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Autore: Electra_Gaunt    29/04/2013    4 recensioni
TRATTO DALLA STORIA:
Irene Adler è tornata a Londra da poco più di due giorni e già l’aria è cambiata, nel modesto appartamento del 221B di Baker Street.
John non sa cosa pensare, né come comportarsi. Pertanto tenta ti sviare i pensieri, non agisce, non parla.
Tutto continua così, placidamente, per una settimana. Sa perfettamente di doversi aspettare l’arrivo di una tempesta (casualmente, quella tempesta indossa abiti eleganti e un rossetto color sangue). La calma non dura mai molto, pensa il giovane dottore. Nel profondo, però, vorrebbe che quell'uragano non giungesse mai, che non li toccasse mai e che non si abbattesse con la sua furia su di loro.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Hurricane

 

And now I’m finding out what it feels like 
To risk everything and still survive 
When you’re standing on the battlefield 
And all the pain is real 
That’s when you realize 
That you must have done something right 
‘Cause you never felt so alive 

I’m holding out for more than I deserve 
I’m hanging on to all your careless words 
And it’s time I cut the chord 
Maybe I stay and take some more 
I’ve become the leader of the broken hearts 

Leader of the Broken Hearts – Papa Roach

 

Irene Adler è tornata a Londra da poco più di due giorni e già l’aria è cambiata, nel modesto appartamento del 221B di Baker Street.
John non sa cosa pensare, né come comportarsi. O, tantomeno, cosa dire al riguardo. Pertanto tenta ti sviare i pensieri, non agisce, non parla. Rimane immobile al suo posto, accanto a Sherlock, parlando di casi apparentemente insolvibili e leggendo il giornale sulla sua poltrona, proprio di fronte a quella del coinquilino, sorseggiando una tazza di tea, mentre il più giovane degli Holmes improvvisa un Capriccio in Si minore di Paganini al violino.
Tutto continua così, placidamente, per una settimana. John sa perfettamente di doversi aspettare l’arrivo di una tempesta (casualmente, quella tempesta indossa abiti eleganti e un rossetto color sangue). La calma non dura mai molto, pensa il giovane dottore. Nel profondo, però, vorrebbe non giungesse mai, che non li toccasse mai e che non si abbattesse con la sua furia su di loro.
John raramente ha avuto paura nella sua vita. Ed anche in quei casi, non ha mostrato cedimenti o esitazioni. Perché lui è un soldato, fedele ai suoi principi, fedele a Sherlock.
Ma ora è diverso, totalmente e profondamente. Non riesce a sostenere lo sguardo del compagno, quando lui lo fissa, tentando di leggergli dentro le cose che non dice a voce, non riesce a fingere di non provare terrore per quella donna, che potrebbe distruggere la loro serenità.
O parvenza di felicità, che dir si voglia.
Ha paura di osservare impotente la caduta del proprio Mind Palace.
Sherlock sa cosa prova, John ne è certo. Lui è troppo acuto, troppo intelligente, troppo inafferrabile da non rendersi conto di una cosa così banale. Eppure ha l’accortezza di non dire nulla, tacere.
Watson gliene è grato, non potrebbe resistere altrimenti.
 
Quella sera la notte di Londra era limpida, come raramente accadeva. John si risvegliò lentamente, avvolto in un profumo conosciuto e altrettanto nuovo. Riconobbe immediatamente i contorni della piccola sala della propria casa, il camino a destra, il teschio appoggiato sul ripiano proprio sopra, il fuoco scoppiettante e la luce asettica proveniente dalla cucina, dove Sherlock solitamente usava fare esperimenti dalla dubbia utilità.
Provò a muoversi un poco, sentendo gli arti atrofizzati e congestionati, trovandosi attorcigliato ancora di più a quello che doveva essere il cappotto di Sherlock. Perché era il suo, ne era certo. La consistenza del divano lo fece rilassare maggiormente, infondendogli una calma ammaliante e dai tratti intriganti.
Stava per rimettersi a dormire, era così stanco dopo il turno all’ambulatorio protrattosi fino a tardi quel giorno, ma un paio di voci lo fecero sussultare un poco, agitandolo.
“Vedo che non sei cambiata”.
“Neppure tu”.
John tremò, impercettibilmente, serrando le palpebre e fingendo di riposare. Non voleva interrompere la loro discussione, fatta di convenevoli e frecciatine, poiché sapeva perfettamente che se avesse reso manifesto il suo essere sveglio avrebbero interrotto qualsiasi tipo di dialogo, inerente al perché Irene Adler fosse tornata a Londra.
John voleva dannatamente saperlo.
“Non credevo saresti tornata mai qui, Irene,” la voce di Sherlock era fredda come sempre, imperscrutabile “ non dopo tutto quello che è successo”.
“Diciamo che ho apprezzato particolarmente il fatto che tu mi abbia salvato da quella cella terroristica, ricordi? Ho pensato che, magari, avrei potuto... ricambiare il favore. In fondo, non sono più ricercata da nessuno”.
John non sapeva dell’evento cui lei stesse facendo riferimento. A dire la verità, era venuto a conoscenza del fatto che Irene Adler fosse ancora viva da Mycroft, giorni addietro, quando li aveva informati che la giovane aveva acquistato una villa poco fuori Londra. E che vi abitasse con la sua assistente, quasi non avesse mai rischiato la testa.
“Vedo che hai trovato altri segreti di Stato, che tutelino l’incolumità della tua persona. Affascinante il modo in cui gli uomini non imparano mai dai propri errori”.
Irene proruppe in una risata stridula, fastidiosa alle orecchie di John.
“Ed io vedo che tu non hai perso il tuo acume. Ne sono contenta”.
Sherlock non rispose all’affermazione. L’odore del tea inglese campeggiava nell’aria, segno che entrambi lo stessero bevendo.
“Stai lavorando a un nuovo caso?” chiese lei, d’improvviso.
“Non sperare che ti dica niente, Irene. Piuttosto dimmi: qual è la vera ragione del tuo essere qui?” rispose.
“Te l’ho già detto”.
“No, non l’hai fatto. Hai mentito. L’ho letto nei tuoi gesti”.
John si sentì un po’ più fiero di lui (quasi fosse possibile esserlo maggiormente).
Entrambi tacquero.
Il rumore delle tazzine, dei cucchiaini da zucchero e dei respiri divenne assordante. Quasi illusorio, totalmente finto.
“Mi mancavi, Sherlock..”
John strinse maggiormente le palpebre, le pupille bianche saettarono dietro di esse, i palmi delle mani serrati attorno al bavero del cappotto scuro.
Gli mancava il respiro.
“...Ma vedo che sono cambiate molte cose. Ed anche radicalmente”.
“Le cose nascono per mutare nel tempo”.
“Non così tanto”.
“Forse erano così sin dall’inizio, ma tu non te ne sei accorta”.
La donna proruppe nell’ennesima risata.
“Pensi davvero che sia così ingenua? L’ho appurato adesso proprio come l’avevo capito allora. Il cambiamento radicale è il fatto che tu abbia accettato intimamente tutto ciò. Che tu lo abbia incluso, anche consciamente, nella tua esistenza”.
La voce affabile e soffusa di Irene era devastante, talmente ammaliante da togliere il fiato. John non seguiva il ragionamento, un passo indietro rispetto a loro. Rispetto a lui.
Come sempre.
“Cosa te lo fa pensare?”
Lei rifletté prima di rispondere.
“Dov’è il tuo cappotto, adesso?” concluse ridendo.
John aggrottò le sopracciglia, immobilizzandosi, il cappotto di Sherlock stretto a sé.
“Sarà meglio che io vada, prima che la tua Giulietta collassi del tutto, sotto quel soprabito”.
John arrossì pietosamente, sentendo gli occhi di entrambi puntarsi su di lui.
Colto in flagrante, Watson.
La porta di casa sbatté leggermente ed i passi rimbombarono attutiti tra le mura della stanza, prima di perdersi e svanire del tutto, segno che Irene Adler se ne fosse andata. John accennò ad aprire un occhio, ancora imbarazzato per la figuraccia appena fatta.
“Pensavi davvero di riuscire a fingere con me?” Sussurrò Sherlock, sorridendo leggermente, andando a recuperare dal tavolo affianco alla finestra della sala l’arco del violino, per pulirlo.
John sbuffò, mettendosi in posizione verticale ed appoggiandosi con le spalle al cuscino morbido del divano.
“C-come.. ?”
Domanda stupida.
“Quando ti svegli sei solito fare un sospiro profondo, quasi un sussulto. Si sente attraverso le pareti. È stato facile dedurre che non ti fossi alzato per unirti alla discussione con la nostra ospite solo per poter origliare ciò che mi avrebbe riferito”.
Cadde il silenzio, cosa alquanto normale dopo che Sherlock rendeva nota la sua intelligenza.
John non rispose, stringendo a sé l’indumento scuro con maggior enfasi. L’altro se ne accorse ma non si espresse al riguardo.
“Quindi? Cos’ha detto?”
La curiosità non riuscì ad arrestarsi sulla lingua, troppo profonda e viscerale per seguire i semplici ordini imposti dalla mente.
L’impulsività celata tra le parole.
“Che non ci darà fastidio, che è tornata per me. Sono certo al 98% che abbia altre motivazioni per essere qui, a Londra. Motivazioni che, per il momento, non ci riguardano e su cui non indagheremo, né per conto di Mycroft né per conto di Lestrade.” Concluse Sherlock, accordando le corde del suo strumento.
L’espressione persa nel vuoto, assorta nei propri pensieri.
John esitò prima di porre la domanda successiva, quasi temesse di vederlo fuggire via pur di non rispondervi.
Si fece coraggio.
“Tu la salvasti da quella cella terroristica in Pakistan, vero?”
Il mutismo di Sherlock si fece più assoluto, totalizzante, e non vi fu bisogno di una risposta.
Affatto.
Il biondo abbassò lo sguardo e tacque. Non fece altro, quella sera, se non andare a comprare qualcosa da mangiare, alla panetteria poco lontano da casa, e sonnecchiare accanto al fuoco, seduto comodamente sulla poltrona.
Sherlock suonò per lui Bach.
 
I giorni seguenti furono gelidi. Non per la temperatura di Londra, perennemente rigida, quanto più per la tensione continua che aleggiava nel 221B di Baker Street.
Mrs. Hudson non sapeva più come comportarsi né cosa dire per aiutare i suoi due amati affittuari a chiarirsi. Non che vi fosse stata una discussione furiosa come erano solite essere, anzi.
Sembrava, piuttosto, una guerra fredda. In sospeso.
La donna riteneva fosse ben peggiore delle precedenti liti: questa era deleteria.
 
Il campanello suonò.
John smise di sistemare la spesa nella credenza, lasciò le sporte sul tavolo e si diresse verso la porta al piano inferiore. La signora Hudson era uscita da poco, diretta da una sua amica (John sospettava fosse andata dal suo fidanzato ma la donna non si era sbilanciata al riguardo, arrossendo un poco alle domande del dottore).
Watson guardò l’orologio: le 10 e 30. Chi poteva essere?
Sherlock era andato da Lestrade ore prima, ad implorarlo di cedergli un caso. Sarebbe già rincasato se non ne avesse avuto alcuno. Quindi, molto probabilmente, era già all’opera nelle indagini preliminari.
Perciò John non aveva la minima idea di chi potesse aver suonato alla porta. Con cautela attraversò l’atrio del palazzo e girò la serratura, spalancando l’uscio. L’aria di Londra, quasi piacevole quel giorno, lo stordì con il suo profumo di pulito e pioggia, i raggi del sole (spuntati nel cielo dopo giorni di cattivo tempo) invasero la sua visuale.
Respirò profondamente, prima di concentrare l’attenzione sulla figura che gli stava innanzi.
“Buongiorno a lei, Dr. Watson”.
Irene Adler. Ancora.
“Se sta cercando Sherlock, mi spiace informarla che non è in casa in questo momento”.
La giovane donna rise, le labbra rosso fuoco si aprirono con enfasi, mostrando la dentatura bianca e candida.
“Sono certa che non le ‘spiace’ informarmi di ciò. – ghignò – Ma non sto cercando il Signor Holmes, oggi. Sono venuta per lei. E, per mia fortuna, è in casa.” Rispose schietta, superando John ed entrando dentro l’edificio.
Il biondo scosse la testa, seccato, poi richiuse il portone e le fece strada verso l’appartamento suo e di Holmes, chiedendosi nel mentre il motivo di quella visita inaspettata.
La vide accomodarsi su una sedia in cucina, ancora sorridente.
Non le prestò attenzione, anzi, John tornò a sistemare gli alimenti acquistati al discount nella credenza.
 “Vedo che ti ho disturbato nelle tue mansioni da casalinga. Immagino che Sherlock non sia così disposto ad aiutarti nelle faccende di casa” continuò a temporeggiare, Irene.
“Già. Sai com’è fatto”.
“No, non lo so. Tu lo sai”.
John si bloccò con un pacchetto di tea in bustine in mano. Il tono usato dalla donna era stato sin troppo determinato e glaciale. Quasi cattivo, nei suoi confronti.
“Cosa intendi dire?”
“Che io non lo conosco bene come te. Io non sono te. Non sono così importante per lui, quanto lo sei tu.”
L’affermazione vibrò nell’aria, per svariati minuti, facendo stringere il cuore a John.
Aveva imparato a non illudersi, aveva imparato a sopprimere quei sentimenti per Sherlock che oltrepassavano il limite di “semplice amicizia” ed anche quello di “migliori amici”. Aveva imparato a convivere con se stesso.
Ma sentirsi dire quelle cose era ancor più devastante.
“Cosa stai insinuando, Irene?” ribatté John, voltandosi verso di lei con sguardo abbattuto, stanco.
“Tu lo sai a cosa sto facendo riferimento. Guardami negli occhi e dimmi che non provi nulla per lui.”
John non riuscì a mentirle. Non era mai stato bravo in quello, a fingere.
Irene si alzò in piedi, avvicinandosi a lui. Il rumore dei tacchi rimbombò nella stanza, come il rintocco dei secondi di una bomba ad orologeria.
“Lui prova la stessa cosa per te.”
“Sappiamo entrambi che non è vero. Perché dovrebbe? Perché.. io? Perché non tu?”
“Perché è Sherlock Holmes e per quanto finga di non avere cuore, lui ne ha. Tenta di proteggere le persone care da qualunque cosa, anche da se stesso, benché non lo mostri apertamente. Perché ti ha scelto, molto prima di incontrare me, molto prima che tu incontrassi lui. Perché sei la sua nemesi eppure siete così simili, per certi versi, che quasi ragionate allo stesso modo. Perché vi migliorate a vicenda, come non ho mai visto fare tra due persone.” Disse, con tale enfasi da togliere il fiato. “Perché semplicemente io non sono te. Tutto quello che ci sarebbe potuto essere tra me e lui, ormai, è passato. Lontano. E tu non te ne rendi neppure conto di quanto lui ti ami.”
John scosse la testa, sorridendo amaramente.
Sentiva le palpebre bruciare di lacrime che trattenne stoicamente.
“N- no, ti sbagli. Ed anche se fosse così, per quale motivo mi stai dicendo tutte queste cose? Perché staresti cercando di.. aiutarci?”
La Adler sorrise, sedendosi sulla poltrona in salotto. Quella di Sherlock, naturalmente.
“Non scherzavo quando dissi che sono qui per sdebitarmi. Penso ti abbia detto che mi ha salvato la vita in Pakistan. Senza di lui.. non sarei qui”.
John non riusciva a crederle. “Non hai interessi, quindi?”
“Certo che ne ho, ma non vi riguardano questa volta. Ciò che sto facendo con voi è di natura puramente.. personale. Senza alcun interesse di fondo.” Rispose lei, alzandosi nuovamente e tirando fuori il cellulare.
Rispose ad un messaggio per poi posare l’oggetto nuovamente nella borsa, dirigendosi verso l’uscita.
Prima di varcare la soglia ed andarsene definitivamente, si volse nuovamente verso John.
“Pensaci.” Fu tutto ciò che disse.
 
“John!” urlò Sherlock, entrando in salotto. “John dobbiamo andare, muoviti! Ho bisogno del tuo aiuto! Dobbiamo assolutamente andare alla Clock Tower… il killer sta adottando una nuova strategia per sviare le indagini e l’unico modo per capire chi l’abbia assoldato è coglierlo sul fatto. Presumo che anche questo caso sia in qualche modo connesso a Moriarty.”
John uscì dalla cucina con una terrina in mano, il frustino per dolci abbandonato al suo interno e il grembiule sporco di farina. Sembrava essere appena uscito da un campo di battaglia.
Sherlock si bloccò a fissarlo, totalmente immobile in mezzo alla stanza, prima di aprirsi in un sorriso leggero.
“Ehm, ecco.. io s-stavo preparando la cen-”
“Lo vedo.”
Holmes si avvicinò a lui, con passo misurato, gli occhi grigi brillanti come sempre. John rimase col fiato sospeso per secondi interi, arrossendo furiosamente quando il moro gli accarezzò una guancia con l’intento di pulirla da rimasugli di un impasto non meglio identificato.
“Perché?” chiese semplicemente Sherlock, quasi non la sapesse la motivazione o, quantomeno, non la intuisse.
John era abbastanza intelligente da sapere che il suo coinquilino voleva sentirselo dire.
“Volevo solo essere gentile e poi-”
Sherlock alzò di scatto il volto, spostando lo sguardo verso la propria poltrona.
“Perché Irene è stata qui? Di nuovo?”
John non si scomodò neppure a chiedere con quale criterio l’uomo avesse intuito che Irene Adler era stata a casa loro, proprio quella mattina.
“Voleva parlarmi.” Tentò di sviare il discorso, John, andando in cucina e posando i suoi strumenti da lavoro sul tavolo, lavandosi successivamente le mani impiastricciate di impasto per biscotti. “Cosa stavi dicendo del caso?”
Ma quando si volse per prendere l’asciugamano abbandonato chissà dove, Sherlock era fermo innanzi a lui, gli occhi fissi nei suoi, a pochi centimetri di distanza. John si ritrovò chiuso tra il coinquilino e il lavello dietro di sé.
“N-non dovevamo sbrigarci? Per quel caso, intendo.”
“Cosa ti ha detto Irene? Perché sei così agitato?”
Era agitato, sì. Terribilmente agitato.
Un fascio di nervi pronti a rompersi.
“Ci teneva a ribadire che non è venuta a Londra per infastidirci. Tutto qui.”
Sherlock sorrise, accondiscendente, facendosi più vicino e posando i palmi delle mani al mobile della cucina dietro John. Rinchiudendolo definitivamente.
“John… non sai mentire. Spero che questo ti sia chiaro. Cosa mi nascondi? Per essere così restio a parlarmene, vuol dire che mi riguarda.” Disse, socchiudendo gli occhi indagatori.
“Sherlock. Ne discuteremo dopo, ora abbiamo altro a cui pensare.”
John sgusciò via dalle sue braccia, dirigendosi verso la porta di casa.
Temporeggiare gli riusciva bene.
 
 
“Non fare un altro passo! O giuro che sparo un colpo in testa al tuo dottorino!” Esclamò l’uomo, il forte accento americano a sporcare le parole e con tutta l’intenzione di fuggire il prima possibile da quel posto.
Sherlock vide John stringere i denti e sussurrare qualcosa a l’uomo (leggendo il labiale, doveva essere una frase del tipo ‘Lasciami andare, non è da noi che devi fuggire ma da colui che ti ha assoldato’, ma il più piccolo degli Holmes poteva esserne certo solo al 98.9%, l’attenzione era pienamente focalizzata sul compagno e sull’arma da fuoco puntatagli alla testa).
“Voglio che lei se ne vada Signor Holmes ed anche in fretta. Magari potrei concedere al suo amichetto ancora qualche.. ora, lei cosa ne pensa?” La risata insipida ed altamente irritante innervosì il consulente investigativo il quale, a suo discapito, dovette abbandonare la pistola al suolo e retrocedere di alcuni passi.
Gli occhi puntati su John.
“Bene, vedo ci intendiamo. Mi avevano detto che lei fosse una specie di genio, un surrogato di Einstein, eppure non mi sembra così.. brillante.” Proruppe l’uomo dal volto coperto, ghignando con gusto.
Sherlock contraccambiò il sorriso. “Molti si sbagliano sul mio conto.”
Fu una mossa istantanea e fulminea, agile, schematica. John pestò l’alluce dell’uomo, per poi tirate una gomitata allo stomaco del suddetto e liberarsi dalla sua presa. Sherlock non esitò: afferrò la pistola dalle sue mani, dopo averlo disorientato con un colpo sotto al mento e ai lati del capo (vicino alle orecchie), puntandogli infine l’arma contro. Watson andò a recuperare la Browing L9A1, buttata per terra in precedenza e mirò al capo dell’uomo.
Il sorriso sul volto e il respiro leggermente affannato (gli anni trascorsi nell’esercito erano ormai lontani, sembrava essere passata quasi una vita intera, e John pensò a come gli mancasse un po’ di esercizio fisico: sentiva la fatica farsi più imperiosa, purtroppo).
Fissò il sottoposto di Moriarty riprendersi e tentare la fuga (inutilmente) prima di arrendersi all’evidenza.
“Chi ti ha mandato?”
“Signor Holmes, può dedurre da sé la risposta a tale domanda. Non crede?”
Sherlock sorrise.
“Avrei voluto sentirglielo pronunciare dalle sue labbra, visto il modo in cui si è prodigato a portare a termine la volontà di un uomo che non ha neppure incontrato di persona. Perché lei non sa affatto con chi ha a che fare, non sa chi l’ha pagata per innescare quelle bombe. Lei, piccolo uomo dalla dubbia etica, non sa proprio nulla.”
Il volto di lui (non avrà avuto neppure 30 anni) si fece livido e furioso.
“John chiama pure Lestrade. Non ha nulla da riferirci costui.”
John estrasse il cellulare dalla tasca e compose il numero in religioso silenzio.
Le mani tremanti.
 
 
 
“John, ti senti bene?”
La domanda rimbombò tra le pareti della piccola sala dell’appartamento di Baker Street, interrompendo la quiete ed il silenzio.
John si costrinse ad aprire gli occhi assonnati, ad alzare la testa dalla poltrona (si era addormentato? Non se n’era reso conto) e puntare lo sguardo verso il coinquilino.
“C-come?” Rispose lui, ancora intontito da Morfeo.
Sherlock abbassò lo sguardo. “Ho notato il tuo affaticamento. – chiarì, riferendosi agli avvenimenti di qualche ora prima (John si rese conto neppure di quanto tempo fosse passato) – E mi sono chiesto se stai bene, adesso.”
“Oh, sì, non preoccuparti. Solo un po’ di stanchezza arretrata e, beh.. immagino di non avere più la prestanza fisica di 10 anni fa, quando entrai a far parte dell’esercito.” Concluse sorridendo un poco, sereno in volto, rilassato.
Sherlock, invece, rimase serio a fissare il vuoto, le mani congiunte davanti al viso, concentrato a scrutare le fiamme rossastre del fuoco (unica fonte di calore e luce) che spandevano ombre scure sul pavimento. L’atmosfera instabile ma altrettanto quieta.
John scrutò la sua espressione corrucciata e preoccupata chiedendosi dove avesse sbagliato quella volta, cosa avesse detto di male. Il moro sembrava turbato da qualcosa che il dottore non riusciva a carpire dal suo viso, qualcosa di estremamente importante.
“Forse dovresti dedicarti unicamente all’ambulatorio di Sarah, John.” Disse dopo numerosi minuti di silenzio tombale.
“Non capisco…cosa stai cercando di dirmi?”
“Che sarebbe meglio tu non partecipassi.. alle prossime indagini.” Concluse.
John rise di gusto.
“Spero tu stia scherzando! Questo non succederà mai, scordatelo. Se sei preoccupato per la mia salute (e ciò mi lusinga), sappi che non ve n’è motivo. So badare a me stesso!” rispose il biondo, con tono sommesso, il sorriso ancora sulle labbra. “ E poi se non ci fossi io, le tue indagini sarebbero un vero disastro!”
Sherlock si aprì in una risata leggera a quella battuta sussurrata da John.
“Sarei perso senza il mio blogger.”
“Assolutamente.”
Le risate si acquietarono pian piano, lasciando nell’aria unicamente il sentore di serenità e pace, che non si percepiva più da quando Irene Adler era tornata a Londra.
“Ok, Sherlock. Io vado a dormire. Ci vediamo domani.. cioè esattamente tra 4 ore. – disse John, guardando l’orologio appeso al muro con aria affranta – Dormi un po’ e ti prego, ti prego, non metterti a suonare il violino. Non stasera.” Terminò, implorandolo con gli occhi.
Holmes sbuffò scocciato prima di annuire leggermente.
Il biondo fece per alzarsi e dirigersi verso le scale del pianerottolo, sognando il momento in cui si sarebbe poggiato sul letto ad una piazza e mezza della sua stanza e avesse affondato il volto nel cuscino, quando Sherlock lo fermò con la sua voce baritonale e soffusa.
“Non hai ancora risposto.”
John rimase interdetto.
“Rispondere a cosa?”
Sherlock si alzò dalla poltrona, muovendo un paio di passi in sua direzione, scrutandolo attentamente.
“Di cosa avete parlato, tu e Irene?”
Watson spalancò gli occhi, la sonnolenza che lo aveva soggiogato poco prima era totalmente sparita, lontana, perduta. Il petto sussultò e si strinse in una stretta morsa.
Ora vi erano solo quegli occhi, innanzi a sé, grigi e furiosi come una tempesta vicina al culmine della sua potenza. Non poteva evitarli.
Sherlock gli accarezzò una spalla, risalendo poi nell’incavo del collo sino alla guancia in uno sfiorarsi leggero, controllato, che a John mise i brividi.
Abbassò lo sguardo.
Non poteva arrendersi, non poteva smettere semplicemente di pensare ai sentimenti per il moro che lo turbavano giorno e notte, continuamente, come un’ossessione non detta. Non era più in sé, John, non lo era da molto tempo ormai. Era in balia di se stesso, in balia del vuoto.
Perduto nel suo desiderio, nel suo amore.
Non c’era e non ci sarebbe stato mai un modo per farlo risalire.
“Nulla d’importante.”
“A quanto vedo, è importante per te. Stai tremando.”
John abbassò lo sguardo verso i propri palmi e non si stupì di vederli sudaticci e sussultanti.
“Sherlock, ti prego.. non-”
Non riuscì a concludere la frase, neppure nella propria mente. Il fiato si estinse in un gemito leggero e le mani si aggrapparono alla camicia viola scuro del compagno.
Chiuse gli occhi, godendosi la sensazione delle labbra di Sherlock sulle proprie, così morbide e soffici, così delicate ma al contempo decise.
Dal sapore esotico ed intrigante.
Anche quando finì, John dovette resistere all’impulso di passare la lingua sulla propria bocca per riassaporare quell’aroma inebriante.
“E’ di questo.. di cui avete discusso?” chiese nuovamente Holmes. Il respiro affannato di lui arrivò dritto al volto del biondo, come una manna dal cielo.
Egli rispose un flebile ‘sì’, prima di riprendere da dove si erano interrotti. Sherlock fu ben felice di assecondarlo, conducendolo nella propria camera da letto.
 
Non vi fu più bisogno di parole.
Le frasi non dette aleggiarono nell’aria, acquisendo un nuovo significato noto ad entrambi.
Senza dubbi, remore o incertezze.
Senza indecisioni.
Senza paure.
 


she can't, she won't, she must rinse him
she can't, she won't, she must rinse him
she must rinse this all away
she can't hold him this way
she must rinse this all away
she can't love him this way

Vanessa Carlton – Rinse

 
Irene Adler sorrise nel vederlo felice, accanto a John (accanto a ciò che lei non potrà mai dargli, accanto a ciò che lei non sarà mai).
Rimase a fissarli per un po’, placidamente acciambellati sul divano, leggendo negl’occhi di entrambi quei sentimenti inviolabili campeggiare dentro loro.
Quel pomeriggio giocarono a Cluedo.
Vinse Sherlock (come naturale fosse) e la donna vide John alzarsi e sbuffare, pronunciando qualcosa del tipo ‘Sherlock l’assassino non può essere anche la vittima, sono le regole del gioco!’ controbattuto da un ‘Allora le regole sono sbagliate, John!’ il tutto seguito da una risata di Mrs. Hudson, che li guardava battibeccare dalla cucina.
Rimase fino a notte inoltrata, osservandoli mangiare in silenzio e lanciarsi occhiate leggere ma intense. Intravide il dottore sussurrare un ‘Io vado a dormire, buonanotte.’ fermato, poi, da una mano di Sherlock che si pose alla base della schiena del coinquilino solo per stringerlo a sé e non farlo andare via, non lasciandolo allontanare neppure di un centimetro.
‘Resta con me.’
John lo baciò in risposta.
Irene dovette abbassare lo sguardo, gli occhi lucidi, le pupille dilatate.
Sorrise ancora, amaramente, per poi alzarsi dalla panchina su cui era seduta e riporre l’elegante binocolo nella borsa.
 
Non tornò più a Beker Street.



Note dell'autrice:
Ecco...sì, ehm, questa è la mia prima incursione nel fandom di Sherlock versione BBC. Non mi sono mai prodigata nello scrivere una fanfic Johnlock ma ne ho lette parecchie anche in inglese (e la mia, a confronto, fa davvero pena *sob*).
Siate clementi ._.
Anyway, spero che anche in minima parte vi piaccia. A presto!
_Electra_
 
  
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