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Autore: Lalani    29/11/2007    2 recensioni
"Ho fatto uno strano sogno, dottore" dissi stringendo L'orsacchiotto James "qualcuno mi stava salutando, e sono sicura che era mio padre. Era come se mi volesse dire arrivederci". Addio. Tributo a Suman e alla piccola Jamie, padre e figlia, uniti, dall'amore, nella morte e nella vita. Buona lettura!
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Teddy-bear


Mia madre mi raccontava che quando era piccola non aveva giocattoli. Solo stoffe umide, pallidi riflessi di bambole dalla pelle di latte, a cui affidare i propri sogni nella acerba notte di Natale, infangate mentre nei pomeriggi primaverili le bimbe dei ricchi correvano con le trecce al vento e le guance di mela, strappate come trappole per gli sporchi topi che erano le loro mani fragili, pallide negli autunni vanitosi e voluminosi, ricchi di abiti da sera che sfavillavano sulle strade plebee.
Il mio primo orsacchiotto me l’ ha cucito papà. Bobo, l’orsacchiotto di nuvole.
“Per la mia principessa sono salito fino alle nuvole, fino al cielo!” diceva con la sua voce roca e gli occhi umidi di dolcezza e malattia, zucchero e sale, maneggiando la lana soffice simile a cirro celeste, mentre io, nel cesto volgarmente adibito a culla, senza ancora saper ridere o sognare, gorgogliavo con le manine tese verso quel volto famigliare, sfuocato come latte nel tè.
E lui mi abbracciava forte, mentre la sua barba ruvida mi pungeva la guancia, come un giocoso porcospino.
Questo me lo ricordo bene, senza che la mamma me lo debba ricordare.
Eppure pare talmente appannato, come nebbia all’aurora, simile a sogno, a speranza fasulla.
E con Bobo, colorato alle sfumature dispettose di caramello, con i punti dell’ago lungo le guance, il naso a bottone e gli occhi di carbone, imparai a camminare dal letto al comodino storto, scavalcai l’erba smeraldina per guardare i gatti che si abbronzavano come frivole donne grassocce nella spiaggia opaca, volteggiai con la grazia di un uccellino nel suo primo e pauroso volo, crogiolandomi nel vestitino celeste come il cielo che aveva cucito la mamma, come un cielo selvaggio senza notte, l’orsacchiotto adibito a curioso pipistrello.
“Insieme, Bobo” gli dissi una notte stringendogli la zampa, uno dei miei primi pensieri logici, nel tepore infantile “possiamo andare dappertutto”.
D a p p e r t u t t o.

Quando avevo sei anni, mentre andavo a prendere il latte lasciato sul marciapiede come un avventato passante, inciampai e caddi, nel mio grembiule corto e imbiancato di farina, sbucciandomi il ginocchio e sporcando l’orsacchiotto Honey, dal fiore tra il pelo artificiale, dagli occhi di corteccia selvaggia, dal cuore acerbo e dolce, come latte materno dopo l’apnea della gravidanza. Alla vista del sangue carminio, come petali di rosa, scoppiai a piangere, di un lamento acuto e fievole, come un agnellino dalle gambine anoressiche, come il vagito di un lattante, come il rantolo di un giovane morto.
Mio madre sbucò dalla finestra come un infarinato uccello a cucù, e nonostante la mole facilmente paragonabile a un fragile mi alto di un piano scordato, ruggì rimproverandomi di aver lasciato cadere la colazione, indicando il lago di latte che straripava sui gradini e minacciava di macchiare le scarpette, comprate dopo lo stipendio di lunghe settimane di lavoro, e Honey che gemeva come signorinella senza collane, abbandonata su quell’apatico grigio, noioso come mare addormentato, tipico di Londra.
Mio padre invece indirizzò alla mamma uno sguardo innamorato( la colomba che faceva l’occhiolino alla belva) e poi mi alzò con un gesto fluido, intimandomi che c’era un motivo per cui non si doveva piangere sul latte versato.
Riuscì a strappare un sorriso persino a mia madre.
“Ora ti porto dal dottore” disse scrutando con apprensione la ferita che si allargava e che in caso di infezione, poteva risultare pericolosa nei primi giorni d’inverno, che con quel suo bastone di legno intarsiato dalla fantasia della natura, prima elemosinava cibo durante l’estate e quando arrivava il suo turno, col sorriso simile a coltello, ghiacciava le palpebre sottili degli umani.
Io alzai gli occhi in una muta domanda, mentre mio padre rideva della mia incredulità.
“Non ti preoccupare, principessa, i dottori sanno curare tutto: hanno sempre ragione” disse con la sua voce intensa e velata di ammirazione per persone colte che salvavano delle vite.
Mio padre era come un cavaliere. Scommettevo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare le persone bisognose, i bambini senza latte, le madri con ciocche tra le dita, bimbe come me senza orsacchiotti da coccolare..
Il dottore era simpatico, con dei folti baffi come la scopa che usava la mamma: sarebbe stato divertente se il manico si fosse preso qualche giorno di riposo e per le pulizie avessimo usato il dottore.
Mi ripulì la ferita e mi regalò una caramella rossa come i tramonti liquefatti nel mare, scherzando con mio padre che avrebbe preferito farmi fare una puntura contro le centinaia di malattie che avrei potuto prendere.
Quella sera stessa mio papà ricucì, come abile pianista, la faccia di Honey, screziata di latte, sommersa di fango sul marciapiede plebeo, senza il suo bel fiore da regina, un occhio cieco come scoiattolo nascosto alla morte invernale, bianca e amorfa, ma dopo qualche punto, rinsavita come incredula primavera.
“Hai ragione papà, i medici sanno curare tutto” esclamai estatica , abbracciando Honey che si pavoneggiava guarita e senza ombre di lacrime, sulla mia spalla vellutata “e tu sei il mio cavaliere”continuai abbracciandolo e sfregando la mia guancia pescosa contro la sua di metallo.
Papà sorrise, con una smorfia gioiosa, mai scoperta, sempre tirata come corda di cappio, scintillante nella sua malinconia, pesante nelle rimembranze della nostra modesta povertà, condannata ad uno strato di apatia come panna su fragole marce, a mostrare la sua incompleta felicità, come natura morta.
Quella sera, abbracciata dalla fredda luce delle stelle, ringraziai come sempre il Signore che mi avesse aiutata a guarire.
“I dottori sanno proprio curare tutto” pensai prima di sprofondare nella notte sonnolenta.
“Scommetto che troveremo un dottore capace di curare anche il tuo braccio, papà” dissi con convinzione un anno dopo, scrutando la tonalità pece dell’arto di mio padre.

“Non andare, papà!”
Stretta nel mio grembiule d’albicocca e nei miei stivaletti dai mille lacci, attraversai la stradina, zigzagando tra le pozzanghere come un cerbiatto tra le tagliole. Dovetti rallentare dopo una fitta  alla testa, come se gigantesche mani mi strizzassero mente e polmoni, i miei arti in fiamme.
In quei giorni credevo di avere offeso Dio per la mia negligenza in cucina accanto alla sempre più scontenta madre, altrimenti non mi sarei potuta spiegare la malattia che scavava nel mio corpo, simile ad aratro rabbioso che sollevava il terreno per costruire tombe di vita.
I medici potevano sapere tutto, ma nei loro occhi avidi non vedevo carminie ferite rimarginate, ma tintinnanti soldini dorati, come cioccolatini incartati di sole, che ipnotizzavano occhi e cuore.
Ed era per questi avari cioccolatini che mio padre, con una lunga divisa nera trapuntata di stelle argentate, stava salendo su una grande carrozza d'inchiostro, come nella storia di Cenerentola, incisa nelle pagine giallastre che leggeva la mamma, sillabando ogni parola come se fosse un limone particolarmente acido, gli occhi a spremersi come agrumi, simbolo del suo fioco analfabetismo.
Ma, io lo sapevo già, lo sentivo come un ago a minacciare un' iride cieca, che, anche dopo la mezzanotte, papà non sarebbe tornato. Non avrebbe smesso di ballare la macabra e crudele danza che è la vita.
Mio padre(Suman) si voltò velocemente, come per sbaglio, gli occhi umidi e fiochi come una lanterna che si lagna della luce che è diventata prima ballerina al posto suo, come un inverno ucciso sadicamente dal vanitoso calore primaverile,il mento ispido che mi graffiava la guancia rivolto al cielo, come muta preghiera, come un martire incatenato che sfida il suo seviziatore.
Rivolse un breve sorriso, sporcato di smorfia, a me e all’orsacchiotto James, accoccolato, come cucito, sulle mie dita magre.
Poi( Suman) papà scivolò nella notte, come bambino dispettoso, ingoiata dalle fauci notturne e dai suoi incubi dolciastri.
Le lacrime scivolarono sulle mie guance lisce e su quelle ruvide di James. E, guardandolo nel suo perenne e immortale sorriso, cucito con filo incandescente, riuscii a scorgervi un velo di malinconia.
Rientrai in casa trascinando le scarpette di vernice opaca come brezza tra vita e morte lungo la cucina, tra le note scordate e sgraziate, come cigno adirato, della madre, priva di cuore e lacrime.
Ritrovai Bobo,l’orsacchiotto di nuvole sepolto nell’armadio senza un fiore, un nome inciso solo in memorie scarne, dalle zampe senza colori e dita per attorcigliarsi alla vita,  il petto sgorgante di cirri( di sangue).
E capii che non potevo attraversare la vita o la malattia. Non potevo andare dappertutto.
Il mio piccolo mondo era stato spezzato.
Suman.
Papà.
Umido sulle mie guance.

“Ho fatto uno strano sogno, dottore”.
La mia voce, reduce di sgradevoli medicine e febbre come incendi in cimiteri secchi, raschiò contro la mia gola ed espose i miei dubbi con la debolezza del primo fiocco a voler ricoprire tutta la valle.
“Di cosa si tratta?” mi chiese sinceramente interessato un anziano uomo dagli occhi pallidi e le dita fruscianti nell’aria, a sistemarsi i capelli radi, come pesci guizzanti, sul capo.
Strinsi James con forza, mentre rischiò di impiccarsi col fiocchettino blu che gli avevo appioppato.
“Qualcuno mi stava salutando” rammentai con le dita sotto il mento, gli occhi increspati come onde “non l’ho visto in volto, ma sono sicura che si trattava di mio padre. Il suo braccio era guarito e sembrava che volesse dirmi arrivederci”.
Addio.
Il medico mi sorride candidamente, come i petali di fiori che pattinano in aria prima della nuda terra, nel loro umile canto del cigno.
Mi mancava, mio padre( Suman): non facevo che narrare dei suoi occhi umidi, dei suoi gesti forti e decisi, della sua guancia pungente e del fatto che fosse andato a fare il cavaliere, come mi sussurrava la mamma, in una fiaba senza lieto fine, in un dolore senza cura.
Era andato ad aiutare i poveri, a bagnare di amore gli occhi secchi di bambini ammalati, a salvare anime in pena in castelli stregati da mostri sputafuoco, a suonare per donne senza amore melodie di speranza.
E aveva abbandonato la mamma. E aveva abbandonato me.
Durante la mia malattia, strana ape, arguto bambino che brucia formiche, velo di nebbia a coprire con la mano smaltata la magia del tramonto, gatto giocoso, a nascondere le sue vittime in buchi senza bara, le lettere umide e tremolanti di mio padre erano sprazzi di luce fioca, ricordi dolorosi, morse al cuore, gesti dimenticati, sempre accompagnate da tanti cioccolatini scintillanti che i dottori facevano roteare tra le dite, come le anime fra le mani della Parca.
“Questo significa” sussurrai come ad intonare un requiem, un sorriso ad allargarsi fiocamente sul mio volto “che ora è guarito, ha trovato un medico miracoloso!
Dovunque egli sia, sta bene ed è felice”.
Dovunque egli sia.
Mi ristesi  sul letto, esausta, come velluto da sposa, vergine d’amore prima dell’altare.
Umido nei miei occhi, a scrutare l’alba lontana.
“Un giorno, purtroppo non molto lontano” pensai con la mano sul mio cuore lattante e già dolorante, mentre il medico mi accarezzava teneramente la guancia, come faceva con la sua bambina sana e dai vestitini scintillanti “ci rivedremo, papà”.
Dopo aver ingurgitato malamente un fluido nero volgarmente chiamato medicina che mi arse i polmoni e scivolò nel mio stomaco sensibile, strinsi l’ultimo( ultimo) regalo di papà, Bobo2.
Un orsetto scuro, molto simile a Bobo1, decapitato dopo essere rimasto muto e sordo e cieco alle mie lacrime e alle mie sofferenze, alle mie preghiere di condurmi in ogni luogo( da mio papà).
Strinsi il nuovo orsacchiotto, già striato dalle mie lacrime.
Bobo2 ha una farfalla cucita sopra l’orecchio.






Nota1= salve a tutte, questa è la mia primissima fic su D Gray-Man!(Lala evita un pomodoro) e anche la prima postata nel mio secondo nick( l’altro mio nick è Mikoto).
Non è granché e non centra molto con la trama, ma volevo rendere onore a Suman e alla piccola Jaime.(si scrive così??? o_O). Ho usato l'orsacchiotto per rendere il mondo di Jamie ancora più candicdo e , alla fine, più sconvolto e turbato.

Nota2= ho cercato di descrivere la vita di Suman secondo il punto di vista infantile e adorante della figlia, disperata della sua partenza, inconsapevole della guerra tra demoni e esorcisti, impotente in un mondo freddo e diabolico. In un mondo intervallato dalla guerra, un padre voleva solo  rivedere la sua bambina. E non ci è riuscito.

Nota3= quando parlo del braccio color pece intendo l’innocence di Suman!!E la farfalla alla fine è il simbolo di Tyki....

Nota4= accetto critiche, commenti e consigli di ogni genere!!

Grazie per la vostra attenzione!
Lala-san
  
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