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Autore: Akiram_len    07/05/2013    4 recensioni
Questo è un racconto che parla di un bambino, un bambino non molto fortunato.
Si parla di scelte, scelte difficili che una madre è costretta a prendere, a volte.
Il tema è un po' delicato, per cui se la storia non vi piace, siete liberi di dirmelo, anzi, apprezzerò molto la vostra sincerità.
Comunque sia, spero che vi piaccia, e che trasmetta emozioni, in qualche modo.
Un bacio e buona lettura, Marika :*
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Racconto Okay, è parecchio che non pubblico qualcosa, ma ci tengo molto a questa storia, e vorrei un vostro parere sincero. Ho bisogno di sapere se ho qualche possibilità per vincere un concorso letterario oppure no...

Se vi piace, ditelo! Soprattutto, se non vi piace, GRIDATEMELO!

Ora vi lascio al racconto :)



Quando il cuore non muore


Avete presente la sensazione che si prova quando tutto va finalmente per il verso giusto e la tua vita procede per il meglio? Nemmeno io.
Forse però io sono di parte: del resto, io una vita non l’ho mai avuta. Per fortuna.
Tutto è iniziato quando la mia mamma si è accorta di avermi dentro di lei. Ricordo di averla sentita piangere, e urlare di gioia quando l’ha comunicato al mio papà.
In quel periodo non sapevo bene cosa stesse succedendo. Ero ancora molto piccolo: avevo poche settimane di vita: una protuberanza come testa e degli abbozzi come mani e piedi, ma il mio cuore batteva già velocissimo.
Più passavano i giorni, e più mi sentivo amato, protetto da quella donna che stava prendendosi cura di me. Sguazzavo felice nel liquido che mi circondava, e mentre crescevo e cambiavo ogni giorno sempre più, l’unica costante era la voce della mia mamma. Perché lei mi parlava: ogni volta che poteva farlo, si rivolgeva a me, a volte anche inconsapevolmente.
Ricordo di averla sentita piangere di gioia quando ha percepito per la prima volta il battito del mio cuore, forte e vigoroso. In quel momento avrei tanto voluto dirle sto bene, mamma, visto? Non ti devi preoccupare, farle sentire che c’ero, ma lei ancora non poteva sentirmi.
Ricordo che a un certo punto ho sollevato le palpebre e sono riuscito a vedere. Certo, vedere non è il termine giusto, visto che a mala pena riuscivo a distinguere le mie braccia e le mie gambe. Scoprii anche che non appena avvicinavo il dito alle labbra mi veniva naturale suggerlo.
Ma ricordo anche e soprattutto quel giorno: il giorno in cui tutto cambiò irrimediabilmente.
La mia mamma era molto agitata, si muoveva tanto, sospirava sempre. Era così in ansia che riuscivo quasi a sentire il suo cuore battere fortissimo, quasi quanto il mio, e neanche il mio papà riusciva a calmarla. Forse, inconsciamente, sentiva già che qualcosa non andava.
Ricordo che fu un uomo, un dottore, a dirle di stendersi e stare molto calma, rilassarsi. Ci riuscì, ma solo per qualche minuto.
Anch’io avrei voluto dirle calmati mamma, ci sono io qui con te, ma iniziavo ad aver paura. Paura perché non parlava più nessuno, in quella stanza fredda e asettica: né la mamma, né il papà, neanche il dottore. Quest’ultimo, impegnato a spingere sulla pancia della mia mamma con qualcosa, rimase in silenzio fino a che non pronunciò le parole che mi portarono irrimediabilmente alla morte.
Ricordo di aver sentito un Signora, il feto presenta dei gravi problemi alla testa, probabilmente una lesione o un’emorragia intracranica seguiti da un semplice e banale Mi dispiace.
Sentivo lo sgomento del mio papà, la disperazione della mia mamma. Soprattutto, sentivo che presto sarebbe successo qualcosa che avrebbe cambiato tutto.
Ricordo che i giorni che seguirono le fredde parole di quel dottore la mia mamma pianse tanto, troppo. Il mio papà cercava di confortarla, ma anche lui era molto triste. Lo sentivo ogni volta che, quando la mamma riusciva ad addormentarsi, mi parlava.
Esattamente una settimana dopo, seppi cosa c’era di sbagliato in me: un tumore.
Avevo delle metastasi al cervello diffuse tra la materia grigia e quella bianca, dove il diametro interno dei vasi sanguigni cambia, intrappolando così gli emboli tumorali. Se anche fossi riuscito a sopravvivere quegli ultimi quattro mesi nella pancia della mia mamma, il tumore mi avrebbe impedito di avere una vera vita. Avrei avuto solo due opzioni: se fosse stato benigno, avrei vissuto come un vegetale per tutta la mia vita; se, invece, fosse stato maligno, avrei dovuto iniziare appena nato la chemioterapia, che mi avrebbe portato, in un modo o nell’altro, allo stesso risultato.
Da quel giorno passò un’altra settimana in cui i miei genitori piansero tanto, e parlarono altrettanto. Alla fine, credo presero la decisione migliore per me: morire.
Per decidere della vita di una persona ci vuole molto coraggio, e la mia mamma ne ha avuto tanto. Ha avuto il coraggio di perdermi. Ha avuto il coraggio di sopportare i dolori del parto sapendo che non sarebbero stati ripagati con un vagito, né con un sorriso sdentato, bensì con un piccolo corpo esanime, immobile, morto.
Se ho provato dolore? Certo che l’ho provato, ero vivo, ho sentito le mani del dottore afferrarmi dalla testa, ho sentito la cannula che avrebbe aspirato il mio cervello: ho sentito tutto. Ma non incolperò mai la mia mamma della mia morte, perché lei ha solo fatto ciò che era giusto fare.
Dimenticherò molti momenti delle ultime settimane della mia vita, ma ricorderò per sempre lei.
Ricorderò per sempre te, mamma.
Ricorderò quei momenti solo nostri, in cui tu mi parlavi delle tue emozioni ed io ti rispondevo facendomi sentire; quei momenti in cui mi raccontavi di come avevi conosciuto il mio papà, di come ti eri accorta di amarlo profondamente nonostante foste ancora piccoli, del giorno del vostro matrimonio.
Ricorderò quanto è stato difficile per voi, per te, prendere la decisione di lasciarmi andare.
Ricorderò l’ultima volta che ho sentito la tua voce parlarmi con tono accorato, l’ultima volta che t’ho sentita piangere mentre accarezzavi con venerazione la tua pancia, quasi stessi accarezzando me.
Ciao piccolo, hai detto, sono la tua mamma. Tra poco non sarai più dentro me, e non posso fare a meno di domandarmi se sto facendo davvero la cosa giusta. Sei così piccolo e indifeso… Avrei voluto darti un nome, tenerti in braccio, accudirti, portarti a scuola e poi al parco, vederti crescere giorno dopo giorno. Purtroppo però il destino è stato crudele con te, e si sa, la morte non guarda in faccia a nessuno, neanche ad un bambino piccolo come te. Sì, perché tu non sei un feto, ma un bambino, il mio bambino. Lo sei da quando ho scoperto di averti dentro, se non da prima. Lo sei e lo resterai per sempre. Nonostante il poco tempo che ci è stato concesso ti terrò nel mio cuore per l‘eternità, perché ti voglio bene con tutta l’anima. Non dimenticarlo mai, amore mio.
Ricorderò le tue parole, le ricorderò mentre ti osserverò dall’alto riprendere in mano le redini della tua vita, cercare di andare avanti con un peso sul cuore.
E spero che un giorno non molto lontano tu possa donare quell’amore incondizionato ad un altro figlio più fortunato di me.
Spesso mi soffermo a pensare a cosa sarebbe stato di me se tu avessi scelto di tenermi: forse sarei morto prima della fine dei nove mesi, o forse sarei sopravvissuto per vivere una non-vita, chi lo sa.
Non torturarti, non assecondare i tuoi sensi di colpa, perché hai fatto la scelta migliore, la scelta più giusta che una mamma possa fare per il proprio figlio.
Sto bene adesso, più di quanto tu possa pensare.
Posso correre, giocare, amare.
Posso, finalmente, vivere.





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Marika
  
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