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Autore: The_Silent_Wave    29/04/2013    2 recensioni
Blaine cammina per il corridoio due giorni dopo la sparatoria e ripensa alla stessa, ai suoi rapporti più importanti in particolare a quello con Kurt.
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Gli confessò anche che se avevano fatto l’amore al matrimonio, se si era lasciato convincere a cedere alle esigenze più primordiali del corpo, non era per divertimento o svago o per qualcosa che faceva impregnare ogni suo singolo muscolo di un ché di estatico, di bello, di stupefacente perchè non si trattava solo di mero piacere, di caduca bellezza o di effervescente stupefacenza, era invece un qualcosa di disperato, di angosciante e tacito, del bisogno insopprimibile di sentire ogni cosa vicino a lui avvicinarsi vorticosamente per farsi unica e irripetibile, di percepire Blaine come un tempo, di percepirsi felice, esiliando tutti gli errori, tutto il rancore e la rabbia in un luogo di cui ignoravano l’esistenza in questi istanti, poiché troppo intenti a ricreare delle sensazioni che una volta - pareva così lontano ora quel ricordo- costellavano le loro giornate ricche di piccoli gesti d’amore. 

Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Tina Cohen-Chang | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU, Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi con una nuova OS, molto Blaine center e da metà in poi parecchio Klainer.
Per i lettori di LITD la sto finendo: sto scrivendo l’epilogo, non odiatemi troppo xD
Ritornando a questa, è scritta in stile flusso di coscienza: Blaine cammina per il corridoio due giorni dopo la sparatoria e ripensa a determinati momenti, quelli più salienti.
Dal punto di vista temporale vi sono 5 momenti principali-e altri minori che si mischiano-: le due notti, la sparatoria, la successiva telefonata di Kurt (missing moments) e il presente, ovvero la camminata per il corridoio.
Il tono è volutamente iperbolico.
Non volevo spoileravi la ff, ma volevo solo darvi delle piccole indicazioni per la lettura visto che durante il flusso il piano temporale si muove rapidamente e a volte non si capisce con chiarezza lo spazio e tempo, lo dico per esperienza xD
Ora vi lascio; ci si rivede giù, buona lettura! :’)
 
 
 
 

“Noises”
(Rumori)
 

Erano passati due giorni dalla sparatoria.

Eppure ancora tutta la scuola era pervasa da un alone di panico, che aleggiava tetro in ogni angolo.
Oramai il peggio era passato, ciononostante quell’alone non voleva scomparire, anzi lo vedevi in ogni dove: tra gli occhi rabbuiati del ragazzo che spingeva nervoso i libri nell’armadietto, tra le gambe nude e tremolanti delle Cheerios che passeggiavano -sembravano quasi meno spavalde e invincibili-, lo vedevi anche tra i giocatori di football, che non schernivano più il ragazzo gracilino alla fine del corridoio, ma stavano in silenzio, l’uno isolato nel proprio micro-cosmo. 

E Blaine notò l’alone, notò tutto il terrore ancora presente e palpabile nell’aria.
Camminava sicuro procedendo verso il suo armadietto con la sua tracolla in cuoio, la sua divisa da Cheerio, mentre l’aria attorno a lui sembrò rarefarsi e il mondo nella sua interezza farsi più fragile, di una consistenza vitrea, il quale sarebbe potuto esser scalfito da qualsiasi rumore –anche solo la mosca che stava ronzando tozza.

Ah, i rumori: erano la conseguenza più terribile e tangibile della sparatoria.
Ora il ragazzo con gli occhi rabbuiati non sbatteva più l’armadietto con forza, ma lo accompagnava; le Cheerios adagiavano piano nel loro incedere e sussurravano al posto di starnazzare come oche nevrotiche; i giocatori di football stavano zitti, con lo sguardo rivolto verso il basso, muovendosi nel corridoio come automi. 

Chissà perché lo fanno, perché hanno così tanta cura a non far rumori troppo forti –si interrogò, mentre passava davanti all’aula di spagnolo- perché hanno cura di questo mondo vitreo, un mondo che prima hanno sempre detestato, osteggiato, maltrattato, perché ora lo tutelano con così tanta accortezza? 

E un tratto fu come se quei loro gesti, quei comportamenti inconsci si caricassero in un qualcosa di simbolico agli occhi di Blaine, facendo piombare su di loro, che li avevano compiuti, tutta la paura, tutta la fragilità e tutta la falsità umana, le quali avevano consegnato loro un rispetto quasi sacro verso il mondo, un rispetto che solo ora avrebbero potuto custodire, poiché consci di quanto in realtà tutto fosse evanescente, impalpabile, di come ogni cosa su questa terra, ogni loro potere o inettitudine, ogni loro vittoria o sconfitta, ogni loro pianto o gioia, fosse precaria. 

Sarà per questo, si rispose mentre girò perplesso dalla fontanella da quale stava bevendo una ragazza.
E improvvisamente un colpo. 

Blaine sussultò da capo a piedi e i volti di chi era riuscito a sentirlo si tinsero di scuro.
 Avrebbero voluto quasi ritornare a piangere, a nascondersi sotto le sedie, benché quel colpo fosse solamente un pesante dizionario inglese caduto dallo zaino rimasto aperto della ragazza che beveva alla fontanella.
Forse neanche tutto quel rispetto, quella religiosa devozione verso il silenzio, verso la vita, erano riusciti a salvare il mondo dalle crepe dalle quali ora sgorgava ininterrottamente purpureo sangue.
Ogni rumore, dopo quei due colpi di pistola, -addirittura il cadere di un vocabolario- sembrava essere il loro riecheggiare per chiunque, persino per Blaine.
Difatti la notte dopo la sparatoria non era riuscito a dormire, svegliato prima dai pesanti passi della madre in bagno, poi dal brusco frenare di una macchina all’incrocio della strada e poi ancora dal bussare imprevisto di sua madre e suo padre alla porta; volevano solo parlare con lui.
Trascorsero la notte così: insieme ad abbracciarsi, a piangere, a rivelarsi verità.
È strano, si ripeté mentre scorgeva il suo armadietto- da lì a poco sarebbe giunto a destinazione- che ci siano solo determinati momenti per dirsi “ti voglio bene”, “non mi importa se sei gay, etero o gel-dipendente”, “sono così fiero di te ”, “sei il miglior figlio che si possa desiderare” o “mi dispiace se non ti sei sentito accettato, credevo di farlo per il tuo bene, ma mi sbagliavo di gran lunga”, “spero che il nostro rapporto possa aggiustarsi”.
Perché non si possono dire in un giorno qualunque? C’è forse qualche divieto o regola occulta che non si può infrangere della quale lui non era a conoscenza? C’è forse qualche obbligo di non poter picconare il banale corso della noiosa routine e da esso far zampillare la verità più cruda e prorompente, quella dei nostri sentimenti? 

Perché ci si riduce sempre a dire ciò che si prova quando non si può fare altrimenti, quando si è messi alle strette, quando ci si ricorda dell’esistenza della fine di tutto? Perché rimandare col rischio di non poterlo più pronunciare? 

Suo padre non gli poteva confessare tutte quelle cose un giorno qualsiasi? Tipo lunedì pomeriggio mentre studiava per l’esame di trigonometria -non la capiva mai- o martedì sera mentre guardava “Say yes to the dress?” o quando pianse senza motivo perché si sentiva solo? 

Avrebbe di sicuro smesso di studiare, di guardare il suo programma preferito, di piangere per ascoltare quelle parole tanto attese, tanto agognate e sperate nei suoi più profondi desideri.
Quelle domande lo tormentavano anche ora, cercandone risposta ovunque: nella combinazione per aprire l’armadietto-finalmente era arrivato- nei libri che vi avrebbe riposto, negli sguardi mesti e ancora allarmati degli alunni -i pochi che erano venuti a scuola- sparsi a macchie nel corridoio.
A volte si è timidi e anche un po’ pigri per avvicinarsi e dire quelle cose. E a volte si è troppo presi dalla vita stessa da dimenticarne il significato. 

Perché Blaine sarebbe potuto morire senza sapere che suo padre gli voleva bene-o meglio senza sentirselo dire, senza averne la certezza -senza sapere che la sua omosessualità non era rilevante ai fini dell’affetto, poiché proprio l’affetto, l’amore supera e trapana ogni ostacolo se autentico, senza sapere se sia sua madre che suo padre erano fieri di lui, senza sapere se Kurt lo amasse ancora come un tempo anche dopo che l’aveva tradito.
Di questo però non aveva certezza, ancora. 

Non si era chiesto in quegli agghiaccianti istanti al buio, mentre pochi sprazzi di luce filtravano pavidi da qualche finestra rimasta aperta, raggomitolato accanto al pianoforte, se suo padre gli volesse bene, se fosse fiero di lui, se Kurt lo amasse ancora e se si volesse rimettere- un giorno- con lui, aveva solo desiderato –per la prima volta- di non essere in quella stanza con i suoi amici, con quelle persone che in quell’anno –anche senza Kurt- erano diventate la sua famiglia. 
E sempre accostato al pianoforte, mentre le lacrime gli rigavano il volto, le mani intrecciate tra di loro intorno alla testa, la vita gli sembrò essere un’ombra che scompare e riappare, che si estende diventando bella e imponente, ma che già nel secondo successivo si deforma e si spezza tramutandosi nella sagoma vacillante di un spaventoso fantasma. E fu proprio quell’ombra, quello spettro atterrandolo, che lo costrinse guardare in faccia cruentamente tutti i suoi sbagli (il tradimento, quello più grande), i suoi rimorsi (non dire a Kurt che si sentiva solo), la sue paure (deludere suo padre, non tornare con Kurt), i suoi sogni (andare a Broadway, sposare Kurt) in maniera del tutto confusa, facendoli mischiare tra di loro, rendendo in questo modo indistinguibili le cose positive da quelle negative.
Tutto era indistinguibile, confuso: non capiva se il singhiozzo di Marley, il pianto di Kitty, il tremolio di Unique si fossero placati o se si erano semplicemente andati a sovrapporre al metronomo, che sottometteva tirannico ogni tremolio, ogni singhiozzo, ogni pianto, ogni respiro a esso.
Era appunto il metronomo a scandire con una cadenza pressoché mortale quei minuti di orrore. Sembrava l’unico a giostrare alla perfezione la situazione e, proprio come un direttore d’orchestra che dirige sapientemente l’accatto del violino, il virtuosismo del flauto traverso o l’assolo della tromba, quel maledetto strumento coordinava ogni singolo rumore, la sua durata, il suo intervento, le sue pause, persino quello dei passi fuori la porta, delle urla degli studenti, di un cellulare che squillava all’interno della stanza -chissà di chi era-, delle sirene che giubilavano all’impazzata per le strade bloccate dalla polizia; eppure tutti questi suoni per quanto sconnessi e distinti alle orecchie di Blaine sforzatesi risuonavano quasi armonizzati –ma non del tutto con qualche stonatura- come uno spezzato allo stesso tempo unico suono: un richiamo funereo.
E mentre ora un raggio di sole lo trafiggeva intanto che catalogava i libri da portare a lezione di storia davanti al suo armadietto, quella luce così pura e candida nel suo splendore, che strideva con l’animo disincantato e cinico degli studenti, schiarì e riportò a galla dal pozzo oscuro dei suoi ricordi un altro tipo di luce innaturale, però salvifica, il segnale che la morte era stata ripudiata con violenza da quella stanza, che erano salvi. Quando Shuester accese finalmente le luci della choir room, dopo che le urla della squadra SWAT avvertivano che il pericolo era stato scampato, qualcos’altro si accese nella sua testa: erano i pensieri che, messi in pausa in posto remoto dentro di lui di cui non avvertiva l’esatta posizione, si riattivarono guizzanti sbucando a pelo d’acqua in maniera del tutto inspiegabile e incontrollabile. 

Se durante quegli attimi di terrore invece il suo cervello aveva smesso di formularli in maniera sensata e ordinata-solo caos dentro e fuori la sua testa-, dopo quando l’accatastamento di quella moltitudine di congetture mentali si era ordinato definitivamente in una fatale gerarchia, stabilita dopo lotte estenuanti e battaglia infinite, avendo privilegiato quelli insoluti che vagavano errabondi, ora guizzati dall’acqua l’avrebbero perseguitato giorno e notte fintantoché non avrebbe ottenuto una risposta soddisfacente.
Forse perché scampato alla morte non voleva avere davanti a sé più questioni insolute, rimpianti o rimorsi o forse perché quelle riflessioni represse dalla paura ora potevano peregrinare nuovamente libere e indisturbate per importunarlo anche di notte, quando c’è sempre troppo silenzio - il vento smette di spirare sugli alberi, non più piegati e gobbi su stessi, ma ritti e fieri dei propri rami robusti e delle proprie foglie argentee - e non c’è niente, neanche un metronomo che col suo ticchettio coordina i rumori, i quali, durante le tenebre, squarciano di colpo l’immobilità del silenzio senza avvertire.
Nessun rumore quella notte lo distolse dal dormire né i passi di sua madre, né il frenare brusco di una macchina, né i suoi genitori, tuttavia non era riuscito lo stesso a farsi cullare tra le braccia di Morfeo.
Si girò varie volte a letto tra il pregiato cotone egiziano che gli avvolgeva il corpo senza però trovare pace, senza trovare soluzioni ai suoi dilemmi emotivi, celebrali.
E nel mentre che si dimenava tra le coperte non poteva non aprire gli occhi senza vedere Kurt, vicino alla finestra, che lo fissava serio e amareggiato con occhi lucidi e gli confermava con un filo di voce rancorosa le sue teorie più catastrofiche e apocalittiche: che non voleva stare più con lui, che lo aveva ferito talmente in profondità da lasciare una ferita lacerante, la quale non si sarebbe più rimarginata e che anzi aveva fatto andare in cancrena tutto lo spazio limitrofo del suo cuore, quello che un tempo era destinato a lui, solo a lui. Scacciando via questo Kurt scuro e ferito dal suo campo visivo, si voltò dall’altro lato: verso la televisione accostata al muro, verso la libreria disordinata coi libri che facevano capolino e gli appunti che uscivano prepotenti dai quaderni, verso la scrivania col pc che lampeggiava per la batteria carica -l’unica fonte luminosa della stanza-, e vide un altro Kurt, un Kurt che lo osservava amorevole come la prima volta che lo aveva visto fermo sulla scalinata della Dalton, come la prima volta che lo aveva sentito cantare “Teenage Dream”, come la prima volta che lo baciò, come la prima volta che fecero l’amore proprio in quella stanza, proprio su quel letto, su cui ora lui, Blaine, si vessava così duramente.
E quel Kurt gli sussurrò dolcemente come una melodia antica mista ad una notturna serenata estiva che tutto sarebbe andato per il verso giusto, che lo amava ancora, che sarebbero tornati insieme, che quella ferita causatogli si stava rimarginando a poco a poco, lentamente con i punti che lui, il suo Blainey, suturava di giorno in giorno, con le sue chiamate serali per sapere semplicemente come stava o per farlo sfogare -sapeva bene che Kurt ne aveva bisogno-, con i suoi messaggi sui fun facts di Brodway che lo facevano sempre divertire, con suoi baci, col loro fare l'amore.
Gli confessò anche che se avevano fatto l’amore al matrimonio, se si era lasciato convincere a cedere alle esigenze più primordiali del corpo, non era per divertimento o svago o per qualcosa che faceva impregnare ogni suo singolo muscolo di un ché di estatico, di bello, di stupefacente perchè non si trattava solo di mero piacere, di caduca bellezza o di effervescente stupefacenza, era invece un qualcosa di disperato, di angosciante e tacito, del bisogno insopprimibile di sentire ogni cosa vicino a lui avvicinarsi vorticosamente per farsi unica e irripetibile, di percepire Blaine come un tempo, di percepirsi felice, esiliando tutti gli errori, tutto il rancore e la rabbia in un luogo di cui ignoravano l’esistenza in questi istanti, poiché troppo intenti a ricreare delle sensazioni che una volta - pareva così lontano ora quel ricordo- costellavano le loro giornate ricche di piccoli gesti d’amore. 

Questo teso dualismo, quest’ambivalenza oppressa, insinuatesi all’interno del suo cervello tendevano a tal punto la sua psiche da lacerarla, perché non aveva la certezza matematica –perché in amore o nei sentimenti si ha mai?- né dell’amore incondizionato di Kurt, del suo comprensivo perdono, né dall’altro canto della voglia di ricostruirsi una vita senza il suo Blainey, di lasciarlo andare, di tagliare di netto quel filo rosso, quella connessione ineffabile, che un li aveva sempre uniti, anche ora e per sempre secondo Blaine.
D’altronde glielo aveva rivelato all’orecchio che per lui il fatto di essersi ritrovato a Natale, a San Valentino significasse qualcosa di importante, che fosse un segno del destino, per quanto Kurt minimizzasse. 

Ah, rideva tra il beffardo e il sarcastico sotto le coperte, quanto è sciocco l’essere umano: cerca di conferire ad ogni minima facezia, ad ogni banale caso, a ogni semplice coincidenza un senso assoluto, un significato fatalistico, tenta di innestare tutti questi semplici accadimenti all’interno di un piano perfetto e già scritto in partenza per ognuno.
Perché ci troviamo là in quel preciso istante piuttosto che lì? Ci sarà forse qualche spiegazione sovrannaturale o determinista celata dietro al velo di ogni singola e meccanica azione, di ogni causale incontro? O forse è tutto privo di un senso? 

Perché bruciamo così tante energie per crearlo, per spiegarlo, per trovarlo? Quando il mondo può sopravvivere anche senza, andando avanti anche senza di noi, senza quel senso. 

Per lo stesso motivo per cui ci poniamo sempre domande a cui siamo pienamente cosci non ci sarà una risposta.
Il lenzuolo sollevato fino alle orecchie aveva fatto calare l’oscurità su quelle interrogazioni.
A quel senso adesso sembrava non credere più, perché Kurt non l’amava ancora, non si fidava più di lui, glielo aveva urlato nel corridoio proprio nel punto dove adesso si stava dirigendo, mentre Tina-la vide con la coda dell’occhio- si appropinquava a lui da dietro.
Ed eccola che quella maledetta ambivalenza riemerge nuovamente soppiantandolo tutto il resto, che quei due Kurt duellano duramente l’uno malevole alla sua destra vicino alle aule, l’altro benevolo alla sua sinistra accostato agli armadietti e in questa contesa sembra prevalere quello malevolo, quello rancoroso e rabbioso, quello che non vuole più sapere niente di lui.
Così quel mondo di vetro, quel senso assoluto, quel significato fatalistico, quel piano perfetto si sgretolano in mille zolle, tutte aride e sterili, dove non potrà più nascere nessuna forma di vita, nessuna forma d’amore.
Ma dopo questo acre contraccolpo rivissuto, quelle speranze svanite, nella mente di Blaine riaffiorò invece senza una ragione apparente l’altra faccia dell’ambivalenza, quella positiva e le relative speranze stavano tornando a rifiorire rigogliose, di modo che a quel senso sembrò credere di nuovo, proprio a causa del fatto che anche il Kurt benevolo ora gli pareva –anzi era sicuro- vincesse, perché d’altro canto gli aveva anche confidato al telefono prima delle Provinciali che accettava e credeva all’autenticità delle sue scuse, che stava provando a perdonarlo, che non poteva stare senza parlare al suo migliore amico, visto che, nonostante fosse arrabbiato, lo era tutto ancora, che lo amava anche lui.
Dunque brillava scintillante quel lato della medaglia, subentrato con prepotenza al lato negativo, eppure nel finale dopo un’estenuante lite nella sua testa nessuna aveva prevalso sull’altra: si erano entrambe annullate lasciando come traccia di quelle zolle la sola polvere, che sarebbe stata spazzata via dal vento impetuoso e incessante, disperdendola, così da non farne rimanere più nessuna testimonia.
Così in quel vuoto, in quella libera distesa, adesso si era creato lo spazio per ricostruire qualcosa di nuovo, qualcosa di ancora più forte e stabile di prima, qualcosa che sarebbe potuto in “eterno” come le piramide egizie baciate dalla sabbia del deserto, come le solenni cattedrali gotiche illuminate nei vetri di mille colori, qualcosa che similmente a loro perduri inalterato nella propria maestosità, memento della battaglia quasi vinta contro il tempo, qualcosa che all’interno di esso rimanga cristallizzato nella propria essenza.
E mentre Tina l’aveva raggiunto, facendogli le solite domande: se stesse bene -annuì-, se avesse dormito almeno questa notte –la risposta era negativa- se avesse studiato storia o trigonometria –annuì di nuovo-, quello spazio vuoto e edificabile risplendeva ai suoi occhi e si ingigantiva, là dove le sue fantasie e le sue aspettative, avendolo riscattatolo come proprio, stavano ponendo le fondamenta mattoncino dopo mattoncino, un plinto dopo l’altro del suo futuro rapporto con Kurt.
Ora tutto sembrava essere…sereno, quieto.
Gli diede l’impressione che quel tutto si stesse aggiustando di grado in grado, perché Kurt lo amava in qualche forma, e non gli interessava nemmeno sapere con precisione quale.
A conferma di questa sua intuizione c’era quella telefonata, la telefonata che aveva ricevuto subito dopo che era tornato a casa dopo quell’orrore, trascorso a scuola.

Era disteso sul letto, intento a guardare, oziando bellamente, il soffitto, dove un piccolo ragno stava tessendo con esperienza la sua tela, quando improvvisamente il cellulare accanto a lui, vicino al cuscino squillò.
Lo prese con mano tremolante, con calma, e vide impresso il nome del mittente: Kurt. Rispondendo, udì solo un lentissimo “Hey…” a cui lui ribatté con un diretto e veloce “Kurt” in maniera dolce, tenera, disperata.
E ci fu silenzio.
La conversazione non prendeva piede: nessuno aveva voglia di acquisirne il comando, di rompere il ghiaccio.
Così Kurt –era sempre lui il più forte, quello che afferrava il toro per le corna, quello che riusciva a superare ogni dolore- gli chiese qualcosa di balbettato e biascicato, di indecifrabile a primo acchito, ma che dopo il cervello di Blaine, ricostruendo e disponendo in ordine ogni singola lettera in modo da comporre una frase di senso compiuto, lo intuì come un “S-s-stai b-be-ene?”
E si limitò a fare un verso di affermazione a cui dopo non immediatamente -ci fu una pausa in quell’istante- seguì un flebile e impercettibile “Sì”.
Poi silenzio, di nuovo.
Solo i loro respiri, i loro rantoli, accavallati l’un l’altro.
Blaine avvertì tutti quei rantoli dolorosi, quei respiri affannosi accavallarsi, ma percepì anche distintamente dal resto un singulto, lampante spia che Kurt stava piangendo.
E come un effetto domino al quale lui non poteva neanche osare sottrarsi cominciò a piangere anche lui, provando –invano- però a non farsi sentire da Kurt, per questo coprì il microfono con la mano sinistra che tremava. 

“Non avrei potuto immaginare la mia vita senza di te. Non avrei potuto dirti addio, perché ho fatto una promessa.” 

Fu Kurt di nuovo che si sobbarcò con quella frase l’immane peso di sostituire il silenzio, che squarciò di netto ogni pausa, ogni esitazione, ogni lacrima, la quale proprio quest’ultima tentava di asciugarsi malamente con la mano rimasta libera. 

Frugò nelle probabili risposte con le quali avrebbe potuto ribattere, eppure l’unica riposta che si prefigurò definita nella testa di Blaine, che fu in grado di formulare, fu un sentito e malinconico “Ti amo Kurt.”

Non ci fu dall’altro lato una risposta immediata, perché un prepotente singhiozzo aveva preso il sopravvento su di lui. 

Tuttavia scacciato quel singhiozzo, inghiottitolo come la più amara medicina replicò con un secco –non ci aveva neanche pensato più di tanto- ma non meccanico, “Ti amo anche io.”

Ecco che ne aveva la certezza, ovvero che Kurt lo amava, che glielo aveva dichiarato una seconda volta. Ci sarebbe stata una terza?


Appunto l’unica cosa di cui si doveva preoccupare adesso non erano i suoi sciocchi e smielati quesiti, ma farglielo dire una terza volta, era ricostruire il suo rapporto con Kurt in maniera più salda, cosicché quest’ultimo volesse ritornare con lui, cosicché lo amasse nel modo in cui Blaine avrebbe voluto, perché lui non voleva essere solamente il suo miglior amico, ma l’amore della sua vita. 

Sì, si sentì caricarsi di una potenza e di una positività, che non poteva essere di questa terra; ogni muscolo gli sembrò farsi d’acciaio e ogni senso acuirsi: vedeva ogni singolo movimento all’interno della classe in maniera vivida e definita, sentiva ogni spostamento d’aria come un uragano.
Con quei sensi evolutisi avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa, qualsiasi ostacolo o persona, che intralciasse i suoi obbiettivi, anzi il suo unico obbiettivo: Kurt.
E mentre nell’aula di storia tutti i suoi compagni di corso si sistemarono silenziosamente nei banchi, ponendo i loro strumenti di studio con cura, lui non colse un silenzio o dei rumori ovattati, non intese più simboli, devozioni religiose, significati complessi, sensi monopolizzanti o ancora ambivalenza corrosive o elucubrazioni assillanti, perché ora tutta quella miriade ingarbugliata disfacendosi si era eclissata e aveva lasciato spazio a ciò che provava per Kurt, a ciò che aveva sempre provato e che avrebbe sempre provato, qualcosa che ora fluttuava gaio e danzante nell’aere del suo mondo, che se prima era vitreo e pervaso da un’aria rarefatta, adesso in quell’aula si era fatto d’oro e conteneva al suo interno un’aria fresca e rigenerativa, festosa.
Lui avrebbe rotto la banale routine quotidiana –non avrebbe esitato oltre, non avrebbe sarebbe stato pigro o timido o troppo preso dalla vita- e avrebbe fatto qualcosa di grande, di eclatante, di inaspettato.
Non sapeva con precisione cosa, ma l’avrebbe fatto di sicuro, perché voleva passare tutta la vita con il suo unico amore e lui avrebbe dovuto saperlo. 

Ma cosa è quest’incontrollabile voglia di grandezza, questa totale assenza di timore, questo assoluto desiderio di vittoria, questo disprezzo per i pericoli, questa bellezza e potenza che dipinge lui e tutto il mondo intero felice e perfetto, questa intensa illusione che offusca la realtà? Si inquisì. 

È amore: è Kurt.





N/A
Now eccoci alla conclusione, ai miei finali senza senso xD
Come vi avevo preannunciato il piano temporale si spostava di qua e di là, inserendo anche scene ben note e un missing moment. Perdonate se le ho inserite anche quelle note, ma avevo proprio voglia di “spiegarle” e mi erano funzionali alla storia.
Come il fatto che Kurt fosse andato a letto con B al matrimonio, o la scena del corridoio(una delle mie preferite, va beh il Klangst lo amo, si capisce xD), o quella del post sex della 4x14. È stato un modo per far ricombinare tutto e ricollegare tutti pezzi insieme, cercando di dare un senso a ciò che magari a volte il tf non può dare per mancanza di tempo.
Now mi rendereste il ragazzo più felice della terra(?) se mi desse un vostro parere *Blainey puppy eyes*
Gioco sempre la carta dei Blainey puppy eyes xD; okay mi eclisso, prometto C: 

Gaybye! <3
 
 
   
 
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