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Autore: Macaron    07/05/2013    5 recensioni
"...Io rimango ad ascoltare e sul momento non riesco nemmeno a capire perché. Poi realizzo, è la sua voce non quello che sta dicendo. E’ la voce più blu che abbia mai sentito. Anche mentre sbuffa e borbotta frasi infastidite a un cellulare a me sembra di non aver mai ascoltato nessun suono così bello, nemmeno i concerti per violino..."
[...]
“ Suono il violino. Quando non ascolto lo scanner, e non ascolto Chet Baker, suono il violino. E deduco, deduco le vite delle persone dalle frasi che dicono, dal loro modo di scandire le parole.”
“ Mi piacerebbe sentirti suonare una volta. Magari quando avremo preso questo serial killer.”
Avremo. Dice avremo come se fossero una squadra e Sherlock sorride appena.
“ Magari.”

Sherlock, un ragazzo non vedente dalla nascita, ascolta al buio con lo scanner lo scorrere di Londra fuori dalla finestra. John si trova a cercare di far riaprire un caso che nemmeno esiste e un serial killer sente le campane e si reincarna ogni volta che sente la pelle tirare. E poi i tre mondi s'incrociano.
AU e Crossover con Almost Blue di Lucarelli.
Genere: Azione, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non è stato volontario. Carl Powers, intendo. Non era nei piani. Non c’erano nemmeno piani, ero solo un bambino che sentiva le campane e a cui nessuno dava ascolto quando si lamentava. Non è stato volontario. Non mi piaceva ma non mi piaceva nessuno. Erano tutti così stupidi, nessuno era palesemente alla mia altezza. Nessuno era in grado di capirmi. Carl Powers era tutto quello che io non ero. Popolare, superficiale, una stella dello sport, un idiota. Non mi piaceva ma non è stato volontario. Non l’ho programmato. Mi provocava, perché era umiliato dalla mia intelligenza e dalla sua totale mancanza della stessa. Io ero più intelligente, ero un genio matematico come mi definivano le insegnanti, non ero popolare e sentivo le campane anche se non sapevo cosa fossero davvero e la pelle iniziava a prudermi sui polpastrelli delle dita. Non è stato volontario, ero solo così arrabbiato. E lui era lì ed era così stupido ed è caduto. Non l’ho davvero spinto, è caduto. O forse l’ho spinto ma comunque è caduto. E’ stato allora che le campane hanno iniziato a suonare così forte che ho creduto d’impazzire. E’ caduto, non l’ho spinto. E’ caduto, ha battuto la testa e nessuno se n’è accorto perché eravamo in tanti e c’era confusione e io in ogni caso non sentivo nulla sentivo solo le campane. Sentivo le campane, la pelle tirare e non riuscivo a distogliere lo sguardo dal sangue che s’espandeva nella piscina. Non avevo mai visto nulla di più bello di quel sangue e del viso di Carl Powers. Sembrava non sentisse nulla. Non le campane, non la pelle tirare. Non è stato volontario, l’ho solamente spinto. E’ caduto.1 Da allora le campane non hanno mai smesso di suonare. Carl Powers non è stato volontario, se lo meritava. Se lo meritava ma non lo volevo davvero morto, ero solo un bambino. Un bambino non può volere qualcuno morto. Io volevo solo che la mia testa rimanesse in silenzio, volevo che tutto smettesse di fare rumore. Avrei ucciso per quello, anche se avevo solo quattordici anni. Carl Powers non è stato volontario, anche se se lo meritava. Nemmeno gli altri sono stati volontari, sono stati necessari. Non se lo meritavano, non c’erano alternative. Non ci sono mai alternative alle campane, alla pelle che tira. Non ci sono alternative e forse non me le merito.

Da bambino ero un genio. Poi ho sentito le campane e la pelle tirare e ho smesso di essere ogni cosa. E ho cercato di essere qualcos’altro.

 

 

 

 

 

 

Dopo quella prima sera John ritorna altre volte. La mia padrona di casa ormai lo chiama per nome e non lo tratta più con quella sorta di riverenza che di solito s’impone con i funzionari pubblici e con le persone importanti. Adesso quando va ad aprirgli alla porta lo apostrofa con frasi scherzose e si lamenta perché non si pulisce bene le scarpe e insozza tutto l’ingresso. C’è una sorta di familiarità in tutto questo, come se lui fosse uno di casa e non un ispettore di polizia che deve solo portare a termine un’indagine, che m’infastidisce. E’ troppo e non è il caso. Non voglio che lui mi sia familiare, non voglio che sia di casa. Non voglio che la mia padrona di casa conosca il suo tè preferito, darjeeling raccolto autunnale e lo beve sempre senza zucchero, non voglio che lui sia di casa, non voglio che si senta come se fosse a casa sua perché da casa sua può andarsene e non tornare più e non voglio che questo possa dispiacermi. Tutta quella cosa di avere un cuore, di affezionarsi alle persone, tutta quella cosa dei sentimenti è una fregatura. Non serve a nulla, rallenta il mio cervello e non serve a nulla. Avere un cuore non mi fa sentire meglio, mi fa sentire più esposto e in questo non c’è nessun miglioramento, non c’è nessun vantaggio.

John ritorna altre volte dopo quella prima sera. Si siede sul pavimento, o più raramente sul divano e la sua schiena sfiora le mie dita dei piedi e quel contatto è così familiare che mi fa male.

Non parliamo mai tanto, ascoltiamo lo scanner e ogni tanto John prova a imbastire qualche surreale conversazione in cui di solito le parole s’impigliano. Fa stupide domande su fidanzate e fidanzati, e quando dice fidanzati c’è una maggiore incertezza nella voce come se stesse arrossendo, e parla d’inutili serie tv con alieni senza nome e personaggi che assomigliano a delle patate. Io di solito rispondo con qualche frase scontrosa e caustica e poi mi perdo così tanto ad ascoltare la sua voce che devo concentrarmi per ricominciare a cercare la voce verde tra le varie chiamate dei cellulari.

Zoppica meno da quando è arrivato la prima volta. Continua a trascinare leggermente la gamba ma zoppica meno. Potrebbe essere merito mio, probabilmente non lo è.

Oggi comunque non è particolarmente loquace e per qualche motivo ignoto, com’è possibile che ci sia qualcosa che non capisco?, mi sento in dovere di riempirlo io quel silenzio.

“ C’è un odore diverso oggi.” Non la miglior frase per iniziare una conversazione, lo so, ma io non parlo mai con nessuno. Non è il mio campo. Posso dedurre cos’ha fatto nell’ultima settimana solo dal modo in cui pronuncia un paio di frasi ma conversare, non è una cosa da me. Non funziono in queste cose.

“ Mh?”

“ C’è un odore che non riconosco oggi, detesto ripetermi John tieni il passo.”

“ Che odore?”

“ Sento l’odore di fumo, ma quello c’è praticamente sempre.”

John ride piano. “ Non sono io che fumo, sono i colleghi e la giacca l’assorbe sempre. Mary fuma parecchio.”

“ Mary?”

“Mary, sì… La Dottoressa Morstan, la psichiatra criminale che segue questo caso.”

Mary non è evidentemente solo la Dottoressa Morstan, la psichiatra criminale che segue questo caso. La voce di John è praticamente trasparente e c’è stata una pausa dopo il suo nome, come se stesse cercando di catalogarla come qualcosa di diverso da un’ex fidanzata, da una storia, come se avesse cercato nella sua mente qualcos’altro. Non è finita male ma è finita, comunque. C’era una nota di malinconia nella sua voce, è così facile leggerlo. E’ così facile leggerlo che dovrebbe annoiarmi, e invece non succede e questo è quasi destabilizzante.

“ E poi? Che altri odori senti?”

“ Cucina coreana. Riso spadellato, odori di cibo. Si sentono meno del solito però, e oggi sei passato prima quindi probabilmente non sei andato a casa a cambiarti. Da questo si deduce che abiti probabilmente vicino a un ristorante coreano e che l’odore è più debole perché si è perso durante la giornata fuori.”

“ Fantastico. Che altro?”

Complimenti. Generalmente noiosi. Da John mi fanno piacere. Almeno un po’.

“ Darjeeling, l’odore del tè non rimane addosso ma oggi si sente particolarmente. Te lo sei rovesciato sulla camicia.”

“ Questo non vale, mi hai sentito borbottare quando mi sono scottato!” Ride di gusto.

“ Ho prestato attenzione, anche questo è un modo di dedurre.” Metto il broncio, giusto un pochino.

“ Poi c’è il tuo odore, e quello è normale. E oggi c’è un odore che non riesco bene ad identificare. Olio? Grasso?”

“ La pistola, ho la pistola dietro…”

“ Giusto, la pistola. Non sei passato da casa quindi hai ancora la pistola.”

“ Comunque se non fosse terribilmente imbarazzante lo troverei straordinario.”

Sorrido mentre continuo a girare la manopola dello scanner.

 

“ Allora ci vediamo stasera alle 22?”

“ Sì sì va bene. Dimmi di nuovo l’indirizzo…”

 

M’immobilizzo. Voce strisciante, una voce che non dice nulla, una voce che conosco. La voce verde. Arriccio il naso e mi metto istantaneamente a sedere, anche John si blocca e rimane in silenzio.

 

“ Istituto para universitario Roland-Kerr2, è praticamente deserto ormai ci si organizzano sempre feste e rave. E’ figo! ”

“Istituto para universitario Roland-Kerr, perfetto ci vediamo lì”

 

Non ho bisogno che parli, so già che John mi sta fissando e so già cosa sta per chiedermi. Annuisco brevemente. E’ lui ed è quello il posto dove sarà stasera.

John compone brevemente un numero sul cellulare, Lestrade non Mary perché il numero di Mary è tra le chiamate automatiche quindi richiederebbe una singola pressione di un dito su un tasto, e aspetta.

“ Greg? Sono John, senti l’abbiamo trovato. No no non l’abbiamo fisicamente trovato. Abbiamo una pista. Stasera sarà all’ Istituto para universitario Roland-Kerr, dovrebbe esserci una specie di festa. Sì anche secondo me trovarlo sarà praticamente impossibile, ma ci proviamo no? Chiama Dimmok ci vediamo direttamente lì alle 21.30. A dopo!”

Si alza in piedi di scatto e raccoglie la sua giacca. Non trascina nemmeno la gamba. Adrenalina quindi, è l’adrenalina che lo cura. Non io, peccato. Non dovrebbe dispiacermi. Mi dispiace, invece.

“ Non ti vesti?”

“ Mh?”

“ Non vado a un rave da… ok non sono mai andato a un rave, e sicuramente non ho le tue capacità deduttive quindi mi sbaglierò,  ma penso che una persona in pigiama potrebbe essere notata.” Mi sta prendendo in giro, non mi da particolarmente fastidio.

“ Vengo con te?”

“ Dobbiamo trovare un serial killer tra tipo qualche centinaio di persone e tu sei l’unico che sa riconoscere la sua voce…” Esita. Non è sicuro che voglia venire. Probabilmente non mi sono mostrato troppo desideroso di collaborare in quest’incontri.

“ Vengo con te.” Sorrido e anche se non dice nulla so che sta sorridendo anche lui.

 

 

 

 

 

 

Trovare Lestrade e Dimmok è così semplice che potrebbero anche smettere di salutare e fare cenni con la mano mentre John si avvicina trascinandosi praticamente dietro Sherlock. La parola festa, rave, serata universitaria in un istituto universitario praticamente disabitato dev’essergli sfuggita perché sono indubbiamente le persone più riconoscibili davanti all’ingresso. John sbuffa. Sono così vicini e al tempo stesso non gli è mai sembrato di essere più lontani dal prenderlo.

Si aspettava posto diverso a dirla tutta. Probabilmente nemmeno il ragazzo al telefono con l’Iguana era tra gli organizzatori della festa perché la musica non è propriamente da rave, anche se è molto distante da quella che ha sentito negli ultimi giorni a casa di Sherlock, e il numero di ragazzi accartocciati in qualche angolo a vomitare è abbastanza ridotto. E sì lui è quasi sicuramente la persona più vecchia di tutto l’evento ma non così tanto da sembrare il padre di qualche partecipante, non così tanto da sentirsi ridicolo. Come se poi ne avesse davvero il tempo.

Non hanno un piano, non hanno un piano migliore di quello che consiste nel girare per l’edificio ascoltando la gente parlare sperando che nonostante la musica Sherlock riesca a riconoscere la sua voce verde e che a quel punto la suddetta voce verde abbia una qualche freccia luminosa sulla testa in modo da permettere anche a loro di localizzarla. Non hanno indubbiamente un piano, eppure non sono mai stati così vicini a prenderlo.

“ Prendi la mia mano.” Sorride a Sherlock mentre lo dice, sa che non può vederlo ma sa anche che in quel momento lo sa comunque, perché in quel momento gli sembra ancora di più un ragazzino. In quel momento non c’è la sua voce baritonale così da adulto, o le sue mille deduzioni, c’è un ragazzo che si trova in un posto sconosciuto e dove non ha punti di riferimento.

“ Stiamo andando da Lestrade e Dimmok”

“ Lo so, John. Ho sentito le loro voci, sono cieco non sordo.”

Fa un po’ lo spavaldo ma i suoi passi sono incerti. Gli stringe la mano.

 

 

“ Ispettore cosa facciamo?”

“ Greg, aspettiamo. Ci guardiamo in giro magari cercando di non sembrare proprio dei pesci fuor d’acqua e aspettiamo di sentire la voce. O di trovare qualcuno ammazzato. Magari è meglio la prima. Vai a prenderti qualcosa da bere, passa il tempo.”

“ Che senso ha, Greg? E’ un ragazzino, è un ragazzino che gioca al poliziotto. Non lo troveremo mai.” La voce di Dimmok è malapena percettibile per John mentre si allontanano ma questo non toglie che ascoltarla gli faccia prudere le mani. Non gli tirerà un pugno, perché insomma se gli tirasse un pugno e tutto questo si trasformasse in una rissa potrebbe essere la peggior operazione di sempre, però le mani gli prudono lo stesso.

“ Cieco, non sordo, Dimmok. Non sordo. ” Sherlock. A quanto pare John non è l’unico ad averlo sentito. “ E anche da cieco ci sono molte più possibilità che riesca a trovarlo io il tuo serial killer. Anzi stando agli appunti che ti hanno fatto i tuoi superiori negli ultimi casi, in cui le tue prestazioni sono state a dir loro “imbarazzanti”, viene da sperare che tu non te lo trovi davanti perché saresti capace d’inciampare nei tuoi stessi piedi mentre cerchi di mettergli le manette.”

“ Ma che cazzo…?”

“ Non sono sordo, te lo ho detto. John, andiamo. Cerchiamo di trovare questa voce verde.”

A quanto pare quando sei con Sherlock Holmes non è nemmeno necessario prendere a pugni qualcuno.

 

 

“That there
That’s not me
I go where I please
I walk through walls
I float down the Liffey
I’m not here”3

 

“ E’ bello”

Sherlock ha gli occhi chiusi e sta ascoltando la musica, rapito.

“ Cosa?”

“ La canzone. Non è Chet Baker, non è Bach ma è bella. E’ bella la musica fuori dalla mia stanza.” E mentre lo dice c’è una vulnerabilità che John non gli riconosce e che gli spezza quasi il cuore. In quel momento John vorrebbe che non fossero su un caso, vorrebbe che non fossero alla ricerca di un serial killer. In quel momento John vorrebbe che fossero semplicemente usciti ad ascoltare della musica. Vorrebbe sedersi a un tavolo con Sherlock e offrirgli un bicchiere di vino rosso e chiedergli di dedurre tutte le persone accanto a loro solo per il modo in cui pronunciano la lettera v all’interno delle parole. In quel momento John vorrebbe che Chet Baker e Bach fossero ancora vivi e vorrebbe portarlo ad ascoltarli e dirgli che sono loro ad essere fortunati per la sua presenza tra il pubblico. In quel momento John vorrebbe non essere un ispettore di polizia e non vorrebbe che Sherlock fosse un testimone. Ma se non lo fossero probabilmente non sarebbero nemmeno lì. Sherlock non sarebbe uscito con lui, l’avrebbe trovato ridicolo e noioso e sentimentale e quindi va bene così. Va bene qualsiasi cosa che gli arrivi da lui, non sa ancora perché ma lo sente, lo sente con quell’istinto per cui tutti gli hanno sempre fatto i complimenti.

“ Magari potremmo rifarlo una volta, non so con un bicchiere di vino e qualcosa d’italiano da mangiare, magari anche Chet Baker ha un suono diverso fuori dalla tua stanza.” Non sa perché l’ha detto. O meglio sa perché l’ha detto, l’ha detto perché lo sentiva, non sa perché si è permesso di lasciarselo sfuggire.

“ La digestione mi rallenta, John.” Ed eccola scomparsa quella fragilità, eccolo di nuovo con tutte le sue barriere. Il momento è passato.

“ Magari potresti mangiare solo tu.” Gli stringe un po’ di più la mano. Forse il momento non è passato davvero.

Vorrebbe dire qualcosa di particolarmente brillante in quel momento, John, ma Sherlock lo interrompe aumentando la pressione sulla sua mano.

Un gruppo di ragazzi passano davanti a loro chiacchierando.

“ E’ lui, mi è appena passato davanti.”

“ Lui chi? La voce verde?”

“ Sì. Ci è appena passato davanti.”

“ Ma qual è?”

“ E io come faccio a saperlo? Io riconosco la sua voce, non l’ho mai visto. Non ho mai visto nulla.” Sbuffa infastidito mentre John gli lascia andare la mano e fa un cenno a Lestrade e Dimmok.

Davanti a loro ci sono quattro o cinque ragazzi in gruppo di cui due con un’evidente irritazione alla pelle. Devono provare, o la va o la spacca.

“ Scusa? Possiamo farti un paio di domande?”

“ Chi siete? Cazzo volete?”

 

John non lo vede perché in quel momento è concentrato a cercare d’interrogare un sospetto ma Sherlock scuote il capo. Non è lui, non è quella la sua voce. Non è lui. L’hanno perso. E John ha smesso di tenergli la mano.

 

 

Mi sta fissando. Mi sta fissando e i suoi occhi sono sbarrati e di solito la gente non mi fissa non così tanto e io non capisco. Era insieme ad altri tizi prima, quando gli sono passato davanti borbottando qualcosa, e poi è rimasto indietro per fissarmi. Mi fissa e non dice niente e nessuno mi ha mai fissato così. Non è come Molly, non è come mi fissava Carl Powers o Victor o chiunque altro abbia mai incontrato. Lui mi fissa e mi vede. Vede che la mia pelle sta andando in pezzi. Vede che si sta staccando e mi sento nudo come mai prima e le campane iniziano a suonare così forte che ho paura che tutti possano sentirle. Perché mi sta fissando? Perché mi fissa senza dire niente? Perché mi stai fissando? Come fai a vedermi? Come fai a vedere tutti gli scarafaggi che mi stanno scavando dentro? Cosa vuoi? Cosa vuoi da me? Perché continui a fissarmi? Perché non hai paura degli scarafaggi che stai vedendo? Come faccio a non averne paura anche io? Come fai? Come faccio? Perché mi stai fissando?

 

“ Sherlock? Non era lui ma ormai dobbiamo comunque portarlo alla centrale. E’ successo un po’ un casino, andiamo.”

 

Perché mi stai fissando?

 

 

 

 

L’hanno perso. Hanno fatto le domande alla persona sbagliata. Hanno preso la persona sbagliata ed hanno perso quella giusta. Lui ha perso la persona giusta, lui non ha ascoltato, lui non ha saputo vedere per l’ennesima volta. John Watson sbuffa rumorosamente mentre si appoggia sulla sedia. Sherlock è tornato a casa da pochi minuti e anche se non si sono detti nulla di particolare lui è riuscito a percepire comunque una sorta di delusione, una frase non detta. “ Com’è possibile? Te l’avevo trovato e tu te lo sei lasciato scappare? Com’è possibile che tu sia così cieco?”. Non gliel’ha detto in realtà, e forse il fatto che non abbia nemmeno avuto voglia di trattarlo male è anche peggio. Quello e il fatto che adesso dovrà probabilmente giustificare il suo errore con tutti quelli che ne sono a conoscenza, con tutti quelli che sono a conoscenza del caso del serial killer. E se fino a qualche ora prima tutte queste persone si potevano contare sulle dita delle mani adesso quel numero è esploso. Adesso c’è un serial killer e la notizia è pubblica e lui adesso è l’ispettore che se l’è lasciato sfuggire. Fantastico, grandioso. Ottima serata.

Mary è stata carina con lui, come sempre perché Mary è sempre carina e questo inizia a dargli sui nervi, ha detto che sarebbe potuto succedere a chiunque, ha detto che è stato un errore normale. Mary l’ha abbracciato e gli ha detto che sarebbe potuto succedere a chiunque e lui ha sentito Sherlock sospirare appoggiato alla parete dietro di loro. La verità è che John non vuole commettere gli errori che farebbe chiunque e non vuole sentirsi dire che va bene così. La verità è che John non vuole accontentarsi di essere mediocre e al tempo stesso non vuole qualcuno accanto che gli dia una pacca sulla spalla e gli dica che non importa che sicuramente ce la farà, anche solo per tenerlo buono. La verità è che John vorrebbe accanto qualcuno che lo insultasse, che gli dicesse che è stato un idiota a non vedere, che l’obbligasse ad essere migliore di quello che è e che al tempo stesso lo accetti nella sua imperfezione e quel qualcuno non è Mary, quel qualcuno non potrà mai essere Mary.

 

 

“ Agente! Agente! Sono qui per portare a casa quel ragazzo… mi hanno chiamato dalla centrale.”

Dimmok si avvicina al tassista accostato di fronte all’ingresso di Scotland Yard. “ Il ragazzo? Ah Sherlock Holmes, certo. Lo vado a chiamare sarà ancora dentro.”

“ Grazie mille, troppo gentile.” Il tassista gli sorride. “ Non è che può darmi l’indirizzo già che c’è? Così inizio a inserirlo sul navigatore, e poi non faccio perdere tempo al ragazzo. A nessuno piace rimanere fuori da una centrale di polizia.”

“ Beh tanto non è che sappia nemmeno dove si trova, visto che è cieco.” Dimmok ridacchia e un po’ arrossisce. “ 221 di Baker street. Lo vado a chiamare, aspetti qui.”

 

“ Ispettore, dov’è Sherlock Holmes?” Dimmok si affaccia alla porta del suo ufficio e John per un attimo smette di maledirsi per tutti i suoi errori.

“ Holmes? E’ già andato a casa. E’ venuta a prenderlo la sua padrona di casa quasi mezzora fa.”

“ Davvero? Perché qui fuori c’è un taxi che lo sta aspettando, ha chiesto proprio di lui, il suo indirizzo e tutto. Si saranno sbagliati. Bah. Vado ad avvisare il tassista allora, tanto non se la prenderà sicuro, è un tizio così gentile.”

“ Un taxi? Sherlock?” John si alza in piedi di scatto. Lui non ha chiamato un taxi per Sherlock. Lui non ha detto di chiamare un taxi per Sherlock. Nessuno ha chiamato un taxi per Sherlock.

“ Bah è andato via senza aspettare.”

Dio, ti prego non farmi sbagliare anche stavolta. Non con lui.

“ Lestrade? Una macchina presto, dobbiamo andare a Baker street.”

Non con lui, ti prego.

 

 

 

Non ci ho nemmeno provato con Chet Baker quando sono rientrato a casa. Mrs. Hudson mi ha consigliato di farmi una doccia e poi andare subito a letto e tutto il resto ma io non dormo, non dormo normalmente quindi figuriamoci dopo una serata come questa. Siamo saliti nel mio appartamento e dopo qualche parola lei è scesa a farsi un tè, senza farsi mancare una predica su quanto sia pericoloso per me infiltrarmi in un’operazione di polizia, e io mi sono dedicato al violino. Al violino e ai miei pensieri. Li ho lasciati fluire entrambi e non mi è sembrato di sentire più niente.

Ho pensato. A John, alla sua voce blu, ai Radiohead in un edificio di Londra, a Londra fuori dal mio appartamento in Baker street, alla voce verde, alla voce di John quando mi ha detto che se l’era fatto sfuggire, alla delusione nella sua voce. Non gli ho detto nulla. Non penso si aspettasse nulla di diverso da me. Non poteva davvero aspettarsi qualcosa di diverso. Quando mai in questi giorni insieme gli ho mai dato l’idea di essere il tipo di persona che gli da una pacca sulla spalla e gli dice che è stato bravo lo stesso e che va bene comunque? Per quelle bugie ha già Mary. Non è stato bravo lo stesso e sì se l’è fatto sfuggire, ha sbagliato. E sicuramente non va bene comunque, sicuramente la prossima persona che morirà non penserà che vada bene comunque. Però adesso mentre ripenso alla delusione nella sua voce, alla rabbia che ha provato verso se stesso, non riesco a non pensare che qualche bugia in più vorrei essere capace di dirla. Non tante, non con tutta quella fregatura della pacca sulla spalla e di un abbraccio consolatorio, solo qualcosa.

Un rumore al piano di sotto mi risveglia dai miei pensieri. Porcellana che va in frantumi, un gemito, un suono liquido che non riesco a identificare. Non è tè, non è tè che cade. Cos’è? Non capisco. Passi nell’appartamento di Mrs. Hudson, palesemente non della mia padrona di casa. Maschili. Non John. John lo riconoscerei anche immerso in una sonata di Bach, anche nel mio Mind Palace. Cosa succede? Cosa sta succedendo?

Appoggio il violino sul tavolo e mi appresto a scendere le scale e non dovrei avere paura perché non ci sono motivi per avere paura, ma nei miei passi riconosco un’incertezza che non mi appartiene. Scendo piano i diciassette gradini fino all’appartamento della mia padrona di casa e quando finalmente entro nella sua cucina i miei piedi si scontrano con una consistenza viscosa che non riconosco. Mi chino esitando, non sono capace di orientarmi nell’appartamento di Mrs. Hudson, non ci vengo mai è lei che sale sempre da me eppure riesco a sentire chiaramente che c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo.

Nell’altra stanza percepisco ancora dei passi e vorrei muovermi, vorrei andare a vedere cosa succede, anche se è ridicolo usare questo termine, ma non riesco sono paralizzato.

La porta dell’appartamento si apre sbattendo. Voci, persone che corrono. La sua voce, i suoi passi. Nell’altra stanza i rumori si affievoliscono, i passi si allontanano. Chi è? Da dov’è uscito?

“ Sherlock? Sherlock?” La mia voce blu. John.

Non dico nulla rimango rannicchiato in silenzio. Mi troverà lui, non c’è bisogno che parli. Mi sfioro i piedi con le dita, bagnati. Non di tè, di qualcosa di viscoso. Non ho bisogno di fare domande. Non ho bisogno di urlare, sarebbe così poco da me. Non ho bisogno di chiedere dove sia Mrs. Hudson.

“ Sherlock?” Sempre John.

“ Ispettore venga in cucina!” Lestrade, la sua voce ha una nota di sgomento. Non ho bisogno di chiedere dove sia Mrs. Hudson.

“ Oh cazzo!” John. E poi. “ Sherlock!”

Non dico niente. Non chiedo niente. Non ho bisogno di chiedere. Rimango rannicchiato il silenzio e aspetto che John mi trovi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Solito pippone e blabla: Intanto grazie a chi legge, a chi l’ha messa tra le seguite, a chi la recensisce e insomma a voi =) Giusto perché sono sempre in vena di cibo vi meritereste quantomeno una charlotte al tiramisù, che è sempre comfort. Piccola parentesi sui profumi. In Almost Blue l’olfatto è un senso fortemente presente, così tanto che ci sono diversi odori che si rincorrono per tutto il libro. Ora la sottoscritta non sente alcun tipo di odore, niente di tragico eh mai sentiti quindi non ne sento la mancanza tranne in pasticceria, quindi parlare di profumi e odori non lo so proprio fare, però un riferimento ci tenevo a lasciarlo quindi ho improvvisato. Io con gli odori faccio la stessa cosa che fa Sherlock con i colori, li associo a immagini che non c’entrano nulla. Forse per questo amo tanto Almost blue =)

Uff il finale è stata una mazzata da scrivere. Nel libro è una morte che ci sta, ma è meno sofferta perché il personaggio è meno simpatico.

Il prossimo capitolo, che esiste almeno in parte!, è l’ultimo e un po’ mi mancheranno.

 

 

 

1 Tutto questo monologo di Jim è volutamente senza senso, volevo cercare di rendere l’idea della confusione di una persona che sente le campane.

2 Il posto dove il tassista porta Sherlock in A study in pink. Non avevo tutte queste brillanti idee di luoghi grossi e isolati dove fare un rave a Londra quindi mi sono dovuta arrangiare.

3 How to disappear completely, Radiohead. Mi sembrava azzeccata sia per Sherlock che per Jim. Anche il titolo viene dalla canzone.

  
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