamo più alcuno scopo per andare avanti? Quando tutto si colora di grigio, e magari noi odiamo il grigio profondamente?
Semplice, prima arriva la depressione, poi l’avvelenamento da Vetriolo ed in fine il desiderio costante di morte, che ci tiene svegli la notte, ci accompagna a fare la spesa, ci segue di nascosto mentre passeggiamo per le calli di Venezia, attendendo qualcuno che non verrà, fino a diventare parte di noi stessi, fino ad farci desiderare la morte più di ogni altra cosa, più dei soldi, del sesso, della salute, della felicità. Ecco che entra in campo Evey Jackson, una suicida alle prime armi con il resocnonto della vita. Una lettera, un poster ed un ultimo desiderio che palpita nella sua mente: prendere l’ultima tazza di Tea, alle cinque, con la persona che più brama al mondo.
Eventuali note dell'autore:John Lennon non mi appartiene. Nessuno dei fattti riportati è accaduto realmente. Evey Jackson, essendo carattere nato dal mio cervello, mi appartiene.
Post Scriptum, allegherò delle foto dei personaggi, compresa Evey, perché ho trovato un’attrice che fa al caso mio, ed rispecchia ogni singola parte di come mi sono immaginata Evey.
 




It’s A good Day. ( to die )


 
Di certo c’era un motivo, se Evey aveva scelto la via del suicidio. Anzi, c’en’ erano mille e non più mille, di motivi! Per esempio nessuno sapeva che cosa fosse la Psicomachia1, oppure nessuno rispettava più l’ambiente. Nessuno pensava più a contare le stelle, nessuno apprezzava più la buona musica. L’arte era passata totalmente in secondo piano. Ora sarebbe lecito chiedersi: “che senso ha vivere in un mondo in cul l’arte viene sottovalutata?”. La realtà era che tutte queste trovate stupidamente geniali per abbandonare questa terra erano – appunto – trovate. Solo scuse. La realtà era che Evey si era stancata di rivivere tutti i santi giorni la stessa routine. Alzarsi la mattina, lavarsi, vestirsi, correre a prendere l’utobus, accademia delle belle arti fino alle sei del pomeriggio e poi nuovamente a casa, a far nulla. Come sempre. L’unica cosa capace di tirarla su di morale era la musica. E la pittura, anche la pittura!
Ma due semplici causanti non sarebbero bastate a farle rinvenire la voglia di vivere. Ormai s’era ammalata di quella malattia che colpiva tutti i poeti pessimistici del romanticismo, Il mal di vivere. Chiamatela Depressione, o stato di pigrizia mentale, Avvelenamento da Vetriolo, follia, schizofrenia. Qualunque fosse stata la nomenclatura utilizzata, nulla avrebbe distolto dalla mente della giovanissima Evey Jackson il pensiero e desiderio costante della morte.
Evey quella fredda e maledetta mattina di gennaio, si alzò di malumore. Più del solito. Era l’ora di farla finita. Aveva scelto il lunedì per suicidarsi, perché il Lunedì era il giorno favorito ai suicidi. Una volta aveva letto su di un libro – che parlava di una suicida, come lei – che le donne scelgono sempre metodi eleganti, per farla finita. Evey aveva deciso che non voleva segni permanenti sul suo cadavere, l’unico modo sarebbe stato fare una bella indigestione di farmaci – come quella del libro! – mescolati assieme. Sarebbe schiattata in pochissimo tempo, e senza soffrire troppo, pertanto il coma farmacologico fu aggiudicato.
Evey prese carta e penna, doveva scrivere qualcosa, prima di lasciare questo mondo. Lo facevano tutti, e lo avrebbe fatto anche lei, ma con stile.
Le venne in mente una vecchia pratica, spesso usata nell’antichità, dai condannati a morte ed i giustiziati. L’ultimo desiderio. Evey dovette pensarci a lungo, c’erano così tante cose che voleva desiderare. Uno di questi era anche desiderare che il desiderio di morte se ne andasse, con la chiusura della brutta stagione, ma lo scacciò via prepotentemente. Non si sarebbe tirata indietro prorpio Ora.
Fra le sue mani teneva scatole e scatole di barbiturici, era stato semplice averli. Era bastaco entrare di nascosto nello studio della badante di sua nonna e fare piazza pulita di farmaci.
Ora però, doveva concentrarsi su di una cosa – forse più importante del Suicidio – fondamentale, l’ultimo desiderio. Evey si buttò sul letto, e fissò il soffitto. Un grande – a dir poco enorme – poster dei favolosi Beatles, era appeso su di esso.
John, George, Stu, sto per raggiungervi!” pensò tutta sorridente. Che ci fosse un girone dell’inferno per i suicdi? Evey non lo sapeva, non le era mai interessata la Divina Commedia – per quanto la letteratura l’appassionasse. Sperò di no, sperò che non le si sarebbero mai presentate le porte dell’inferno, una volta passata olte. C’era una cosa che, però, desiderava. Dopo la sua morte avrebbe avuto sicuramente un mucchio di faccende in sospeso, percui sarebbe diventata un fantasma. Lo sperava con tutta se stessa, così avrebbe potuto spiare le persone, e viaggiare in giro per il mondo, senza l’aiuto dei Viaggi Astrali2. Una volta ci aveva provato – a fare un viaggio Astrale – ma con scarsi risultati. Avrebbe dovuto leggere di più, riguardo a quelle cose.
Evey scosse la testa. Aveva sempre avuto problemi di concentrazione, sin da piccola. Doveva tornare a pensare al suo ultimo desiderio. Pensò a quanto sarebbe stato bello vedere John Lennon dal vivo. Il suo amato idolo, passato a “miglior vita” nel lontano Millenovecento ottanta. Pensò che sarebbe stato davvero divertente prendere un Tea delle cinque, in vero stile British con lui. D'altronde John Lennon era nato a Liverpool,in Gran Bretagna. Più British di lui non c’era nessuno. Apparte Paul McCatney, ma lui era vivo. Vivo e vegeto, arzillo e Settantenne.
Sì . Sarebbe davvero stato bello incontrare John Lennon, prima di partire per sempre. Peccato fosse decisamente Impossibile.

~*~

Erano ancora fra le sue mani, i barbiturici e medicinali vari. Erano quasi le cinque. Evey aveva deciso che sarebbe morta alle dieci di sera, quindi avrebbe cominciato l’inferno per le sette o le otto di sera. Tanto valeva vivere le ultime ore, come sempre, a preparare un maledettissimo Tea ai frutti di bosco, e fumando Winston a più non posso. Evey si diresse verso la piccola cucina, che odorava di cannella e marzapane. Ci aveva sempre tenuto molto a quella cucinetta da quattro soldi. La faceva sentire come in una di quelle riviste publicitarie del Millenovecentocinquanta, che sposnsorizzavano ditte di cibarie e alimentari vari. E la cosa le piaceva, ecco un’altra cosa che le piaceva. Valeva la pena vivere per una cucina, però? No. La risposta arrivò secca.
Valeva la pena Uccidersi per via della routine quotidiana?

Evey ci pensò su un attimo. Come in risposta alla sua domanda, il campanello di casa suonò, e suonò più e più e più dannatissime volte. Ecco che cosa odiava Evey: le persone insistenti.
“chi diavolo sarà ora, chi vuole interrompere i miei piani di morte?” si chiese tra sé e sé. Nascose tutti i medicinali – o meglio buttò – sotto al letto, e si diresse ad aprire la porta. Erano le cinque e due minuti.
Evey si strofinò le mani sul grmbiule da cucina, prima che l’ospite indesiderato, potesse pensare di lei, come una donna disordinata e con la testa sulle nuvole – com’era in realtà.
La ragazza dai corti capelli neri aprì la porta.
« Buon Giorno, bellezza!» esclamò un uomo, apparso davanti ai suoi occhi. Aveva i capelli spettinati degli artisti, color bronzo-ebano, degli occhialetti striminziti neri, un lungo naso, sottile e fino, e delle labbra altrettanto sottili e fini. Evey era sicura, sicura al cento per cento, di chi avesse davanti a gli occhi. Sbattè la porta e se ne tornò in cucina, correndo. L’uomo era rimasto decisamente sorpreso da quella reazione. Probabilmente era colpa del vetriolo, pensò. Evey tirò fuori un liquore alla ciliegia, e lo tracannò come fosse acqua. Aveva bisogno di qualcosa che la svegliasse un po’, da quel maledetto coma.
Fatto stava, che il campanello aveva ricominciato a suonare, seguito da urla e lamenti del pover’uomo che stava aspettando al di fuori dell’edificio, tra spifferi gelati ed ombre condominiali.
Evey riaprì la porta e lo guardò.
«non puoi essere tu.» decretò, tentata dal chiudere la porta, nuovamente. Ma quest’ultimo la bloccò ed entrò spavaldo in casa.
« ed invece sono io. Non avevi chiesto di me?» domandò aggirandosi attorno con fare attonito. Evey lo stava fissando sconcertata, tanto da non accorgersi che la porta si stava chiudendo, sussultando allo sbattere volontario di quest’ultima – comandata mentalmente dall’uomo presente nella stanza.
« Non…. Dai, tu sei morto! Non può essere possibile!» esclamò la ragazza.
«OK. Sono pazza, pazza da rinchiudere in manicomio!» decretò Evey. L’uomo si voltò verso di lei, sorridendole. Quel sorriso le strappò un battito cardiaco.
« finchè parli da sola, è normale che tu ti ritenga pazza!» scoppiò in una risata pura e cristallina, paragonabile ad una cascata di perle vitree al contantto con il marmo freddo del pavimento. Evey si portò una mano sulla fronte. « Non dovevo bere.» si autocommiserò. «Andiamo Evey, lo sappiamo entrambi che hai bevuto solo un goccio, e che io non sono assolutamente frutto della tua mente. Coraggio, mettitela via, era il tuo ultimo desiderio, ricordi?» Disse l’uomo, accomodandosi in salotto. Si schiarì la voce, per essere notato maggiormente da Evey, ancora persa nel mondo dei sogni. In effetti non tutti i giorni, John Winston Lennon – fondatore e leader del favoloso gruppo Liverpooliano The Beatles – suonava al campanello di casa tua, per una tazza di anonimo Tea, ai frutti di bosco! Evey si stropicciò gli occhi, per essere certa – un’ultima volta – che non c’era nessun John Lennon nel suo maledetto salotto. Evey Jackson aprì gli occhi: era ancora la. Seduto, che frugava fra i suoi effetti personali, attendendo quel maledetto tea.
« Quindi, di grazia, sei qui per quale scopo?» domandò confusa Evey. L’uomo tirò fuori da sotto il divano una scatola colo quoio. « Eccola qui!» esclamò ignorando la sua domanda.
John Lennon stava armeggiando distrattamente ciò che c’era di più prezioso in quella casa monotona e normalmente normale: la scatola dei ricordi di Evey Jackson.
« Hey Master Lennon, non ti sembra di aver dimenticato qualcosa in paradiso?» chiese infastidita la ragazza, fissandolo mentre apriva la Sua scatola color quoio.
« che cosa?» domandò Lennon, senza degnarla nemmeno di uno sguardo. « Mmh non saprei… magari la buona educazione!» Esclamò strappando letteralmente la sua preziosa scatola dalle mani affusolate di John Lennon. « Hey!» protestò l’uomo, « parla quella che mi ha chiuso la porta in faccia!» sbottò, incrociando le braccia. Evey si era seduta difronte al nuovo ospite inaspettato. Voleva osservare che non ficcasse ulteriormente le mani, in quello che sarebbe stato suo per ancora 5 o sei ore.
« Come siamo diventate belle,Evey!» esclamò guardando la donna, e confrontandola con una foto di quando avrà avuto tredici o quattordici anni – ormai era una donna fatta e finita! – aveva due grandi occhi neri, ed i capelli scuri. In effetti John era davvero sicuro di ciò che aveva appena esclamato. Quella donna era magra, bella, snella, seno perfetto, ed il volto – nel complesso – era perfetto anch’esso. Cosa, nella sua vita da giovane ventunenne, l’aveva indotta apensare al suicidio? John decise di chiederglielo.
« Perché vuoi morire?» domandò l’uomo, ma Evey si alzò dal divano frettolosamente: il tea stava fischiando rumorosamente. « Il tea» sussurrò la ragazza, volatilizzandosi verso la cucina. “Parecchio strana!” pensò John tra sé e sé, “davvero strana!”.
Evey stava tremando, se ne era accorta mentre era intenta a versare il tea nelle tazzine dipinte a mano da lei stessa. Non voleva rispondere a quella domanda, non voleva rispondere per paura di autoconvincersi di quato era stupido quel gesto. Non voleva convincersi di tutto ciò, proprio ora che aveva trovato il coraggio per farlo definitivamente.
Evey fece ritorno nel suo salotto, illuminato a malapena dalla grande finestra che dava sulle calli di Venezia, e centro San Marco. Seprava che quell’improbabile John lennon del millenovecento settantasei non le riformulasse quella fastidiosa domanda alla quale era stata sottoposta.
« Il latte, prego!» ordinò John Lennon. Non se lo ricordava così impertinente, Evey. Se lo ricordava come un pioniere, un pazzo furioso ( per essersi unito a quella spece di cosa definita “essere umano”, ma più comunemente chiamata Yoko Ono), un donnaiolo, un perenne sognatore ispirato dal grande Elvis Presley, un ragazzo solare e divertente, a volte un po’ pungente, ma nulla a che vedere con l’impertinenza. Evey fece una smorfia contrariata. « Alzati e prenditelo!» esclamò la ragazza, accomodandosi sul divano.
« Poi sarei io il maleducato» borbottò John Lennon. Evey sorrise, le faceva tenerezza. Doveva ammetterlo. Perché – tolta l’impertinenza – ogni aggettivo che aveva appena usato per descriverlo, era ancora vivo e vegeto dentro di lui. Ogni cosa che aveva detto era veritiera e palpabile, dopo tutti quegli anni, John lennon – appena trentasei anni, nella sua apparizione – era rimasto lo stesso.
«Evey Jackson, questo tea fa cagare! Non scherzo! Ci vorrei del latte, perpiacere!» sorrise sornione, sottolinenando quel “perpiacere” in modo da convincere Evey, che era anche lui un minimo educato. « Lieta di alzare le mie chiappe per servirla, Maser Lennon!» Sorrise Evey a sua volta, imitando un inchino ottocentesco.
« Va molto meglio!» esclamò sorseggiando quella miscela disgustosa che gli inglesi apprezzavano tanto.
«Ma arriviamo al dunque.» Si fece serio, poggiando la tazzina da tea, delicatamente sul tavolo. Evey fece lo stesso.
«Perché vuoi morire?» Il cuore di Evey, perse nuovamente un battito. Lo aveva fatto, le aveva chiesto dinuovo quella fastidiosa domanda.
« perché non voglio vivere in questo pianeta ancora per molto!» Ecco, gli aveva dato una risposta. Chiara, coincisa. Non seviva altro.
«Non è vero, non è per quello che vuoi morire!» esclamò John. E lui che ne sapeva? Come poteva sapere che non era quella la motivazione reale che spingeva una ventunenne ad interrompere il corso degli anni che le spettavano?
« La verità, Evey. Dimmi la verità, perché te lo assicuro, morire è un inferno, e credo che nessuno – meglio di me – lo possa dire!» Aveva capito tutto, quell’uomo. Aveva capito che Evey stava spudoratamente mentendo. E, tanto mai, valeva la pena sfogarsi. Tanto sarebbe morta entro le dieci.
«Non voglio più vivere…» Deglutì a fatica, stava per farlo davvero. « La verità è che sono infelice. E stanca. Stanca della mia vita, ho commesso troppi errori nel mio passato, e non voglio riviverli in futuro. Voglio morire perché è la via più semplice per evitare tutto.» John la guardò trovo. Davvero non voleva più vivere perché “non ne aveva voglia”? Lui, che avrebbe pagato oro per vivere ancora e veder crescere i suoi figli, amare la sua Yoko, scrivere altre canzoni, e – magari – ricongiungersi con gli altri Beatles, si trovava davvero davanti ad una donna adulta e matura, che non voleva più vivere per scaricare i suoi problemi su qualcun altro?
« Tu scherzi! Non puoi voler morire per questioni così futili, Evey!» L’uomo spalancò gli occhi, da dietro la montatura a cerchio. In effetti aveva ragione. Anzi no, aveva torto. Non doveva cambiare idea, doveva pensare solo al suicidio, nient’altro.
« Invece voglio morire, non bramo altro. Ma non sono fatti tuoi, quindi non immischiarti!» Lennon scoppiò in un’amara risata. Il suo compito era farle cambiare idea, nulla di più facile – pensò.
Lennon si alzò dalla sua postazione, e prese la pallida mano di Evey nella sua. Quel contatto indesiderato fu decisamente strano. Era così fredda e morbida, come una pesca! Avrebbe pagato oro, per mettere le sue mani su quel corpo, John avrebbe pagato oro, per sentire una donna fremere sotto la sua pelle, un’ultima volta, prima di ritornare da dov’era venuto. Un brivido attraversò la schiena dell’uomo, che invitò Evey ad alzarsi.
« Adesso faremo una cosa molto in stile Titanic» sussurrò John con voce roca. Evey arrossì, una scossa elettrica attraversò il suo corpo sino a raggiungere il cuore in un atomo di secondo. Aveva percepito anche lei, quel contatto così intimo.
« che cosa significa?» chiese Evey sottovoce, come per non voler spezzare quel collegamento che si era appena crato. John non rispose. Si posizionò dietro Evey, e le cinse i fianchi. Poggiò la sua testa sull’incavo del suo collo e la pregò « stendi le tue braccia, e fidati di me! Viaggieremo attraverso lo spazio ed il tempo.».
Ecco che cosa intendeva con “molto in stile Titanic”. La ragazza ebbe l’impressione che il suo cuore avesse iniziato a battere talmente veloce da non poterlo più sentire. Ed in men che non si dica, si trovava ad Amsterdam, la sua città natale.
John si staccò, e sparì, per ricomarire al suo fianco.
« La vedi quella?» domandò indicando una casetta bianca persa per i prati. Una casetta, ad Evey, inconfondibile. Era casa sua, la casa che aveva abbandonato tre anni prima per venire in Italia.
« perché siamo qui?»  chiese Evey seria. Odiava quel posto, non voleva ricordare la sua infanzia al fianco di sua madre – oggi defunta –, nemmeno voleva ricordarla, sua madre. « Siamo qui per fare la cosa che odi di più al mondo, Evey: Ricordare.»
« Non voglio ricordare, John. Ti prego.» Evey aveva la voce spezzata. « rmai è troppo tardi, da quando abbiamo messo piede in Olanda, non hai più smesso di ricordare un solo attimo della tua infanzia, e che tu lo voglia o meno, ormai il tuo cervello ricorderà. Ogni cosa, soprattutto i momenti felici della tua vita, quelli che non vuoi ricordare per paura che possano farti cambiare idea, sulla morte.» Aveva ragione. Aveva fottutamente ragione, ed ora si trovava li, immersa da i ricordi. Dal primo all’ultimo. Da quando nacque sua sorella minore Mathilde, a quando sua madre morì di cancro ed asma.
[«Evey! Come hai potuto??» Mathilde piangeva e gridava. Evey non riusciva a capire. Teneva stretta la mano fredda come il ghiaccio, della madre, e non capiva. «che cosa?» chiese flebilmente. «L’hai uccisa, Evey! È colpa tua, dannazione, l’hai uccisa!» Evey non capiva. Mamma era morta per cause naturali, il cancro lieve mischiato all’asma erano stati un cocktail mortale per Eveline. Ma di certo Evey non centrava nulla, con tutto questo. « Thil, che stai dicendo?» chiese con un filo di voce. Ma la sorella non rispose. Evey si voltò verso il padre, che la guardava con odio. « Tua sorella ha ragione, Evey. È colpa tua se Eveline è morta.» com’era possibile? Che cosa diavolo stavano insinuando? Che lei aveva fatto venire il cancro a sua madre? « Perché mi state accusando ingiustamente?» Pianse. C’era solo odio negli occhi dei uoi familiari, davvero le persone che l’avevano cresciuta, e che erano cresiute con lei, la credevano la causa della morte della madre?]
 Da quando suo padre le portava nel Luna-park a pochi chilometri da Amsterdam, sino a quando litigò pesatemente con la sua famiglia, e se ne andò via per sempre[ «Papà!» la voce rimbombava lungo la stanza degli specchi. Prima era alta, ora era grazza, a onde e poi tonda cone l’occhio di un pesce. Una risata di una bimba: sua sorella. « sono qui, Evey!» suo padre rispose, ora Evey si sentiva più al sicuro, assieme a loro. Aveva sempre odiato le stanze degli specchi, nei Luna.park, ma ora che sapeva che la sua famigia era li, non aveva più paura.].Evey sentiva bruciare qualcosa, dentro di se. Non capiva se fosse il suo stomaco, o se fosse un’altra cosa, La Malinconia. Probabilmente fu quest’ultima.
« Avevi ragione, non vale la pena morire per questo. Ma lo sai che mi ucciderò lo stesso.» disse, fredda, Evey. Non ce l’aveva ancora fatta a convincerla, John non era riuscito a distoglierla da quell’obbiettivo folle.
«Ho capito.» disse l’uomo tristemente. Detto questo compì lo stesso gesto “alla Titanic”, compiuto in precedenza. Evey chiuse gli occhi a quel contatto così psichedelico, poteva sentire l’odore di sigaro, incenso e petali di rosa selvatica, che emanava John Lennon. Era una sesnazione a dir poco inebriante. Quanto le sarebbe piaciuto accarezzare quelle labbra sottili, sfiorare queli capelli disordinati e scompigliati, stingere quel corpo esile e mingherlino, consumato dal troppo amore. Evey distolse quel pensiero, ora si trovavano da un’altra parte. Sembrava… Londra.
« Hai mai visto “A Nightmare Before Christmas”?» domandò John. Evey annuì delicatamente. « Io sono il fantasma del tuo passato, ed il fantasma del tuo futuro; guarda come soffrono le persone, senza Evey Jackson al loro fianco!» Si trovavano in un cimitero. Quello era certo. La bara stava per essere calata nell’apposito foro.
C’erano anche suo padre, e sua sorella. Erano venuti. Erano venuti a vedere il funerale della loro figlia e parente. Suo padre si era trasferito a Londra, Tre anni fa, con la partenza inattesa della figlia. Ora si spiegava perché quel posto le ricordasse Londra.
« Abbiamo sempre sperato che tornassi, un giorno. Sia io che Mathilde. Non avremmo mai voluto che te ne andassi, non avremmo mai voluto rovinarti la vita. Non avremmo voluto, Evey. Credimi!» sussurrava suo padre alla terra fresca, ai fiori ed alla lapide.
« Evey?» sentì una voce: sua sorella. Evey si voltò verso John. « Tranquilla, non possono vederci!» la tranquillizzò. Evey tornò a fissare sua sorella – di due anni e nove mesi più piccola – che piangeva.
« Non volevamo incolparti della morte di mamma! Nonvolevo incolparti! È troppo tardi, vero?» piangeva. Piangeva e si disperava. Davvero sarebbero stati tutti disposti a perdonarla, e vice versa? Davvero quello era il suo futuro, i familiari che l’avevano ripudiata, si sarebber… pentiti? Ma era solo Amarezza, o era un setimento vero e proprio?
« ciò che hanno detto veniva dal cuore, Evey. Io lo so, li posso sentire.» disse John, ma era troppo tardi, Evey stava già piangendo da un pezzo. Non voleva rinuciarre alla sua vita, se poi sarebbe finita così. Significava che avrebbe trovato una soluzione per riappacificarsi con la sua famiglia. A cosa sarebbe servito riappacificarsi dopo la morte? E soprattutto, che cosa avrebbe trovato, dopo la morte? Magari il nulla. Magari il freddo vuoto che aveva tentato di evitare sin dal principio.
« John» Evey richiamò la sua attenzione. John la guardava, attendendo una risposta.
« voglio vivere ancora» ammise sottovoce. Che razza di fottuto genio, era! Ci era riuscito! Era riuscito a farle cambiare idea! Era un fottutissimo genio! Non c’era che dire. Sorrise compiaciuto, e tornarono a Venezia in men che non si dica.
« ce l’ahi fatta John, voglio vivere ancora!» ripetè sorridendo. Evey era maledettamente felice, il solo pensiero che quell’inferno sarebbe potuto finire in un istante – se solo si fosse fatta coraggio ad andare a trovare la sua famiglia – l’aveva rallegrata talmente tanto da indurla ad aprire la finestra che si affacciava sulla grande piazza ed urlare al mondo che aveva voglia di vivere.
« VOGLIO VIVERE! VOGLIO VIVERE! VOGLIO VIVERE!» urlò, ballava e cantava per tutta la stanza, e John si aggiunse a lei.
« Tu vuoi vivere Evey!» esclamò John. « Io voglio vivere, John!» sorrise Evey. Aveva ritrovato qualcosa scomparso da anno ormai: la pace interiore.
Stava ballando allegramente, mentre John cantava a gran voce “Give Peace a Chance”, suonando una chitarra apparsa dal nulla. Evey ballava felicemente. Quell’uomo era stato in grado di cambiarle la vita in due ore. Erano le sette, avrebbe dovuto dare inizio al suo suicidio. Invece prese i barbiturici e medicinali vari, e li buttò nel caminetto; che accese in un istante.
« Vivi tutti i tuoi fottuti giorni come se fossero gli ultimi, Evey Jackson, perché non sai mai quando potrebbe arrivare, la morte!» esclamò John Lennon. John stava vivendo le sue ultime ore sulla terra, prima di fare ritorno, a mezza notte, nel cielo dove viveva. Quell’altro cielo, quello con le nuvole fatte di zucchero a velo, ed infniti campi di fragole. Tuttavia non voleva andarsene. Voleva restare con quella ragazza che aveva appena salvato dall’oblio. Almeno per una settimana, o due. Magari un mese. Magari sempre; ma sapeva che non era possibile.
« Io ho finito, allora. Il mio compito è terminato, posso andarmene!» Evey sentì John parlare. Non voleva che se ne andasse. La felicità e la luce che si erano riaccese nel suo animo si spensero all’unisono.
« Non puoi andartene. Non ho ancora cominciato a Vivere!» disse tristemente Evey.
Allora John fece sparire misteriosamente la chitarra e le si avvicinò. « posso restare sino a mezzanotte, ma non di più Evey.» disse seriamente l’uomo. Già, seriamente. Era così freddo e serio, rispetto a i primi passi mossi con i Beatles. Oppure era freddo perché Evey gli aveva passato la sua ex malinconia? Non lo sapeva; sapeva invece che avrebbe fatto davvero di tutto, per ristabilire quel contatto fisico creatosi prima.
« John?» lo chiamò Evey. « sì?» « qual è il tuo ultimo desiderio?» John tacque. Sapeva benissimo che cosa desiderava, prima di tornarsene nel cielo con i diamanti7. Voleva rivedere Paul, e dirgli che lo amava, ma ancora meglio desiderava e bramava quel contatto fisico che da Settantadue anni non provava: il sesso.
Come dirlo ad Evey senza offenderla? Ecco il punto. Dannazione, John non voleva! E Dannazione, Evey era maledettamente attraente.
Come in risposta alle sue preghiere, Evey si avvicinò a John. Avrebbe fatto ciò che più desiderava al mondo: baciare John Winson Lennon. Finalmente quel contatto, tanto desiderato, avvenne. Le due lingue si fusero assieme, assaporando ogni singolo angolo della bocca di ciascuno dei due “amanti”, se così li si poteva definire. Eppure c’era qualcosa che bloccava John dal proseguire, dal mettere le sue mani su quel corpo, dal toccare un essere vivo e vegeto per l’ultima volta sulla terra. Yoko. Maledizione, pensava ancora a quella donna che lo aveva ridotto ad uno straccio, quella donna che, tuttavia, aveva amato maledettamente.
“ Andiamo John, hai tradito Chyntia migliaia di volte, quando ci eri sposato assieme, e sai che lo hai fatto anche con Yoko. Perché non riesci con lei, bastardo fifone che non sei altro!” pensò e rimproverò se stesso. Se stesso aveva ragione. Erano le sue ultme ore sulla terra, almeno le avrebbe passate facendo l’amore.
Evey si era staccata lentamente da quel bacio decisamente rubato. « Scusa..» chiese imbarazzata, fissando il pavimento. “Ecco la tua occasione, John!” si disse tra sé e sé.
Lennon si avvicinò al volto della ragazza e le fecie azare lo sguardo verso i suoi occhi. « non devi scusarti ddi nulla!» disse, riaffondando le labbra dentro la sua bocca. Era solo un innocente bacio appassionato. Nulla di cui valesse la pena preoccuparsi.
 

~*~

 
John era disetso sul letto. Mezz’ora a mezzanotte. Mezzora alla fine del suo “trip” sulla terra. Mezz’ora e sarebbbe tornato alla sua adorata Pepperland, o al suo campo di fragole infinito, o immezzo al cielo, tra i diamanti. Mezzora e non avrebbe mai più rivisto Evey.
« John?» lo chiamò Evey. « dimmi?» rispose John. Non aveva fretta di rispondere, nonostante avrebbe dovuto avrne anche troppa, di fretta. « Hai mai rivisto tua madre, lassù?» domandò Evey malinconica.
« Oh sì, Julia era lì ad attendermi, quando sono arrivato.» disse sorridendo, al pensiero di sua madre, la sua splendida madre.
« Pensi che rivedrò anche io mia madre, quando sarò lassù?» domandò Evey. L’orologio tuonò. Dodici rintocchi, la mezzanotte era arrivata. Era ora di dirsi addio.
« Sarà li ad attendermi, come la mia!» Disse John, mentre il suo corpo iniziava a svanire lentamente, riducendosi in particelle di magia e mistero.
« John, stai sparendo!» Esclamò Evey preoccupata, « non ti preoccupare Evey Jackson, è arrivata l’ora di tornare a Pepperland.» disse con amarezza. Le sue gambe erano sparite del tutto. « John, non puoi sparire così!» una lacrima solcò il viso della giovane. Proprio ora che aveva visto colui che aveva tanto bramato. Proprio ora che la voglia di vivere era tornata in lei, proprio ora! John stava svanendo, come il ricordo di un sogno, la mattina. O come la nebbia col sole, Il tramonto con l’orizzonte. Se ne stava andando, e non sarebbe tornato.
« Veglierò su di te, Evey Jackson, ci rivedremo a Paradise City» disse sorridendo. Stava indicando il cielo, con lo sguardo di chi ha sognato troppo, nella sua vita. Ora sarebbe sparito, ed Evey sarebbe tornata sola.
Dinuovo.

~*~

2 anni e sei mesi dopo. Londra.
 
Evey si trovava davanti alla casa. Casa Jackson. La casa della sua famiglia. Forse non sarebbe dovuta andare a Londra, forse era meglio tornarsene al sicuro, tra le calli di Venezia.
Che cosa stava facendo? Voleva davvero suonare al campanello?
Al diavolo. Magari non c’era nessuno a casa. Magari avrebbero aperto la porta, suo padre con una nuova moglie ed altri tre figli. Magari avevano creato una nuova famiglia, senza di lei.
Evey se ne era andata. Allora John non le aveva insegnato niente. Davvero era ancora così ottusa?
Scosse la testa sorridendo. Quanto era stupida! Si girò e corse verso la casa, suonò il campanello almeno dieci volte. La vita era una sola, tanto valeva viverla realmente.
[ Evey Jackson trovò suo padre e sua sorella, ad aprirle il cancello. Passarono la giornata a spegarsi, e specificarsi, riappacificandosi. La sera andarono al Luna Park li, nei dinotrni, ed Evey entrò nella stanza degli specchi senza alcun pudore. Se adesso può vivere, godersi ogni attimo, ogni minuto, ogni secondo, ogni singolo soffio della sua vita, è solo per merito di John Lennon.
Grazie di cuore John, mi hai ridonato la vita.
Evey Jackson.]
 
 
1Psicomachia:La Psicomachia (in latinoPsychomachia dal grecoψυχή anima e μαχή lotta) del poeta tardo-latino Prudenzioprobabilmente è la prima e più influente allegoriamedievale, la prima in una lunga tradizione di lavori molto diversi tra loro come il Roman de la Rose, Everymeno Piers Plowman.
In poco meno di mille versi, il poema descrive il conflitto tra vizi e virtù come in una battaglia dell'Eneidevirgiliana.
La fede cristiana è attaccata dall'idolatriapagana che viene sconfitta, la lussuria invece viene uccisa da un colpo di spada dalla castità. L'iraattacca la pazienza ma si autodistrugge. Similmente le altre virtù sconfiggono i corrispondenti mali.
(Cit. Wikipedia)
 
2 Viaggio Astrale:il viaggio astrale o esperienza extracorporea, nota anche con gli acronimiO.B.E tratta di un viaggio in cui l'anima si scinde dal corpo, e viaggia attraverso una fantomatica dimensione parallela.


Evey Jackson interpretata da Keira Kinghtley.

John Lennon.

 



Flower In The Sun 

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