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Autore: Mattotoro    09/05/2013    2 recensioni
Il governo ritiene che alcuni cittadini abbiano bisogno di una "rieducazione", quindi li manda su dei treni della metropolitana e li fa girare l'Europa, senza che nessuno sia al corrente di dove quel viaggio porti o quando esso avrà fine. La cosa peggiore di essere su quei treni puliti ed ordinati non era tanto il soggiorno, quanto il viaggio. Il viaggio che sembra infinito, nessuno sa cosa bisogna aspettarsi. Si parla di uccisioni, di torture, qualcuno addirittura sostiene che sia solo una farsa e che non accadrà niente alle persone coinvolte. Ma soprattutto, quel che fa più male è la lontananza dalla persona amata. La protagonista di questa storia non vedrà la persona che ama per quattordici mesi.
Datele un'occhiata, anche solo per curiosità, e se vi è piaciuta, sarei felice di leggere i vostri commenti.
Mi sono ispirata ad un sogno che ho fatto e ho volutamente omesso qualsiasi nominativo, perché mi piace l'idea che chiunque possa riconoscersi nella mia creatura.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Treni.

 

 

Faceva freddo. In quei quattroci mesi in quel posto, quella era la notte più fredda che potessi ricordare.
Il vagone del treno sul quale mi trovavo era pieno. Gremito di gente a me sconosciuta che tossiva e sussultava ad ogni mio urlo; qualche madre premurosa copriva occhi e orecchie alla sua prole.
Il dolore mi accecava, straziante. Non ricordo nulla o quasi, di quei due giorni. Né le facce né gli odori. Solo il freddo e le voci delle donne che mi stavano attorno.
Mi urlavano di spingere, di non aver paura. Ma io paura ne avevo. E urlavo con loro, ma più forte, perché faceva male. Ero stordita e sapevo solo assecondare il mio corpo che aveva preso vita propria e non obbediva più a me.  Cercavo le sue mani, questo lo ricordo. Ceravo le sue mani disperatamente, toccando il pavimento gelido più e più volte, come se solo quelle avessero potuto fermare quella tortura; ma quel briciolo di raziocinio che mi era rimasto sapeva che non le avrei trovate, che avrei potuto scavare con le unghie fino a farmi cadere le dita, ma non le avrei trovate. E non riuscii a sopportarlo. Credevo di star morendo, quella solitudine e quel dolore mi stavano uccidendo. Lo sentivo nelle ossa, nei muscoli contratti e lacerati, nel sangue che perdevo spinta dopo spinta. L'ultima cosa che ricordo è un pianto, poi il buio.
 
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Mi svegliai due giorni dopo. Ero stesa ancora nello stesso punto, ma avevo un lenzuolo sotto il mio corpo e qualcuno mi aveva messo addosso delle coperte. Non riuscivo ad aprire la bocca, tanto era secca.  Avevo un dolore acuto fra le gambe, ma decisamente più sopportabile di quello provato due notti prima. Non ero sola. Il vagone era ancora fermo e le gente parlottava, senza accorgersi di me. Chiesi dell'acqua. Non mi sentì nessuno. Chiesi ancora e un bambino di circa quattro anni mi guardò incuriosito ed io ripetei « Acqua » . Lui allora annuì con vigore e corse a chiamare la mamma, che mi raggiunse subito. Era tutto abbastanza sfocato.
 
 
Vidi una donna di circa quarantacinque anni con le guance infossate e le labbra sottili che mi sorrise e mi sollevò la testa per farmi bere. Mandai giù due bicchieri interi e sembrava avessi ripreso un po' di forze. La donna mi sorrise e mi chiese se la volessi vedere. Io annuii, emozionata. Andò via ed il mio cuore iniziò a battere veloce, quasi come a scandire quei secondi. Tornò poco dopo con uno scialle marrone e rosso fra le braccia. S'inginocchiò e me la fece vedere. Era molto piccola, quasi non credevo che un essere umano potesse essere così minuto. Era rossa, con pochissimi capelli sulla testa, un nasino piccolo. Iniziai a piangere, a singhiozzare non appena la vidi. Gli somigliava tanto, soprattutto nella forma della bocca ed il colore degli occhi, scuri. Evidentemente dovetti averla spaventata, perché iniziò a piangere anche lei e la donna la strinse a sé e si alzò, cullandola. Chiamò un'altra donna, un po' più giovane, e le chiese di farmi mangiare, ma io non volevo. Non ce la facevo e lei si arrese e poi si allontanò. Continuavo a piangere ed il trenò partì, con la sopresa di tutti. Sentivo dei mormorii e piansi ancora più forte. Ancora più lontani.
Ci misi qualche ora a calmarmi, cullata dai movimenti del treno che si era fermato già tante volte. Nel frattempo, ricordavo la stazione della metropolitana di Londra. Eravamo soli, io e lui. Correvamo. Sapevamo perfettamente che ci stavano cercando, che avevamo firmato la nostra condanna entrando in stazione. Ma nonostante ciò, non riuscivamo a smettere di correre furiosamente. Sapevo che ci avrebbero uccisi. E preferivo morire subito, piuttosto che implorare di mettere fine alle mie sofferenze. Glielo urlai. Se avessimo scavalcato un'inferriata, ci saremmo ritrovati direttamente su un piccolo ponte sul Tamigi. Saremmo morti subito. Insieme. Ma lui non volle saperne. Urlò di rimando, completamente sudato e la paura negli occhi scuri. Disse che non potevamo morire perché lui era un dio ed io un'idea. Poteva sembrare un discorso da folli, ma io sapevo che voleva dire. Un dio è là. Qualcuno ci crede, qualcuno no. Qualcuno vuole crederci, altri non vogliono saperne. Qualcuno se lo ricorda, lo teme. Altri no. Ma lui è sempre lì, eternamente lì. Ed un'idea, beh, un'idea non muore mai. Non feci in tempo a rispondere che mi sentii tirare per i capelli e caddi. Ci avevano presi. Eravamo finiti. Sentivo il cuore pulsare nelle tempie, nelle orbite, nella gola, nel petto, i polsi, addirittura le caviglie. Mi strattonarono verso un treno della stazione, il numero 40. Portarono lui verso il 37. Quella fu l'ultima volta che lo vidi, otto mesi prima. 
Tutta la storia si sviluppò in meno di tre anni. Io e lui frequentavamo ancora la scuola, quando la regina morì e salì al trono suo figlio. Tutti nutrivano grandi aspettative nei suoi confronti, ma forse nessuno aveva davvero sospettato che fosse un folle. O, più probabilmente, chi aveva dato voce ai suoi pensieri aveva trovato subito una mano coperta con un panno imbevuto di una qualche sostanza asfissiante a farla tacere. Il re decise che alcuni dei cittadini inglesi avevano bisogno di una rieducazione, testuali parole. A distanza di tre anni, non si era ancora riusciti a capire con che criterio le persone venissero portate alla stazione e messe nei treni.  I vagoni erano puliti ed ordinati, avevamo scorte illimitate di cibo e acqua e anche qualche kit di primo soccorso. Il bagno in comune, vestiti una volta al mese e una doccia solo ai termini di corsa.  C'era una puzza tremenda.
Ero lì in terra a respirare, riflettendo. Mi avevano disinfettato la ferita, c'era qualche dottore lì in mezzo. Eravamo lontani, chissà quanto. Da pochi giorni avevamo passato la Manica, probabilmente eravamo in Germania. Non avevo idea di dove potesse essere lui. Se ancora in Inghilterra o in un altro Paese. Se vivo, se morto. Nulla. Mentre pensavo, una voce femminile registrata parlò. « Informiamo i signori passeggeri che il treno sta per fermarsi alla stazione di Lipsia. La compagnia vi augura buon viaggio ».  Sospirai. Provai ad alzarmi, ma una fitta mi colpì e cambiai idea. Tornai stesa ed iniziare a chiamare qualcuno per attirare l'attenzione. Mi si avvicinò un uomo con dei baffi bianchi e folti e mi chiese come poteva aiutarmi. Gli dissi che volevo vedere mia figlia. Lui mi guardò, accarezzandosi i baffi e mi disse di aspettare un minuto. Poco dopo, la donna tornò. Un po' diffidente, temeva potessi piangere di nuovo. Le sorrisi a mezza bocca e lei me la mise fra le braccia. La guardai ed era bellissima. La bambina più bella che avessi mai visto. Si mise a piangere ed io mi misi a sedere, con enorme fatica e mi aprii la camicia per allattarla. Faceva un po' male, perché succhiava parecchio, ma aveva ragione: erano due giorni che non mangiava. Aveva un pannolino ed un fazzoletto di cotone sull'ombelico. La prima poppata durò circa un quarto d'ora; ero emozionata, ma quel momento non era creato per essere vissuto da sola. Me la misi sulla spalla e le diedi dei colpetti sulla schiena, poi si addormentò. La guardai. Dovevamo andare via da lì.
 
 
 
Mi alzai dopo un po' di tempo e mi diressi verso il capotreno. Se accadeva qualcosa, dovevamo riferirlo a lui. Bussai alla porta e aspettai che mi rispondesse. Entrai e mi schiarii la voce, poi dissi che avevo partorito due giorni prima. L'uomo, piuttosto grosso, biondo, non mi guardò. Iniziava a fare certe manovre per fermare il treno alla stazione di Lipsia. Mi disse solo che avrebbero provveduto. Poi mi fece dare i miei dati anagrafici e andai di nuovo dentro. Aspettai un paio di minuti e il treno si fermò e dovevamo scendere anche noi. Una grande affluenza di gente, come tutte le volte. I passeggeri veri, quelli che pendevano i treni normali,  in giacca e cravatta, ci guardavano distanti, quasi ignorandoci, fingendo di non sapere nella nostra esistenza. Vivevo quella routine da già otto mesi e l'avrei vissuta ancora per sei.  
Quella notte non dormii. Presi posto, le luci erano spente e dormivano tutti o quasi. Anche la mia bambina. Rimasi l'intera notte a guardarla dormire. Mi sentivo un po' in colpa nei suoi confronti, perché non potei godermi la notizia del suo arrivo con serenità, come avrebbe dovuto essere. Ero stata agitata tutto il tempo e volevo che il momento del parto fosse posticipato il più possibile. Davvero non riuscii a godermela, l'attesa. Era stato tutto un prendere atto di essere incinta e poi partorire. Non ho mai sentito quelle farfalle nello stomaco, quell'emozione tipica. Dio, no. Io avevo solamente una gran paura. E mi sentivo tremendamente sola senza di lui, che non sapeva nemmeno cosa mi stesse accadendo. Per un po' temei di non riuscire nemmeno a riconoscerlo, tanto tempo era passato, nella mia testa. Però lei gli somigliava tanto. Gli occhi cioccolato, la bocca carnosa, il mento piccolo e il sorriso dolce. Sembrava gli somigliasse anche nella forma delle dita. Poi notai il suo naso, piccino e simile al mio, le orecchie, le guance che erano mie. Mi rendevano felice tutte quelle piccolezze. Solo i capelli erano un mistero, per me, ma non m'importava poi tanto, perché era davvero bella e mia. Non l'avrei mai lasciata.
Prendemmo diversi altri treni. I vari capotreno mi diedero dei vestiti per lei e dei pannolini, tutto quel che le serviva, anche della frutta, se c'era un capotreno abbastanza buono. Non le avevo dato nemmeno un nome. Ero completamente intorpidita, apatica. Tutto quel che volevo era che quell'incubo, quell'attesa finissero. In quei sei mesi avevamo attraversato l'intera Germania, poi l'Austria, la Polonia. In quei sei mesi, un'idea si faceva largo dentro di me. Lui era morto. Non volevo accettarlo. Mi costringevo a credere che anche lui fosse ancora vivo, come me e ci stesse aspettando. Mi aggrappavo a quell'unica speranza, nonostante sapessi che in realtà mi stavo arrendendo. 
Passammo per Mosca. Scendemmo dal treno e la bambina aveva freddo, quindi la strinsi di più a me. Non potevo sedermi da nessuna parte, le panchine erano coperte di giaccio. Cominciai a girare per la stazione e a strofinare lo scialle marrone e rosso sulla pelle della mia piccola, per evitare di morire assiderate entrambe. Continuai a camminare, aspettando il treno, finché non andai a sbattere contro un ragazzo, poco più che trentenne. Aveva la divisa militare, di un bel blu notte, gli donava. Chiesi scusa e continuai ad andare avanti, ma quello mi prese per una spalla e mi fece girare. Avevo paura, davvero. Mi guardava a disagio, inghiottì un po' di saliva e poi mi guardò la guancia destra. Ho un neo sotto l'occhio.  Si avvicinò di molto al mio orecchio ed io tremavo. Mi sussurrò tre parole. Tre parole che cambiarono completamente la mia vita: « È vivo. Stoccolma ». Strabuzzai gli occhi, sconvolta. Un misto di emozioni che mi sconvolgevano. Mi sentii cosciente dopo mesi. Non feci in tempo a dire niente, perché lui andò via e il capotreno fischiò. Eravamo diretti in Finlandia. Vicini. Guardai la bambina, che aveva un bel sorrisino contento sulla bocca. Aveva capito anche lei. Andammo in treno ed io l'allattai. Ero divisa. Da una parte avevo paura: non sapevo ancora quale fosse il capolinea di quel viaggio infinito. Tanta gente era partita con me e tanta altra non era lì, nel mio stesso treno. Ad ogni fermata, degli addetti ci dividevano. Ci chiamavano per nome e chi non veniva chiamato poteva salire sul treno. Non avevamo alcuna notizia. Però, ero felice. Era vivo. Ed era a Stoccolma. Non avevo idea di come fare, di come ci saremmo incontrati, cosa avrei trovato, se avessimo dovuto scappare. L'avevo sognato ogni notte il suo viso ed i suoi occhi, la sua bocca. Ero felice.
 
 
Dopo qualche giorno arrivammo a Savolinna, sud della Finlandia. Termine di corsa. Portai la bambina con me, mentre ci conducevano all'interno della stazione per fare una doccia. Ci diedero dei vestiti e della biancheria nuova e potei lavare anche la piccola. Ora aveva i capelli più lunghi e rossi, somigliava davvero molto a entrambi. Mi ricordavo i miei capelli lunghi, quelli di quando fui strattonata verso il primo treno. Una settimana dopo che salii, presi un coltello e li tagliai molto corti e continuai a tagliarli ogni mese. Il giorno che arrivammo a Savolinna sarebbe stato il giorno del taglio, ma non feci nulla. Aspettai. 
Contai i giorni, prima di arrivare a Stoccolma. Esattamente 37.  Il cuore mi batteva veloce, forte. Ero agitata. La voce parlò. 
« Informiamo i signori passeggeri che il trenos ta per fermarsi alla stazione di Stoccolma. La compagnia vi augura buon viaggio » . Il capotreno fischiò. Non dovevamo scendere. Temevo di svenire. Tenevo la bambina stretta a me, dormiva. Aveva mangiato da poco.  Mi avvicinai alle porte, senza farmi notare da nessuno. Scesi con molta cautela, quasi invisibile. La stazione era deserta, probabilmente a causa dell'ora tarda. Mi nascosi dietro la biglietteria, completamente vuota. Mi bruciavano i polmoni, ero un fascio di nervi tesi. Iniziai a temere che mi trovassero, non respiravo. Il treno fischiò ed andò via. Riuscii a rilassarmi un secondo e recuperai tutta l'aria persa.  Era tutto deserto. Lui non c'era. Iniziai a piangere. Cosa mi aspettavo di trovare? Come avevo potuto essere tanto stupida? Girovagai per l'intera stazione senza trovare nessuno. Mi sentii un'irresponsabile, un'idiota. Non ci potevao credere. Non appena si sarebbero accorti della mia assenza, mi avrebbero cercata e uccisa. E con me mia figlia. La strinsi stretta a me e d'improvviso sentii un'altra stretta alle mie spalle e qualcuno che mi copriva la bocca. Mi agitai ed il cuore minacciava di esplodermi in petto. Tentai di liberarmi, mi avevano trovata. Sentii la sua voce sussurrarmi di stare buona, altrimenti ci avrebbero uccisi. La sua voce. Era lui. Lo sapevo. Lo riconoscevo. Non avrei mai potuto sbagliare. Mi girai di scatto e lo vidi. I capelli lunghi, la barba appena rasata e gli occhi scuri. Una doccia ghiacciata. Lo fissai per un'eternità. Tutto nel mondo aveva trovato il suo posto. Era con me. Era con noi. Eravamo vicini, tanto vicini. Sembrava un sogno, ma il cuore che mi pulsava nelle tempie era vero. Il suo respiro accellerato era vero. Le nostre lacrime e le nostre labbra erano vere. Era tutto vero. Stava per abbracciarmi forte quando vide la bambina. Si guardarono stupiti entrambi. Mi chiese chi fosse quella piccina e lei rispose per me: quando sentì la sua voce, rise. E anche lui capì, o almeno credo avesse capito. Era shockato. Quattordici mesi prima mi lasciò senza sapere di star per diventare padre e poi mi ritrovò con una bimba rossa con i suoi occhi e le sue labbra, che rideva proprio come lui. Scosse forte la testa, come a voler svegliarsi;  mi baciò e mi prese la mano. Corremmo verso un rifugio, nella periferia della città. Lì con noi c'erano altri cinquanta clandestini. Non dovemmo aspettare molto prima che su tutte le televisioni mondiali passasse la notizia dell'attacco di Stato al re. Lui morì, il 17 dicembre ed il 18, tutti i treni furono fermati. Solo dopo sapemmo delle torture psicologiche che i prigioneri che arrivavano al capolinea, in Norvegia, dovevano subire. Nessuno veniva ucciso. Torturato e poi rimandato in patria, terrorizzato e con istinti suicidi. Molti si tolsero la vita. Successivamente, si scoprì che chiunque avesse avuto casi di infrazione della legge nella propria famiglia, veniva portato lì e "rieducato".  Furono quattordici mesi che sono felice di aver sofferto, perché se non fosse stato così, non avrei mai realizzato cosa sia la vera felicità. 
 
 
Demmo un nome alla nostra bambina. La guardammo crescere felice e bella. Sempre con gli stessi occhi e le stesse labbra, sempre bella. Ritrovare chi ami al tuo fianco, ogni volta che volti lo sguardo è una felicità di cui mi stupisco ancora oggi, più vicina alla morte che ad altro qual sono. Sospiro ancora ogni volta.
   
 
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