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Autore: _maya96_    11/05/2013    0 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-Eternal Promise-

 

-Promessa Eterna-

 
 
 

 If you’re still bleeding you’re the lucky ones
‘Cause most of my feelings, they are dead and they are gone.
Setting fire to my insides for fun
Collecting names of the lovers that went wrong.
 
Se sanguini ancora sei fortunata
Perché molti dei miei sentimenti, sono morti e se ne sono andati.
Do fuoco a ciò che ho dentro solo per divertimento
Collezionando i nomi delle persone che ho amato e con cui è finita male.
(Daughter –Youth-)

 
 
 
 
L’inizio e la fine sono due momenti connessi l’uno con l’altro.
Si uniscono. Si legano indistintamente come anelli in una collana. Come il passare del giorni che si sussegue indulgente, riverendo sommessi come cani il tempo plumbeo, mentre questo attende impalpabile il suo ignoto destino.
Mare e cielo. Notte e giorno. Luce e buio.
Non li distinguevo. Non ci riuscivo. Non più.
Forse niente aveva più un limite. Forse niente aveva più uno scopo. Mi chiesi se tutto questo potesse avere un fine. Perché non riuscivo a trovarlo. Non riuscivo a vederlo. Ma se le nostre vite ne sono prive, allora, quale può essere il nostro significato.
Avevo sempre pensato che la vita fosse come un gioco. Bisognava mettersi alla prova per vincere. Bisognava mettere in discussione ogni singola cosa. Ogni promessa. Ogni certezza. Ogni ricordo. Tutto quanto.
Ma quando non si ha nulla non si ha nulla da perdere.
Forse è questo che ci caratterizza. Forse è questo che ci differenzia. Che sancisce minuziosamente chi è una persona e chi è un’altra.
Un uomo si discerna da un altro in base a quello che rischia di perdere.
Questo determina la sua forza. Questo determina il suo valore e il suo coraggio. Ogni minima scelta. Ogni minima decisione che prendiamo in ogni istante della nostra esistenza è capace di determinare ciò che siamo realmente.
Ma nonostante tutto in quel momento non riuscivo a capire cosa potessi essere io.
Forse non ero semplicemente nulla. Non potevo esserlo. Perché tutto quello che stava accadendo non poteva essere vero. Non doveva essere reale.
Quando si inizia una cosa il più delle volte non si sa come andrà a finire. Passiamo tutta la vita a preoccuparci di ciò che accadrà. Di come si evolveranno gli eventi. Di come si pianificherà il nostro futuro. Come se potessimo vederlo in questo momento. Come se davvero riuscissimo a prevederlo. Come se tutto questo potesse in qualche modo attutire i colpi e ci facesse sentire sicuri. Importanti.
Ma niente è sicuro nella vita. Niente è delineato da un’opaca certezza. Il futuro può cambiare. Deve cambiare. Altrimenti sarebbe solo una continuazione del presente.
Il futuro può far paura. Può essere solo una folle speranza. Ma alla fine di tutto, quando esso si rivela, non è mai come l’avevamo immaginato.
Anche se tutto questo in qualche modo avrei potuto prevederlo.
Si dice che ogni creatura sulla Terra quando muore è sola. Che il corpo è la tomba dell’anima e che quando quest’ultima si discerna da esso nessuno riesce a percepire cosa accade realmente. Nessuno possiede quell’udito così raro tra il popolo degli indifferenti, egoisti, superficiali comuni mortali.
Ma se invece fosse diverso? Se ci fosse qualcosa di più complesso e intricato di quelle semplici parole? Se ci fosse qualcos’altro che nessuno di noi ha il potere di concepire?
Non ho mai creduto in Dio. Non credo di averlo mai fatto. Non credo come le persone vogliano andare in Paradiso se hanno tutti paura di morire.
Come fai ad avere paura di qualcosa che non hai mai visto? Come puoi aver timore di ciò che accadrà e non di quello che avviene nel presente?
Il futuro è ignoto, volubile, imprevedibile. Non si ha tempo neanche di realizzarlo che già è diventato passato. Perché temerlo? Perché sfuggirgli? E se anche ci fosse un’entità superiore a tutto questo, allora, perché non avere desiderio di incontrarla?
Ma credo comunque che coloro che sono amati, alla fine, non saranno mai soli.
Forse l’amore è un sentimento contro natura. Forse è solo un pregiudizio. Forse si ama semplicemente ciò di cui si ha bisogno. Come se il nostro io prevalesse sull’altro. Come se davvero fossimo così egoisti da non accorgerci che le nostre scelte possono ferire le persone che amiamo. Le persone a cui vogliamo bene. Le stesse persone che un giorno non saranno più al nostro fianco, ma io ero stata troppo stolta per capirlo. Troppo stupida per anche solo riuscire a vederlo.
Ma in fondo se i rimorsi non facessero parte della nostra vita, cosa, allora, ci renderebbe umani?
Mi piegai sulle ginocchia su quel terreno troppo umido. In quel cimitero troppo pieno. Tra tutte quelle persone di cui neanche conoscevo il nome. Mi piegai accanto a quella data troppo recente per essere dimenticata e a quella scritta in grassetto di cui avevo fin troppa memoria.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

Parole. Flebili parole disperse nell’ululato sinistro del vento. Accecato da quei raggi di sole che scolpivano le nubi come se fossero massi di pietra e incoronavano con turbini di foglie volanti nell’aria, quel freddo respiro, vestito come un re senza corona.
Era lui. Era davanti a me. Imprigionato in quella foto plastificata di qualche anno fa, scattata forse dall’ultimo ricordo che avevo di lui.

Non voglio vederti. Non voglio vederti mai più.

Le mie urla avevano sconquassato l’etere tremante nel quale poco prima stavo annegando. Nel quale lui, consapevolmente, mi aveva gettato. Come se fossi un giocattolo rotto. Come se non fossi degna neanche di restare in vita.
Non devi avere paura di niente se vuoi sopravvivere.
Così diceva. Così diceva tutte le volte. Così diceva ogni volta che lo incontravo. Così mi aveva detto prima di spingermi fuori da quella maledetta barca.

O nuoti o vai affondo, principessa.

Ma io non ci riuscivo. Non riuscivo a nuotare. Non riuscivo ad ascoltarlo, perché tutta quell’acqua mi entrava in bocca e quel suo sapore salato mi bruciava smanioso le iridi.
La chiamano apnea volontaria. Quando stai affogando non inali finché non svieni. Non importa la paura. Non importa la tensione e l’adrenalina, l’istinto di non far entrare l’acqua è così forte, che non apri la bocca fin quando non senti la testa esplodere.
Ma poi, quando finalmente inspiri, ecco che smette di far male. Il dolore sembra scomparire. La paura pare dissolversi, trascinata dalle onde governate dal vento.
Non si ha più paura. Non si ha più timore. È come una sorta di pace. Una pace nella realtà e tutto quello che devi fare diventa la cosa più sensata del mondo.
Ti lasci andare. Ti lasci andare come penso facciano i dannati. Come un’anima in pena e improvvisamente ogni singola cosa nel quale hai sempre creduto perde completamente la sua propria importanza e rimani solo.
Rimani solo, ma questa volta privo di paura.

“Ti senti bene?”

Alzai la testa e incontrai il suo sguardo. Il suo sguardo al quale mi rivolgevo ogni volta, mentre i lunghi capelli di mia madre volavano nell’aria, sottomessi da un respiro invisibile che colorava le stelle.
La sua mano si sporse verso la mia guancia e le sue fragili dita catturarono quell’unica lacrima, che mi scivolava silenziosa dentro la pelle.
No. Non dovevo piangere. Non dovevo farlo. L’avevo promesso. L’avevo giurato a me stessa. Non dovevo neanche versare una lacrima per la morte di mio nonno. Non dopo quello che aveva fatto. Non dopo tutto questo tempo.
L’avevo odiato. L’avevo così tanto odiato quasi da sentire una fitta nel petto. Come una morsa tagliente, che mi riduceva in brandelli. Ma forse più che odiare lui avevo odiato me stessa per non esserci riuscita.

L’odio non è il contrario dell’amore, Alba. Non lo è mai.

Forse le sue parole erano vere. Forse le sue parole erano reali. Forse non ero neanche più arrabbiata con lui, come credevo di esserlo almeno fino a poco tempo fa. Quando quel giorno era venuto a chiedermi perdono, ma io non l’avevo ascoltato. L’avevo cacciato come penso si faccia con i cani.

“So che hai deciso di non perdonalo, ma è pur sempre tuo nonno”.

La voce di mia madre pareva irreale, sommessa. Come se mi colpisse e mi passasse attraverso. Come se non la stessi neanche ascoltando. Non volevo farlo. Non volevo sentirmi in colpa. Come avrei potuto prevedere tutto questo?
Alzai gli occhi e vidi tutti quei volti. Tutti quegli sguardi accusatori rivolti verso il mio viso, neanche segnato dal pianto. Come se davvero non m’importasse di lui. Come se davvero la gente pensasse che quella morte non mi avesse lasciato un terribile vuoto, ma la più totale indifferenza.
Loro non dovevano guardarmi in quel modo. Non dovevano farlo. Non sapevano nulla. Non conoscevano tutta la storia. Non conoscevano la mia vita. Come potevano giudicarmi? Come potevano farlo?
Ci sono cose che non vogliamo che succedano, ma che dobbiamo accettare. Cose che non vogliamo sapere, ma dobbiamo imparare. Persone che non vorremmo lasciare mai, ma la vita ce le porta via, senza neanche farci dire addio.
Dire addio. Dire addio è sempre difficile. Ma forse farlo non ti renderà mai libero. Perché si vive sempre con la speranza di incontrarsi di nuovo. Che quel giorno non sia mai l’ultimo. Come se quelle due semplici, menzognere parole riuscissero a farti sentire importante. Forse anche speciale.
Ma i peggiori addii, alla fine, sono quelli che non sono stati mai detti.

“Dove stai andando?” Mi chiese mia madre, prendendomi per un braccio, in modo da farmi voltare verso di lei, tra tutte quelle persone i cui occhi mi passavano attraverso.

“Torno subito”.

Avevo bisogno di allontanarmi. Avevo bisogno di andare. Non potevo stare ancora lì per molto. Non ci riuscivo. Non riuscivo nemmeno a guardare quella maledetta foto. Non potevo farlo.

Non voglio vederti. Non voglio vederti mai più.

Quello gli avevo detto. Quello gli avevo sputato in faccia quando era venuto a chiedermi scusa.
Non sapevo fosse malato. Non sapevo stesse morendo. Io non sapevo nulla. Non potevo farlo, ma lui lo si. Lui sapeva ogni cosa. Per questo desiderava parlarmi. Per questo voleva starmi accanto, ma io non l’avevo capito. Non l’avevo ascoltato.
Quel giorno lui lo sapeva. Sapeva che era l’ultimo, ma non mi aveva detto niente.
Era rimasto solo. Solo con l’unico dato inoppugnabile della nostra esistenza. L’unico forse capace di definire l’importanza del nostro vivere. L’unico in grado di alludere ad un nostro possibile significato. Era rimasto da solo. Solo con la morte.
Ma che un uomo muoia senza causa apparente. Che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all’invisibile confine tra la vita e la morte, da farci domandare su che lato di esso ci troviamo.
Come le onde del mare, che si rompono fugaci tra la spiaggia ardente di un deserto. Come due sponde, che si baciano lontane, unite da un unico, eterno destino.
Ma forse la morte peggiore è semplicemente quella che ti permette di continuare a respirare.
Mi sedetti su quel terreno umido, tra esili steli di erba governati da rugiada e ascoltai il dolce suono del silenzio inasprire pungente quell’aria intrisa di pioggia, ma non c’era nessuno. Non vedevo nessuno. Perché tutti se n’erano andati. Perché anche io ero rimasta sola.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

Presi una pietra e la scagliai contro il nulla, ascoltando un accorto rumore che si propagava nel vento, che sussurrava tra le fragili fronde di qualche albero nei paraggi. Parlando con un essere che non esisteva e che forse non sarebbe mai esistito.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

Mi toccai con la mano il petto, facendo scorrere le dita sulla pelle nuda del mio collo, ma lei non c’era. La mia collana non c’era più. La rabbia me l’aveva fatta gettare. Ora non mi era rimasto più niente. Non avevo più nulla che mi ricordasse lui.
Le lacrime mi punsero gli occhi. Il dolore mi pervase il cuore. La solitudine mi strinse le viscere. Non potevo respirare. Non volevo farlo.
La chiamano apnea volontaria, ma forse la sua regola non valeva soltanto per l’acqua. Forse semplicemente era collegata alla vita. Come per protezione. Come se cercassimo in qualche modo di salvarci. Come se cercassimo di fermare tutto quel dolore che inibisce i nostri pensieri. Che elude la nostra ragione solo per paura di annegare. Solo per paura di soffrire.
Come se fosse un veleno. Un amaro veleno che inali come un sorso di vita, ma non riuscendo a mandarlo giù ti abbandoni a quella profondissima tristezza data dalla pacata consapevolezza che forse è la morte.
Morte. Sonno profondo che vive in eterno. Ma se l’immortalità non esiste, allora, cosa può essere così infinito da perdurare per sempre?
Forse la morte fa semplicemente parte della vita. Sono due realtà  inscindibili, così vicine tra loro. Due mondi apparentemente diversi, che sembrano fondersi in un’unica, perfetta armonia in un’immensa e buia galassia, dispersa nel tempo.
Forse la vita stessa è governata dalla morte. Moriamo ogni giorno che viviamo. Moriamo quando amiamo. Moriamo quando soffriamo e quando respiriamo e quell’unica volta in cui smettiamo di farlo. Forse è solo allora che incominciamo a vivere.
Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.
Ma la paura più grande che avevo era di non riuscire a ricordarmi più nulla. Perché senza ricordi cosa potremmo lasciare alle persone che amiamo?

 

* * * *

 

Freddo.
Avevo così tanto freddo. Troppo. Non riuscivo a muovermi. Non potevo farlo. Non ci riuscivo. Qualcosa me lo impediva. Qualcosa mi fermava. Qualcosa di troppo potente per riuscire a contrastarlo.
Paura.
Avevo così tanta paura. Paura di aprire gli occhi. Paura di riuscire ancora a respirare. Paura di sentire la voce di quell’ombra sopraggiungermi nella notte.
Sangue.
Ricordo solo il sangue. Il mio sangue. Mentre mi scendeva copioso dal naso e imbrattava incurante il terreno colmo di lacrime cadenti dal cielo piangente.
Poi più nulla.
Avevo visto il buio avvolgermi, inghiottirmi, stringermi il ventre e accecarmi la vista. Mentre tutto attorno a me spariva. Spariva in quel vuoto elusivo, che inganna ciascuno di noi.
Quel falso, mentitore e lugubre vuoto che con un solo ed unico, assordante fremito precipita in un mondo illusorio, tenendoci per mano.
In un mondo che non esiste. Ma in quel momento mi chiesi se anche il mondo in cui viviamo fosse reale.
La realtà. La realtà molte volte non combacia con la verità. Ciò che è vero può non essere reale e ciò che è falso non è detto che sia per forza illusorio.
La verità. La verità la puoi nascondere, manipolare, offuscare, ma alla fine di tutto rimarrà sempre la distinzione tra il bene ed il male.
La realtà invece non la puoi cambiare. Non la puoi modificare o far finta che essa non esista. Il più delle volte la realtà che conosciamo è solo quella apparente. Quella fallace. Quella che crediamo impossibile, ma nello stesso istante in cui arrivi a conoscerla. Solo allora ti accorgi di quanto essa possa essere malvagia.
Nessuna finzione. Nessuna bugia. Solo un eterno ed impassibile conflitto per ciò in cui hai sempre creduto e ciò che ti è stato sempre nascosto.
Ma alla fine di tutto ciò che ti rimane non è più nulla. Questa è forse la loro più grande differenza. Quando arrivi a conoscere la realtà rimani completamente e inesorabilmente solo.
Forse era così che si sentiva Klaus tutte le volte.

Non sai neanche cosa vuol dire odiare. Non hai vissuto abbastanza per saperlo.

Quelle parole mi erano giunte con rabbia. Con disprezzo. Quasi come se mi stesse in qualche modo supplicando. Come se mi stesse sfidando ad odiarlo. A capirlo. Ma io non l’avrei mai fatto. Non avrei mai potuto comprendere ciò che si nascondeva nel profondo del suo cuore. Perché non potevo ascoltare qualcosa che neanche esisteva.

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

Mentiva. Anche mio padre mentiva. Mentiva come facevano tutti del resto. Lui non era diverso. Lui non era speciale. Lui non mi faceva sentire importante quando s’inginocchiava di fronte a me. Quella era solo una falsa. Quello non era reale. Era solo illusorio.
Bugiardo.
Klaus non poteva avere un cuore. Non poteva avere una coscienza. Non poteva provare sentimenti. Non riusciva a sentire il dolore e di certo non poteva capirlo. Ma allora perché si era così tanto adirato quando gli avevo espresso tutto il mio odio?
L’odio che lui aveva cercato. L’odio che lui aveva voluto. Come se mi pregasse di renderlo reale. Come se volesse davvero sentirlo, ma nonostante tutto nei suoi occhi indifferenti come il ghiaccio ero riuscita a distinguere qualcosa.
Una scintilla. Una scintilla illuminata dall’ira. Una scintilla delineata dal rancore. Una scintilla da poter sembrare quasi umana.
Ma tutto ciò era impossibile. Lui non doveva nemmeno essere vivo. Come potevano esserlo le sue emozioni?

Non sprecare il tuo tempo cercando di ferirmi. Perché io rovinerò la tua inutile, breve esistenza.

Ma se lui era davvero il mostro che diceva di essere, come poteva una bestia essere ferita? Come poteva una bestia provare sofferenza?

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

Provai ad aprire gli occhi, ma questi erano troppo pesanti. Troppo stanchi. Come se mi risultasse un’immensa fatica anche solo tenerli aperti, ma dovevo farlo. Dovevo provarci. Dovevo riuscirci. Non ricordavo nulla di ciò che era successo. Nessuna immagine. Nessun suono. Nessun profumo. Solo il vuoto. Un effimero ed avido vuoto.
Ma forse era proprio perché non vedevo nulla che avevo paura di dare un volto a quel mio stesso dolore.
La paura. Penso che nessuno al mondo ne sia davvero privo. Ho letto che la maggior parte degli uomini ha più paura di perdere la propria barca, che il coraggio di conquistare l’orizzonte. Ma alla fine di tutto, il nostro destino è segnato più da ciò che temiamo, che dal nostro coraggio.
Forse era quella l’unica certa verità.

“Era ora che ti svegliassi”.

Aprii di scatto gli occhi, quando sentii quella frase costruirsi reale nella mia testa. Spaccare incurante i miei più intimi pensieri ed uccidere in un solo istante una vita troppo rastremata per definirla tale.
Fu allora che incominciai a ricordare.

Verbena.

Sono le piante protettrici della mente. Ci proteggono dalle belve del tempo.

Quella storia. Quelle parole. Il profumo di quei fiori che inserivo accuratamente nella mia collana e tutto solo per lui. Tutto soltanto per Klaus.

Sonole creature più vicine all’Inferno. Sono dei non-morti.

Volevo sconfiggerlo. Volevo fermarlo. Volevo impedirgli di ferire le persone che amavo. Le uniche che mi restavano. Le uniche che potessi chiamare ancora famiglia.

Quando si vive in eterno si è incapaci di provare sentimenti sia per se stessi che per gli altri.

Non mi era rimasto più nulla. Non mi era rimasto più nulla perché lui mi aveva portato via tutto. Per questo ero andata lì. Per questo ero andata da lei. Mi servivano risposte. Tutte quelle domande mi stavano uccidendo. Non riuscivo più a sopportarle. Non volevo farlo. Dovevo trovare il modo di fermarlo. Io ne avevo bisogno.

Le loro debolezze costituiscono quelle che una volta erano le loro forze.

Non mi aveva detto quali erano. Non mi aveva detto il modo in cui avrei potuto sconfiggerlo. Non mi aveva detto praticamente nulla, forse per non perdere la sua merce di scambio.

Vedo che il tè ha avuto il suo effetto.

“Signora Miller?”

La vidi sorridermi con un sorriso così abbietto ed iniquo da non riuscire nemmeno a guardarla. Perché era così falso e maligno che traspariva riprovevole da tutti i pori.
Provai a muovermi. Provai a spostarmi da quel tavolo su cui ero appoggiata, ma non potevo. Non ci riuscivo. Non ne ero capace. Come se sentissi un enorme peso che non riuscivo a sorreggere. Il peso intorpidito del mio corpo o forse di quello che consideravo tale. Come se anche lui avesse rinunciato a rispondere ai miei comandi.
Ed infatti era così.

“Anche se c’è la metti tutta non riuscirai a muovere un solo dito” mi disse infida lei, avvicinandosi a quel tavolo, la cui superficie fredda mi pungeva la pelle. “Ho fatto in modo che tu non possa farlo”.

“Perché?” Le chiesi con voce strozzata. Con flebile ed invisibile respiro, che sopraggiunse tra quelle pareti completamente bianche. “Cosa vuole farmi?”

“Perché non parliamo di quello che tu puoi fare per me e dopo decidiamo il resto”. La sua voce pareva efferata. Maligna. Come se volesse ottenere a tutti i costi quel che voleva. Quello che ancora io non riuscivo a capire, ma ero convinta che tra non molto tempo avrei scoperto ogni cosa.

 

* * * *


 
“Alba sei qui?”

Parole. Immense e fluttuanti parole mi rivestirono con il loro calore tra tutto quel gelido buio. Mi trascinarono. Mi sfregiarono, strappandomi a quella maledetta menzogna a cui non riuscivo più a porvi una fine.
Non potevo farlo. Non ci riuscivo. Ne avevo paura. Paura di me stessa. Paura di non riuscire più a poterlo ricordare, perché in fondo non possedevo più niente di lui.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

Ma se delle persone che amiamo muore anche il ricordo, allora, cosa ci può restare di quella vita che sembrava persistere in eterno?
Ma forse la risposta era semplicemente nulla. Perché in fondo l’immortalità sta nel ricordo che la gente ha di un essere umano e in questo mondo siamo tutti e non possiamo non esserlo, carichi di colpe, ma forse il peccato peggiore che commettiamo è quello di non riuscire a ricordare più niente.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

Non ricordavo da chi avessi sentito quella frase. Non ricordavo da chi avessi sentito ogni singola di quelle parole. Ogni minimo respiro dalla bocca che le aveva pronunciate, ma erano così vere. Così reali, che il solo pensiero le rendeva totalmente assurde.
Come se fossero un ricordo perso nel tempo. Come se l’avessi trattenuto per sempre oltre il tempo di un istante, quasi da renderlo magico. Come se mi avesse dato speranza. Come se così dicendo mi avesse ridato in qualche modo fiducia, cancellando per sempre tutta quella frustrazione.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

Sorrisi. Non seppi perché ma lo feci. Un sorriso che divagò nei meandri di quel solitario cimitero. Sorrisi come se fosse l’ultima cosa che mi era stato ordinato di fare. Come se fosse stato scritto. Deciso da qualcuno di cui non avevo memoria.
Sorrisi al vento. Sorrisi a quel cielo cupo, nascosto dalle nubi. Sorrisi a me stessa, mentre quel dolore parve per un attimo svanire. Occultato dal nulla che inebriava avido quel luogo i cui occhi si nascondevano tra ferme lapidi di pietra, catturanti immagini di volti senza nome e simili scritte che si ripetevano ossequiosamente. Ma io non potevo saperlo. Non ancora almeno.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

“Alba ti ho trovata finalmente”.

Abbandonai voracemente i miei pensieri, mentre quell’unico sorriso, che mi si era dipinto sulle labbra parve svanire di nuovo, ricordandomi che non era vero, mentre tutta quella sofferenza era reale.
Voltai la testa e lo vidi. Se ne stava in piedi a qualche passo da me, vestito con ancora quella giacca scura del funerale. Quella che aveva indossato solo per quell’unico giorno.

Ryan.

I suoi capelli castani si muovevano al vento, mentre questo baciava il suo sguardo. Lo sguardo di un bambino nel corpo di un uomo, vissuto senza sogni e senza ali per volare.

I sogni non esistono. Perché ti ostini a credere in qualcosa d’impossibile?

Perché io non entrerei mai in un giardino senza nemmeno una rosa.

Poteva sembrare freddo delle volte, forse anche rude, ma ero convinta che nonostante tutto mi volesse bene. Forse perché io lo amavo così tanto da non sapere neanche come chiederglielo. Non osavo. Forse ne avevo paura. Paura di non essere ricambiata. Paura di non esistere nemmeno ai suoi occhi.

“Credevo ti fosse accaduto qualcosa”.

Lo vidi venirmi incontro. Così velocemente da non riuscire nemmeno a muovermi. Le nostre figure si unirono sul terreno, oscurando magri steli di erba colanti di lacrime.
Il ticchettare del tempo parve fermarsi, mentre le sue braccia mi avvolsero protettivamente, rendendo la fragilità di quell’attimo eterno. Un attimo che forse solo noi avremmo potuto ricordare.

“Ho avuto così tanta paura”.

Il suo respiro mi giunse come un fantasma sui capelli, mentre il mio viso si rifugiava nel suo ampio petto. Come se questo mi facesse sentire al sicuro. Come se quel ragazzo senza sogni fosse la mia casa. Forse perché era talmente importante per me che non avrei mai potuto immaginare una vita senza di lui. Forse sarebbe stata vuota. Forse non sarebbe nemmeno esistita.
Mi feci più vicina e ricambiai l’abbraccio. Lo strinsi così forte come se avessi paura che anche lui se ne andasse. Come se avessi paura di perderlo. Come se quel giorno, oltre a mio nonno mi avesse abbandonato qualcun altro. Come se fossi rimasta per ben due volte completamente sola.
Ma lui era qui. Era qui con me e non mi avrebbe mai lasciata. Ne ero certa. Perché senza di lui cosa avrei potuto essere io?

“Andrà tutto bene” mi disse accarezzandomi la testa, come si fa con una bambina. Come se fosse il mio secondo padre. Come se fosse il fratello che non avevo mai avuto. L’unico amico e amante di cui avessi realmente bisogno.

Lui era tutto. Era tutto questo. Forse non sapevo ancora cosa fosse l’amore, ma lui doveva andarci, sicuramente, molto vicino.

“Andrà tutto bene, Alba. Te lo prometto”.

Non mi ero accorta di piangere. Non mi ero davvero accorta di farlo. Io non volevo. Non per lui. Non per mio nonno.

O nuoti o vai affondo, principessa.

Le sue urla. Il suo sguardo divorato dall’acqua che inghiottivo, erano così reali. Così veri. Mi pareva ancora di vederlo. Mi pareva ancora di sentirlo, mentre gli lanciavo la collana addosso e me ne andavo per sempre.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

“Non voglio piangere per lui, Ryan. Io non voglio”.

Lo sentii farsi ancor più vicino, mentre le sue mani mi scivolavano sulla schiena con fare di carezze. Come se mi stesse proteggendo. Come se mi stesse realmente aiutando. Come se il solo suo respiro mi facesse sentire in qualche modo al sicuro.

“Piangi per te stessa, allora. Infondo hai perso qualcuno” il suo volto prese di nuovo spazio davanti al mio e quei pochi raggi di luce gli illuminarono la pelle marmorea e lo sguardo innocente in cui si rifletteva il mio, madido di lacrime. “Forse tuo nonno non era esattamente come credevi, ma l’hai comunque perso”.

Annuii in silenzio, sapevo avesse ragione. L’avevo perso. L’avevo perso per sempre e anche se non era l’uomo che credevo era pur sempre mio nonno e questo non sarebbe mai cambiato.
Il ricordo che avevo di lui non avrebbe mai lasciato la presa su di me. Non si sarebbe mai trasformato in qualcosa di ignoto. Non avrebbe mai assunto sembianze dissimili da quelle che ero convinta possedesse. Lui non sarebbe mai cambiato è quello l’avrebbe fatto vivere in eterno.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

“Ti ho portato una cosa”.

Alzai lo sguardo ed incontrai il suo viso. Quel viso che vedevo ogni giorno. Quel viso che avrei visto per sempre. Quel viso su cui giacevano degli occhi da bambino così piccolo e fragile, come se avessi paura che si spezzasse sotto il mio abbraccio.
Fu allora che la vidi.
Quel blu profondo come il mare, che durante la notte si tuffava nel cielo, emanava un luccichio talmente cristallino e puro, che non potevo smettere di guardarlo. Perché per troppo tempo l’avevo già fatto.

“La mia collana”.

La presi tra le mani e la guardai attentamente, come se cercassi d’imprimermi la sua immagine. Come se cercassi di ricordare l’attimo in cui me l’aveva regalata mio nonno. Quel giorno anche il bosco sembrava cantare. Ma quella musica, ormai, pareva essere finita. Scomparsa per sempre.

“Mi ha chiesto di ridartela”.

Mi disse dolcemente, mentre fece qualche passo dietro le mie spalle. Mi alzò con delicatezza i capelli e respirando su di essi mi allacciò la collana al collo, che tornò a brillarmi smaniosa sul petto.

È bellissima, nonno.

Le cose belle le riconosci. Sono quelle che ad un certo punto non capisci più se fanno bene o male.

Era lei. Era davvero lei. La strinsi così forte tra le mani, quasi come se temessi di perderne la memoria. Come se avessi paura che quella non fosse reale. Che fosse un’illusione. Un sogno che precedeva un incubo. Che divorava la realtà, ma non era così. Non doveva esserlo. Perché era tutto così dannatamente vero. Così vero che quasi riuscivo a toccarlo.

Se saprai ricordarmi sarò sempre con te.

“Quando l’hai visto?” Gli domandai, voltandomi velocemente verso il suo sguardo, sentendo il cuore che palpitava frenetico nel petto.

“L’ho visto il giorno in cui mi ha pregato di dirti di non smettere mai di dimenticarlo”.

 

* * * *


 
Respirai.
Respirai come se fosse l’ultimo attimo che mi era stato concesso. L’ultimo respiro, regalato da qualcuno di cui non riuscivo più a pronunciare il nome. Non volevo farlo. Non potevo. Forse ne avevo paura. Paura di non riuscire a comprendere. Paura di non riuscire nemmeno a sentire.
Non mi muovevo. Non potevo farlo. Lei me l’aveva negato. In qualche modo lei era riuscita a farlo. Era riuscita a paralizzarmi totalmente come se fossi un vegetale. Un vegetale che chiede il permesso persino per vivere.
Io non sentivo più nulla, ma il freddo di quel tavolo, quello si che lo sentivo. Un freddo così glaciale che mi congelava il corpo immobile. Un freddo così pungente che mi entrava dentro la pelle e mi martoriava la carne.
Un freddo che, nonostante tutto, riusciva a farmi sentire ancora…viva.

“Non temere, questo è solo per sicurezza. Le erbe che ti ho dato avranno effetto ancora per poco”.

Sentii i polsi stringersi così forte. Troppo, mentre le parole della signora Miller mi passarono attraverso, ferendomi gli occhi, come quella corda che mi segnava avidamente i polsi, facendoli sanguinare su quel gelido, inerte, tavolo bianco.
Ogni persona sulla terra crede che starà stupendamente. Che vivrà la sua vita nel modo migliore che possa esistere. Nessuna tristezza. Nessun dolore, ma eterno piacere. Ma ci sentiamo un po’ derubati quando le nostre aspettative vengono disattese. Quando esse non ci prendono in considerazione.
A volte, però, ciò che è atteso sparisce semplicemente dietro all’inatteso.
Ma perché continuiamo ad aggrapparci alle nostre aspettative, credendo che ciò che aspettiamo ci renda stabili e sicuri?
Come se lo facessimo per protezione. Come se ci difendessimo da tutto ciò che potrebbe ferirci.
Forse anche io stavo aspettando qualcosa. Proprio in quel momento. Proprio in quella stanza. Stavo aspettando qualcuno. Un qualcuno che forse nemmeno esisteva. Un qualcuno che mi avrebbe salvata. Che mi avrebbe portato via da quel luogo. Che mi avrebbe protetto. Che non mi avrebbe più fatto sentire sola.
Si dice che la speranza sia l’ultima a morire, ma cosa può succedere se alla fine di tutto muore anch’essa?

Chi di speranza vive. Disperato muore.

Così diceva sempre Ryan. Così dicevano i suoi occhi senza sogni.

“Anche io sono una strega, sai? O quello che ne rimane”.

Aprii gli occhi, sentendo quelle parole e lottai con tutta me stessa, cercando di tenerli aperti. Cercando di non chiuderli e di non lasciarmi, un’altra volta, in quel lugubre e perenne nero.
Lei era lì. Era lì davanti a me, mentre mi guardava dall’alto come si fa con un moscerino. Come se fossi così inutile da non avere alcuna importanza.
Ma non doveva essere così. Doveva esserci dell’altro. Lei mi aveva rapita per una ragione. C’era un motivo se mi trovavo lì. C’era un motivo se non mi aveva ancora uccisa. Forse non ero così inutile come pensavo.

“Sfortunatamente mi sono imbattuta in un tipo di magia proibito e gli spiriti della natura, per punirmi, me l’hanno in parte negata”.
Strega.

Lei era una strega.

Come poteva dire sul serio? Come poteva credere alle sue stesse parole? Lei non poteva esserlo. Non poteva esserlo davvero. Perché non potevo credere nell’esistenza di un’altra menzogna nella mia vita. Non ci riuscivo.
Ma in fondo, dopo l’esistenza dei vampiri, cos’altro poteva essere ritenuto ancora normale?

“So a cosa stai pensando, Alba” mi disse avvicinandosi, tanto che riuscii a distinguere i miei occhi scuri riflettersi nei suoi, contornati da rughe e dai segni del tempo. “Probabilmente mi credi folle”.

La sua immagine sparì dietro la mia testa, tanto che la perdetti con lo sguardo. Non riuscivo a vederla. Non riuscivo a sentirla. Non potevo. Ero troppo stanca. Così debole che neanche riuscivo a parlare, mentre il mio corpo perseverava ancora immobile, condannato ad un destino, che faticavo a temere.

“Lascia che ti dia, allora, una piccola dimostrazione”.

Dolore.
Una massa informe di dolore mi pervase la testa. Un dolore così forte. Così meschino. Così dannatamente inconsistente e lacerante che non riuscii a fermarlo.
Mi faceva male. Mi faceva così tanto male. Tutto quel dolore mi scivolava addosso. Mi scorreva infido, gridandomi parole che non riuscivo a comprendere. Non potevo. Perché erano così maledettamente strazianti, che non riuscivo più a porvi una fine.
Volevo farlo, ma non…non ci riuscivo. Io non potevo e faceva così male. Dio, quanto faceva male.
Spinsi la testa all’indietro, l’unica parte del corpo in grado ancora di rispondere al mio volere. La premetti così forte sul tavolo quasi da perforarla, ma niente. Il dolore era ancora lì.

“Smettila, ti prego” gridai con tutta la voce che possedevo. Con quei fragili respiri che potevano essere gli ultimi, cercando di far cessare, in tutti modi, quella voce che mi urlava lacerante nella mente.

Poi tutto finì. Così velocemente com’era iniziato. Così improvvisamente, da non sembrare nemmeno reale e forse solo allora incominciai a sentire la sua mancanza.
La mancanza di quel demone dagli occhi di ghiaccio che sarebbe vissuto in eterno. Come se lo stessi rimpiangendo. Come se lo stessi, in qualche modo, volendo, aspettando. Come se il nemico che avevo davanti fosse peggiore di lui, ma forse nessuno poteva battere il diavolo.
Ma nonostante tutto. Nonostante la sua cattiveria e la sua sadica sfacciataggine. Nonostante la paura che riusciva ad impormi. Nonostante il mio odio che sembrava desiderare ancor di più del mio sangue. Nonostante tutto questo c’era qualcosa in quel diavolo che ancora non ero riuscita a definire.
Un qualcosa di simile ad un…umano.
E mi ritrovai a sperare con tutta me stessa di riuscire a rivedere quel suo lato nascosto. Quei pochi attimi di vita nella sua morte, che il suo cuore inerme doveva custodire da qualche parte. Ne ero certa.

“Le streghe in realtà, o in questa realtà almeno, attraversano tutte le culture della storia” asserì calma la signora Miller, prendendo una sedia e avvicinandosi al tavolo. “Sono le capostipiti del sovrannaturale. Architette di tutto ciò che avviene nella natura e oltre”.

Il respiro mi s’immobilizzò per un attimo nei polmoni. Non riuscì a salirmi in gola, spezzando, con quel suo silenzioso fragore, urla di suoni, che albeggiavano tetri nell’aria.
Anche le pareti bianche senza finestre parvero azzittirsi, attenti ad ascoltare una storia così lontana nel tempo. Così distante nei secoli, che occhi indiscreti non sarebbero mai riusciti a notare.

“Le streghe sono le responsabili del cammino sulla Terra di creature oscure. Dei demoni della notte e dei loro discendenti”. La signora Miller parlava a bassa voce, come se avesse paura di essere ascoltata. “Creature come fantasmi, licantropi, doppelganger…vampiri. Ma questo già lo sai”.

Lasciai andare tutta quell’aria che avevo trattenuto per troppo tempo, come se fosse un sospiro carico di ansia e di pena.
Lei non doveva saperlo. Non doveva sapere che io in realtà conoscevo ogni cosa o almeno una buona parte. Lei non poteva. Klaus l’avrebbe sicuramente uccisa.
Ma nonostante mi avesse drogata, rapita. Nonostante mi avesse inflitto quel dolore lancinante alla testa. Nonostante fosse letteralmente fuori di sé, non riuscivo ad augurarle la morte. Io non potevo farlo. L’avevo causata già molte volte. Troppe. Non potevo accettarne un’altra. Non per colpa mia. Io non ci riuscivo. Non volevo.

“Non so di cosa stia parlando”.

La voce mi uscì piatta, sommessa, così perennemente fragile, da non risultare nemmeno viva. Non poteva esserlo. Perché tutto quello che stava accadendo non poteva essere reale.

“Credo invece che tu sappia perfettamente a cosa mi sto riferendo, Alba. Ma perché non procediamo con ordine. Ci eravamo lasciate con Qetsiyah l’ultima volta, giusto?”

La signora Miller si fece più vicino a da dietro quegli occhiali mi parlò con voce ancor più bassa, mentre si accingeva un’altra volta a raccontare una storia che sembrava prolungarsi intatta  nei secoli. Definendo, con stupore, una vicenda avvenuta così tanto tempo addietro da non riuscire più a possedere alcuna memoria.

“Una volta giunta nel nostro mondo lo spirito di Qetsiyah s’impadronì del corpo di una giovane. Attinse i suoi poteri dal mondo dei morti, attraverso un tipo differente di magia molto oscuro e potente, ma altrettanto proibito e malvagio, denominato “espressione”. Con l’aiuto dell’espressione, che prevedeva il sacrificio di molti esseri umani, ella riuscì ad esercitare i suoi poteri psichici e mentali sulle belve del tempo, ribellati alla madre. Controllava i loro pensieri. Determinava il loro volere. Riusciva e spegnerli i sentimenti e a nascondere le loro emozioni, facendoli agire nel modo migliore a lei utile. Sfruttando ciò che erano diventati solo per i suoi fini e per i suoi scopi personali.
La forza di Qetsiyah aumentava al punto che nessuno osava opporre resistenza. Nessuno aveva l’audacia di riuscire a sfidarla, perché le conseguenze di tale atto prevedevano una pena peggiore della morte stessa.
Tuttavia un giorno, dopo molti secoli vissuti nell’oppressione e nell’angoscia, una giovane orfana, più ragazza che donna, riuscì a giungere dove nessuno aveva mai immaginato di arrivare. Non era una strega. Non aveva poteri sovrannaturali. Non era nulla, ma possedeva qualcosa di molto importante: il coraggio.
Sfidò Qetsiyah con quell’unica arma che aveva, brandendola al vento come se fosse una spada. Ciò fece adirare la strega, che trovandosi impreparata, esortò le sue creature dannate contro la giovane che le portarono la morte attraverso atroci sofferenze. Ma il suo sacrificio non fu vano. Gli spiriti della natura, animati da un sentimento comune e impietositi dalla morte di un’innocente, decisero di unirsi agli uomini sulla Terra, scatenando la guerra più lunga che si possa mai raccontare.
Milioni furono i morti. Migliaia i feriti, ma alla fine di tutto questa battaglia si concluse con la morte di Qetsiyah.
Temendo che una volta rientrata nel mondo dei morti la strega potesse cercare di ritornare con l’inganno in quello dei vivi il suo corpo non venne arso, come per tradizione, ma preservato con un incantesimo in modo da garantirle un sonno eterno.
Non completamente viva, non completamente morta ella fu nascosta in un luogo in cui nessuno mai avrebbe potuto trovarla. Il suo potere venne smarrito e con lui, anche il ricordo di quella tragedia.
Le belve del tempo furono costrette a rifugiarsi. A vivere nell’ombra, nascosti nella notte, come se fossero degli insetti, soli al mondo. Tutt’oggi sono gli unici a ricordare quell’evento, che vide distrutta la loro protettrice. La memoria umana con il tempo va scemando, per questo sono in pochi a ricordarla. Chi per natura divina. Chi invece perché ne viene semplicemente a conoscenza.
Si dice, però, vi siano vite legate tra loro nel tempo, unite da un unico, eterno destino che riecheggia arduo nelle ere e quella chiamata che si protrae per secoli, riuscirà, un giorno, ad essere ascoltata, conducendo ogni cosa al suo legittimo inizio, per cambiare una fine da cui ormai siamo abietti”.


“È una bella storia, ma non riesco a trovarne lo scopo” cercai in tutti i modi di apparire indifferente, come se quelle parole non mi avessero toccato minimamente. Come se fosse solo una semplice leggenda così come un’altra. Io non dovevo crederci o almeno dovevo far finta di non farlo. Lei non doveva capire niente. Non potevo permetterlo.

“Sai cosa succede alla morte di una strega, Alba?”

Voltai il viso verso di lei, mentre il suo sorriso parve svanire, disegnando nelle sue iridi parole senza cuore, che rievocavano ricordi indelebili nel tempo. Come se volesse qualcosa. Come se la desiderasse a tal punto da rischiare tutto quanto. Come se non potesse farne a meno. Come se non avesse altra scelta che continuare a sperare. Perché, in fondo la speranza è sempre l’ultima a morire.

“Quando una strega muore la sua magia si disperde nell’aria. Il suo potere s’insinua nel terreno e caratterizza un determinato luogo, quasi da renderlo magico. Se si riesce a canalizzarlo si diventa più forti. Se il potere poi è grande come quello di Qetsiyah si è quasi onnipotenti” asserì lei, abbandonandosi nuovamente su quella lurida sedia, allungando, ancora una volta, un lungo e assordante silenzio.

“Sfortunatamente Qetsiyah non è morta. Non completamente almeno. Ciò renderebbe la sua magia perduta per sempre tra la nostra e chissà quale altra realtà. Canalizzarla sarebbe praticamente impossibile a meno che lei, conscia della sua sconfitta, non abbia scelto di imprigionare tutto il suo potere dentro ad un oggetto, prima che fosse troppo tardi”.

Non riuscivo a parlare. Non volevo farlo. Forse ne avevo paura. Forse la tensione per quelle maledette parole era troppo alta. Troppo forte. Non riuscivo e tenergli testa. Non riuscivo in nessun modo a fermarla. Anche se forse avevo già previsto lo scopo di tutta questa storia, ma probabilmente lo negavo ancora a me stessa perché ero incapace di accettarne le conseguenze.

“Tutto inizia sempre con una scelta, Alba” mi disse la signora Miller in un flebile e malinconico sospiro. “Io ho scelto di utilizzare un tipo diverso di magia. Un qualcosa di proibito e ho dovuto accettarne le conseguenze, perché non riuscivo ad accettare la sua morte”.

Non riuscivo a capire. Non potevo comprendere. Per quale motivo aveva fatto ricorso ad un qualcosa di proibito? La morte di chi non riusciva ad accettare?
Calò un tremendo silenzio. Un silenzio così freddo. Un silenzio così glaciale che quasi non mi accorsi nemmeno della superficie gelata di quel tavolo, al quale ero ancora legata, ma dove incominciavo a potermi muovere, sebbene ancora per poco.

“Era tutto ciò che avevo. Lei non doveva morire. Io dovevo fare di tutto per salvarla” disse la signora Miller quasi sull’orlo del pianto. “Dovevo aiutarla. Dovevo aiutare mia figlia. Lei era la mia famiglia”.

Famiglia. Alla fine forse non si agisce sempre in nome della famiglia? Quella determina la nostra importanza. Colei che scaturisce la nostra esistenza. Il nostro vivere.
Se rimanessimo senza famiglia è come se fossimo senza storia. Come se ci mancassero le fondamenta e senza esse cosa ci resterebbe? Cosa potremmo diventare?

Nessuno al mondo dovrebbe mai sentirsi solo.

“Ho sfidato la morte, Alba. Ho cercato di alterare l’equilibrio della natura, rimasto immutato per secoli” asserì la signora Miller, cercando di scandire ogni singola parola, nascondendo quelle lacrime, che tristi, le segnavano gli occhi. “Gli spiriti non me l’hanno permesso. Me l’hanno portata via. Mi hanno tolto molto potere. Non mi è rimasto più nulla”.

La sua immagine si alzò velocemente e incominciò a camminare avanti ed indietro come un’anima in pena. Come penso facciano i dannati. Come penso faccia molte volte anche Klaus.

“Se riuscissi ad impossessarmi di quell’oggetto riacquisterei i miei poteri. Tutti quanti. Diventerei così potente da non temere il volere degli spiriti e le loro pene e punizioni” sussurrò lei al mio orecchio, come se si trattasse di un qualcosa di così segreto che persone indiscrete non potevano sentire. “Potrei risvegliare i morti, Alba. Riuscirei a farla tornare. Potrei farlo anche con i tuoi genitori se vorrai”.

Ancora silenzio. Un buio e glaciale silenzio dove le parole erano troppo flebili per essere pronunciate. Come se in uno stesso attimo il cielo avesse soffiato il Paradiso tra le stelle. Come se ciò mi avesse ridato, in qualche modo, speranza.
Io avevo ancora speranza. Forse questa albeggiava ancora in me dopo così tanto tempo. Dopo così tanto dolore. Dopo che le ferite avevano smesso di sanguinare e dopo che le loro cicatrici mi avevano macchiato il cuore per sempre.
Io avevo ancora speranza.
Potevo ancora salvarli. Potevo ancora rimediare all’errore che avevo commesso. Non avrei più dovuto sentirmi sola. Non lo sarei mai più stata. Mai più. Loro sarebbero stati vivi, con me e tutta quella sofferenza non sarebbe mai più stata reale. 

Le cose belle le riconosci. Sono quelle che ad un certo punto non capisci se fanno bene o male.

Ma nonostante tutto non vi era niente di certo in tutto questo. Niente di sicuro su cui avrei potuto riporre la mia fiducia. Nel mio mondo la morte era una cosa naturale, a volte inaspettata, come un getto di acqua fredda, ma restava comunque l’unica cosa su cui, alla fine, si poteva contare. Nel loro mondo, invece, in quel mondo oscuro in cui ero appena entrata, la morte sembrava giungere con una mano calcolata e precisa, che avrebbe portato via tutto solo per raggiungere determinati scopi.
Loro se n’erano andati. Erano morti, dannazione. Morti! Non avrebbero mai potuto tornare indietro. Non l’avrebbero mai fatto. Neanche con uno stupido ed inutile incantesimo. Questa non poteva essere la realtà. Questo non poteva essere vero.
Le persone non tornano magicamente in vita. Non possono farlo. Noi non possiamo permetterglielo. Non siamo Dio e anche se ormai avevo smesso di credere in lui sapevo ancora distinguere la differenza tra il bene ed il male, ma forse quella linea era talmente sottile da potersi spezzare da un momento all’altro. Come se quelle minuscole fibre che separano il vero dal falso fossero così ravvicinate da non sapersi neanche più distinguere tra di loro. Come potevamo allora noi farlo?

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

“Io non posso aiutarla, mi dispiace” le dissi con quel poco di voce che mi era ancora rimasta, mentre tutta quella stanchezza data da quella consapevolezza incominciava ad uccidermi lentamente, come un amaro veleno. “Mi dispiace così tanto”.

“Se non mi vuoi dare il tuo aiuto vorrà dire che dovrò prendermelo con la forza” pronunciò quelle parole così velocemente, che quasi non mi accorsi subito di quel dolore che mi trafisse avido la testa, come cento pugnali con lame dorate grondanti di sangue. “Io voglio davvero quell’oggetto, Alba e farò di tutto per ottenerlo”.

Urlai. Urlai così forte, ma nessuno riusciva a sentirmi. Nessuno voleva ascoltarmi. Nessuno.
Ero da sola. Ero un’altra volta da sola a sopportare tutto questo. Restavo lì, immobile, inebetita, senza difese, né speranze. Completamente e totalmente sola.

“Si dice che i vampiri siano gli unici a rammentare il luogo esatto in cui venne nascosto quell’oggetto. Sono gli unici a possedere quel segreto” mi disse ancora, quando un’altra lama, trafiggendomi la mente, scoccò degli attimi privi di significato. “So che sai della loro esistenza. Quindi o mi conduci da loro o sarò costretta ad ucciderti”.

“Si sbaglia, io non so nulla”.

Non riuscivo a parlare. Quel dolore era troppo inconsistente. Non potevo fermarlo. Non ci riuscivo e faceva così male. Troppo. Come se una musica spettrale risuonasse con fervore tra queste pallide mura colme di occhi, che mi passavo attraverso, con una così spietata e maledetta forza.

“Hai il loro marchio, Alba. Smettila di mentire”.

Marchio.

Il tempo parve fermarsi. Intrappolato in gelidi attimi, che colavano come sangue in ferite a strapiombo sul cuore.

Lui è un vampiro.

Il tuo sangue ha un profumo così…dolce.

Saprai solo quello che ti concederò di sapere, nulla di più.

Parole. Maledette parole mi uccidevano la mente stracolma di ricordi, pensieri e di ogni cosa che non riuscivo più a dare un senso. Forse nulla ormai aveva un proprio significato.

Ora mi appartieni.

Un sospiro mi esplose in gola. Lo sentii salirmi fin dentro i polmoni. Strapparmi le viscere e attirarmi a sé come se non avessi scelta. Come se non potessi decidere. Come se avessi dimenticato ogni singola cosa che era accaduta.
Ma se siamo privi di ricordi, allora, cosa potremo mai essere? Cosa ci resterebbe? Saremo solo dei contenitori vuoti. Dei contenitori senza più vita.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate. 

No!

Non poteva essere vero. Non doveva essere reale. Non era possibile.

Hai il loro marchio, Alba.

No. Smettila!

Le mura della casa parvero tremare, si fenderono terribilmente sotto forma di terrore, che scivolava via dalle screziature biancastre come il candore maestoso della luna tra le stelle. Come la pioggia che cadeva dal cielo fino ed infieriva tetra sul terreno, sfiorando, inconsciamente, quelle due cicatrice sul mio collo, rimaste tali dalla notte di quel maledetto incidente.

“Tu non lo sapevi, non è così?” Disse la signora Miller, strappandomi a quegli assurdi pensieri, che mi avvolgevano il cervello, che non dava segni di voler reagire. “Mi dispiace avertelo detto in questo modo, cara”.

La vidi avvicinarsi al tavolo. Vidi il suo sguardo tra tutto quel buio, martoriato soltanto dall’odore scarlatto del mio sangue che impregnava infido le corde sui miei polsi.

“Mi dispiace che tu sia completamente inutile” asserì ancora lei, non guardandomi neanche negli occhi. “Vorrei davvero non volerlo fare, ma devo. Sai troppo ormai”.

Rimasi in silenzio. Non la respinsi. Non volevo farlo. Neanche quando sollevò la mano e vidi baluginare l’acciaio, come una fragile scintilla che illuminava l’aria. Come la stessa scintilla che aveva brillato anche negli occhi di Klaus. Quella scintilla che mi aveva ridato ancora speranza, che dentro di lui non si nascondesse soltanto una bestia, ma un uomo…ferito.
Non riuscii neanche a realizzare che l’ultimo pensiero fosse rivolto a lui. Al vampiro. Al mostro. Alla causa di tutto il mio odio e della mia rabbia. Era illogico. Ma se dovevo andare all’inferno cosa mi restava da perdere?

“Mi dispiace davvero tanto, Alba”.

La sua mano calò fulminea verso il mio petto, così velocemente da non riuscire neanche a chiudere gli occhi, così istantaneamente da non provare neanche dolore.
La terra rumoreggiò e si scosse. Il vento scatenò la sua furia mortale, scagliando nell’aria turbini dardeggianti di foglie, come placide lame riecheggianti in quella fredda e plumbea sala, illuminata da spettrali candele, la cui fiamma fuggiva nel vuoto.
Il cielo parve spalancarsi, accogliendo lo sfrigolio di lampi continui, che squarciavano effimeri il nulla, occultando una tempesta violenta, esplosa in un grido di pura sofferenza e terrore, ma non era il mio. Ero certa che non lo fosse. Non questa volta.
Aprii fulminea le pesanti palpebre e la vidi. Riuscii a distinguere quell’ombra come se ormai facesse parte di me.
La vidi afferrare il polso della signora Miller, prima che la lama affondasse nella mia carne. La vidi stringerlo in una stretta mortale, spaccando ogni singolo osso all’interno, come se fossero magri steli di erba.
Il coltello si voltò verso la sua gola e scattò fulmineo dentro la sua carotide, fino ad immergersi completamente nell’elsa, provocando quel fiotto scarlatto che si rigettò fin sulla pelle del mio viso, massacrata dal pianto e dallo stupore.
Il corpo della signora Miller cadde a terra, sul quel pavimento solenne, ricoperto dal suo sangue, che non smetteva di fuoriuscire dalle sue ferite zampillanti che sgorgavano calde, rigettate dall’organismo, mentre questo rifiutava la vita e accoglieva la morte.

La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate.

Fu allora che lo vidi. I suoi occhi ardenti di un nero luminescente, brillavano ingannevoli in quel lugubre buio tinto di rosso, lo stesso rosso che macchiava il suo viso e gli scolpiva il cuore. Quello che ormai non batteva più dentro il suo petto. Quello che ormai fingeva di essere vivo.

Nessuno al mondo è davvero privo di cuore.

“Klaus”.

Pronunciai il suo nome come se fosse una tortura. Come un’agonia che mi divorava le viscere. Come un qualcosa che avevo così tanto desiderato e sperato. La voglia mi assalì così imperiosa e irresistibile come una vampa cremisi ed accecante, come se mi stessi abbandonando ad eccessi imperdonabili. Come se lo avessi atteso per tutto questo tempo. Come se avessi aspettato quell’angelo di una bellezza quasi divina.

Le cose belle le riconosci. Sono quelle che ad un certo punto non capisci se fanno bene o male.

Cercai di allontanarmi quando il suo viso, si chinò sul mio in un’ombra scura come se fosse un diavolo. Un diavolo travestito da Dio. Ma non potevo muovermi. Non ancora del tutto.
Avevo paura. Ne avevo così tanta. Non volevo vedere i suoi occhi. Non volevo rispecchiarmi nelle sue iridi così da vicino. Non volevo guardare quel sangue che crudele gli segnava il volto e gli scivolava sulla pelle candida, come lacrime scarlatte che cadevano dal cielo cupo. Io non volevo.
La sue mani intrise di rosso mi afferrarono i polsi ancora legati, facendo unire gocce di sangue dalla bocca di due ferite identiche o quasi.
Non riuscivo a ritrarle. Non potevo farlo. Ero paralizzata. Immobile di fronte a lui. Non volevo facesse del male anche a me. Non volevo che succedesse come con la signora Miller.
L’avevo vista morire di fronte ai miei occhi e sebbene la morte faccia parte di noi ad essa non si riesce mai ad abituarsi.

“Come puoi essere così imprudente, piccola. Così ignara del pericolo”.

La stretta sui miei polsi si fece più forte, come se mi volesse strappare via la carne stessa, come se volesse imprimersi nella mente ogni particolare, causato dall’odore frenetico del mio sangue, che pareva risvegliarlo, mentre ogni singolo nervo del mio corpo pareva tremare sotto il suo gelido tocco.

“Non voglio farti del male, Alba” mi sussurrò respiri senza vita, mentre la corda sui polsi venne strappata e con lei ogni vincolo che mi teneva legata a quel maledetto tavolo. “Non è nei miei piani”.

Deglutii quando sentii le sue mani sopra la mia pelle, su ciascuna delle mie ferite, come se cercasse di curarle, ma al contempo di riaprirle. Come se desiderasse quel sangue, che copioso, scorreva dolce lungo le curve del mio corpo, macchiandomi i vestiti e segnandomi le fragili membra.
Sentii le sue nivee dita circondare avventatamente le mie caviglie fino a trascinarmi in un unico, calcolato gesto verso di lui ai piedi del tavolo, in modo che le mie ginocchia circondassero paurosamente i suoi fianchi, mentre la schiena rimaneva diritta, eretta da quello che poteva essere un suo abbraccio. L’abbraccio di una persona immortale, che viveva di ricordi.
Il suo volto d’altri tempi, così austero ed affascinante, ma così letale e crudele, non si accingeva a separarsi dal mio, fin quando il suo freddo respiro morente soffiò la vita sulle mie labbra martoriate e i suoi occhi, del color del ghiaccio, avevano riacquistato il loro colore vitreo.
Non potevo muovermi. Non ancora. Quel maledetto incantesimo aveva ancora la presa su di me. Io non ci riuscivo, mentre vedevo quel mostro così vicino. Quel mostro che aveva portato la morte con le stesse mani con cui ora mi toccava la pelle. Quello stesso mostro che nonostante tutto mi aveva salvato la vita, un’altra volta.
Ma il perché continuasse a farlo non mi era ancora noto.

“Spero che questa non diventi un’abitudine, tesoro” mi disse, avvicinandosi ancor di più a me, come se volesse accorciare tale distanza con il suono di un bacio. “Dovrai trovare il modo di ripagarmi”.

Chiusi gli occhi. Non riuscivo a tenerli aperti. Non riuscivo a rimanere sveglia. Ero così stanca. Così priva di forze. Come se sentissi ancora quelle grida urlare impavide nella mia testa. Come se non riuscissi ad ascoltare nemmeno il suono della sua nobile voce, che mi passava attraverso, scorrendomi addosso, come le scure gocce di sangue dai miei polsi.
Non riuscivo a trattenere quel fiotto. Non riuscivo a fermarlo. Era troppo forte. Mi strappava le forze e faceva male. Faceva così tanto male. Anche il solo respiro sembrava portarmi tormento.
Sentii la stretta di Klaus farsi più vivida intorno alle mie spalle e in attimo perdetti completamente l’appoggio del tavolo. Come se stessi volando. Come se stessi nuotando in un mare d’inferno con gli occhi di un demone. Di un demone a cui dovevo la vita o a cui forse dovevo rimpiangere la morte.

“Io ti troverò sempre Alba, te lo prometto”.

Le sue parole erano troppo lontane. Troppo distanti. Non riuscivo a cogliere. Non riuscivo ad ascoltarle. Forse non erano nemmeno reali. Forse anche loro stavano volando via. Stavano fuggendo lontane verso quel cielo cupo, che divora la terra. Ma io non mi opposi. Non lo respinsi. Mi abbandonai completamente a lui. A quel vampiro dagli occhi di ghiaccio, come se non avessi paura. Come se mi sentissi finalmente al sicuro. Come se non fossi più così tremendamente sola. Come se sapessi che non mi avrebbe mai fatto del male.
Mi addormentai. Mi addormentai tra le sue braccia senza l’ansia di non rivedere più il sole. Senza la paura di non arrivare a domani, perché tanto il mio ricordo non sarebbe morto con me, ma sarebbe sopravvissuto in eterno.

Perché la morte non esiste. Perché le persone muoiono solo quando vengono dimenticate.

 

* * * *


 
Il battito d’ali di una farfalla mi riporta alla vita.
Non so dove mi trovo. Non so in che anno o in che secolo. Non ha più importanza. Non per me almeno.
Lo scorrere assiduo dei giorni riempie funesto un tempo luttuoso che una volta aveva il potere di riempirmi. Di completarmi. Di raggiungere il mio essere, regalandogli un nobile scopo. Un prodigo fine di cui ormai sono abietto.
Gocce di rugiada perseverano immobili su magri steli di erba, rivestendo caduche un terreno senza promesse nel quale lambisco il mio rifugio. Mentre dal cielo si divulgano ombre eloquenti, che arginano un mondo sterile in cui anime disperate rivolgono le armi contro se stessi. Vivendo nell’ergastolo del dolore, accecate da un malsano egoismo.
Come esseri schivi, asociali e solitari, che vivono di ricordi, campando disgraziati come la stessa prigione, nel quale si sono rinchiusi ed umiliati.
Anime stolte, intricate che si voltano le spalle come bestie rabbiose. Esseri sospettosi ed insicuri, che si volgono lame affilate, ferendosi a vicenda. Creature ignote a se stesse, prigioniere del passato ed incapaci di vivere più di quanto il loro cuore possa amare.
Questo sono gli uomini. Questo ero io quando correvo a vedere il colore del vento, mentre egli implacabile faceva di leggiadra il piombo, sussurrando tra gli alberi parole confuse, nascoste tra i fili inesorabili del tempo in cui solevo addormentarmi, rasserenando il volto, fin quando non arrivava lei.
Lei era l’unica che sapeva ascoltare. L’unica che cercava di capire quel ragazzo bastardo senza fiducia né progetti, maltrattato dal padre, che gli aveva strappato il futuro.

Non avere qualcuno che si ama è la peggiore maledizione possibile.

Questo diceva sempre. Questo diceva ogni volta.
Riesco a vedere il suo viso dopo tanti secoli disegnarsi limpido fra le striature del cielo, occultando peccati commessi e promesse fuggite.
Quegli occhi scuri. Quegli occhi maledetti, ci facevo l’amore solo a guardarli, mentre la sua bocca di rose pronunciava leggiadra parole fini  se stesse. Quelli erano momenti belli, felici, intensi, quando ancora l’immortalità non aveva corrotto la mia anima. Quando ancora il mio respiro colorava le mie goti e non mi rendeva refrattario ad ogni contatto.
Niklaus Mikaelson. Forse un nome che è diventato leggenda tra volti tristi e voci stanche in un palpitante silenzio che precede la morte. Lo stesso silenzio che mi conduce nella dimenticanza dell’oblio.
Forse anche io sono morto. Forse lo sono davvero. Il mio cuore non batte più dentro il mio petto. Non sento più dolore, riesco a vederlo, riesco a capirlo, ma non lo provo. Non ci riesco.
Ho paura. Ne ho così tanta. Paura che questa musica possa finire. Paura che anche lei mi lasci solo. Paura di non riuscire a ricordare più nulla.
Vedo il sole tramontare all’orizzonte. Vedo i suoi raggi trafiggere il cielo, mentre questo vomita sangue. Lo stesso sangue scadente di cui mi nutro da troppo tempo ormai, tanto da non sentirne nemmeno più il sapore.
Con le dita sfilo deciso il mio anello. L’unico vincolo in grado di trattenermi ancora in questo mondo assurdo. L’unico capace di ripararmi da quella luce mortale che con gli ultimi bagliori prima della notte brucia la mia pelle e mi sfigura la carne.
Digrigno i denti e serro i pugni ferrei ascoltando quel tormento, che come la mia esistenza inizia a ridursi in cenere.
Non so dove mi trovo. Non so su quale terreno mi sono accasciato. Non so in quale anno o in quale decennio. So solo che oggi morirò, perché oggi ho scelto di farlo. Perché sono così stanco. Così esausto.
Morirò in un giorno senza data. Sopra un prato senza nome. Nessuno mai lo saprà. Nessuno conserverà questo ricordo, forse solo quell’unica farfalla, che con la sua breve vita riesce a sopravvivere al vampiro più vecchio che cammina sulla terra. A quello più crudele, meschino che vive di rancore e che nuota nell’odio.
Ma io in fondo sognavo di vivere come tutti. Che la mia vita assomigliasse un poco alla vita degli altri. Ma non è così. Non lo è mai stato. Almeno nella morte spero di ritrovare qualcosa che mi ricordi la vita, perché non riesco a sopportare questa amara esistenza senza fine. L’ho fatto per troppo tempo. Per troppi secoli, ma a volte mi chiedo se io abbia mai realmente vissuto.

Non avere qualcuno che si ama è la peggiore maledizione possibile.

Uno strepito.
Uno strepito simile ad un lamento si disperde ossequiosamente nell’aria, strappando voracemente pensieri fugaci che mi accompagnano in questi ultimi, eterni attimi. Gli unici in cui riesco a percepire completamente il tempo.
Il silenzio muore spezzato con quella che era la mia decisione. Mi rimetto l’anello tra le bianche dita e smetto di provare il dolore bruciante delle pelle ustionata.
Mi avvicino.
Attendo.
Una fragile immagine è distesa al suolo, accanto ad una lastra di pietra segnata da un nome, mentre fiori, simili a rose, giacciono a terra, attendendo la voce della pioggia che li possa dissetare.
Sento l’inconfondibile suono del suo cuore che batte. È così forte. Così travolgente ed inarrestabile, mentre pompa irruente sangue nell’organismo, attraverso vene e capillari, che si diramano squisiti in tutto il resto del suo corpo minuto.
Un profumo leggero portato dalla brezza, come per caso. Un profumo così dolce. Così soave e delicato, troppo angelico per un mondo di demoni, riesce ad investirmi con il suo immenso torpore.
Un profumo così…raro, come mai avevo sentito prima d’ora.
Chiudo gli occhi.
Lo voglio.  
Lo voglio così tanto. Voglio sentire la purezza di quella gola bianca profanata dai miei denti affilati. Voglio ascoltare le sue urla tremanti, inveire smaniose contro il mio udito, come se fosse la musica più gentile in tutti questi secoli di buio silenzio, ove solo l’eco era l’unica voce capace di tornare.
Voglio sentire quel miele afrodisiaco, scorrermi bramoso come energia vitale tra le labbra frementi, raggiungendo l’estasi, solo per l’immenso diletto di quel sapore sulla lingua.
Io lo voglio. Non posso farne a meno. Non so perché, ma è il mio tormento.
Deve essere mio. Devo averlo. Ne ho così tanto bisogno.
Un gracile fuscello crocchia sotto il mio peso e allora lei si volta, scoprendo il viso dai capelli corvini, che circondano delicati un fragile e pallido volto, delineato da fini lineamenti sottili e da labbra rosse come una rosa.

Non avere qualcuno che si ama è la peggiore maledizione possibile.

“Tatia”.

Pronuncio quel nome senza avvedermi. Come se le parole sfuggissero loquaci dalla mia bocca. Come se il tempo si fosse fermato, trafitto da spilli, grondanti di sangue.
Come se il suo viso fosse fuggito dal cielo e fosse precipitato in un cimitero senza data nel quale presto sarei caduto morente. Cenere alla cenere, come polvere dispersa nel vento in un luogo senza leggi.
La vedo alzarsi in piedi e scrollarsi dalle ginocchia rimasugli di terra, mentre dagli occhi piovono lacrime amare, che brillano sotto la luce degli ultimi raggi luminescenti del sole.
È così piccola. Così vulnerabile ed innocente. Come se fosse la mia preda perfetta.

“No…io mi chiamo Alba”.

Si guarda intorno spaesata, esitante, insicura, come se non si accorgesse di trovarsi completamente sola con la creatura più fatale che esista al mondo. Povera sciocca.
Non è lei. Non poteva esserlo. Lei è morta secoli fa e dal suo sangue è nata la mia morte. La mia solitudine. La mia rovina.
Sarei stato da solo. Sempre e per sempre. Solo e freddo come l’eternità di quell’attimo.
Inspiro di nuovo a pieni polmoni. Non riesco a smettere. Non posso. Rido per l’eccitazione di quell’odore allettante, che presto sarebbe diventato mio.

Io voglio lei. La voglio proprio adesso.

Mi inumidisco le labbra al solo pensiero di riuscire a possederla. A divorarla. A dissanguarla completamente, come se ciò mi potesse in qualche modo riempire. 
Come se davvero ne valesse la pena. Come se quell’inutile ragazzina umana fosse capace di provocare tutto questo. Di risvegliare in un modo troppo smanioso il mio essere, rimasto dormiente per troppo a lungo.
Ho fame. Ne ho così tanta. Ho sete. Forse troppa. Niente l’avrebbe salvata. Nessuno l’avrebbe protetta. Sarebbe morta in un giorno qualunque così come dovevo essere io.
Il sole è tramontato già da un pezzo. Ora è troppo tardi. Lei mi ha distratto e ora avrebbe pagato.

“Perché le persone devono morire?”

La sorpresa mi paralizza all’istante. Fermando quell’intento che era partito sfuggente.
Mi ha posto una domanda. Proprio al suo carnefice ha chiesto qualcosa.
Come può essere così sciocca?

Come può essere così imprudente ed ignara del pericolo?

Rimango per un istante in silenzio. Non sapendo cosa rispondere ad un qualcosa di così spontaneo e banale.
Io Niklaus Mikaelson mi sono trovato impreparato. Ignorante davanti alle parole di una ragazzina qualunque, senza alcuna importanza.
Ma questo rende la sua morte ancor più eccitante. Decido di giocare con lei, con la mia piccola preda, tanto non sarebbe riuscita a fuggire comunque.

“La morte non esiste. Le persone muoiono quando vengono dimenticate”.

La vedo incupirsi di fronte alle mie parole. Corrucciarsi davanti a quelle incomprensioni e ciò riesce a strapparmi un sorriso.
Le mie labbra si muovono involontarie, increspandosi appena in un qualcosa di nuovo, sincero. Un sorriso. Dopo tanto tempo ho di nuovo sorriso, come se una tempesta avesse cancellato ogni pensiero. Come se dopo tanti secoli vissuti nell’ergastolo avessi provato di nuovo piacere. Come se fossi libero.

“Come fai a saperlo?”

Mi chiede ancora, spalancando quegli occhi scuri, brillanti della luce perenne della vita, troppo giovane ed inesperta per potersi spezzare in un attimo. Ma ciò è inevitabile, ormai ho già deciso.
Lei sarebbe morta. Io l’avrei uccisa, ma decido comunque di divertirmi ancora un po’.

“Lo so perché anche io sono stato dimenticato”.

Ancora il suo odore. È così forte. Così potente ed invitante. Ormai ne sono saturo. Non posso farne a meno, ma qualcosa mi blocca, me lo impedisce, come se volessi ascoltarla. Come se volessi ancora parlarle. Come se quel volto così simile al suo mi spingesse a farlo, ancor di più della brama di sangue.

“Ma tu non sei morto”.

La guardo. La osservo. È così bella, quasi quanto lei. Come se la speranza le illuminasse lo sguardo e le colorasse le iridi ancora lucide e leggermente gonfie. Deve aver pianto. Deve essere successo qualcosa. Non riesco a trattenermi da quel pensiero, come se ciò m’importasse.

“Sono tutti morti, Alba, solo che ancora non lo sanno”.

Sento il suo disordine e lo comparo al mio. C’è somiglianza. C’è lo stesso sangue che scorre da ferite identiche.
Ne sono affascinato. Come se avessi dimentico il motivo per cui mi trovassi lì. Come se avessi dimenticato quell’incomparabile sete.
E fu come una lama nel pieno centro del petto.
Perché la mia sete non si estingueva mai e se lei cessava di vivere, allora, questo voleva dire che cessavo di esistere anche io.

“Chi sei?” mi domanda sospettosa, diffidente, come se fosse all’erta per quel misterioso estraneo di fronte ai suoi occhi.

“Posso essere il bene o il male dipende da come mi guardi”.

È il momento. Ora posso farlo. Devo farlo. Ne ho così tanto bisogno. Ne ho così tanto diletto. Ho atteso per troppo tempo. Devo sentire quel dolce sapore scorrermi soave dentro la gola. Devo divorare quel profumo. Devo assaggiare quel fragore.
Quale può essere il confine tra possesso ed amore?
Forse la distanza di un morso tra i valori di un bacio.
Il mio sangue ruggisce palpitante nelle vene. Lo sento ribollire eloquente fin sopra il cervello. Mi rapisce. Mi gremisce. Mi attrae in un modo così seducente ed invitante, sciabordando come il mare durate una violenta tempesta, come se incominciassi a tremare per quell’incomparabile desiderio, che distrugge gli argini della mia mente funesta.
Sarebbe stata mia. L’avrei posseduta fino all'ultimo istante. Fino all'ultimo respiro e ciò non mi sarebbe bastato. Avrei voluto di più. Ancora di più. Fino a diventarne completamente sazio.

Sazio di lei.

Niente mi sarebbe bastato.

“E tu come vuoi essere guardato?”

Mi paralizzo. Di nuovo. Facendo rientrare gli affilati canini venuti fuori per sbaglio. Non richiesti. E lei è ancora lì, che mi guarda affascinata, come se no si accorgesse di guardare in faccia la morte.

Scappa.

Serro le mascelle quando mi scopro a desiderarlo, facendomi rabbrividire di voglia e di rabbia. Tanto che spingo con le unghie fin dentro la pelle che cola sangue. Un sangue così caldo. Caldo come il suo corpo. Caldo come il suo profumo che bramo ed è così meraviglioso. Troppo.
Non devo farlo. Non posso farlo. Ma lo voglio così tanto. Così intensamente.
Ho voglia di lei. Solo di lei. Eternamente di lei. Non riesco a farne a meno. Voglio sentirla. Provarla. Assaporarla per ogni singolo istante. In ogni singolo modo. Con ogni singolo mezzo, ma perché non ci riesco?
Cosa sto facendo?
Perché non la uccido?
È solo un’umana. La sua vita non ha alcuna importanza.
Ma dopotutto non lo ero forse stato anche io?
Io, egoista ed incostante, sicuro di me, sadico e presuntuoso. Così perverso e disdicevole da poter causare la morte di villaggi interi, senza il minimo rimorso, ma la più totale indifferenza.
Io che vivo nell’odio come se fosse la mia casa. Troppa collera, troppo rancore, accresciuto nei secoli. Io non riesco ad ucciderla. Non posso. Come se quella debolezza si fosse impossessata un’altra volta di me.
Non sono riuscito a fermarla. Come se quella semplice umana mi facesse ricordare tutto.
Ma lei non fugge, rimane lì, troppo vicina. Troppo indifesa. Troppo ingenua.
Sciocca.
Non la posso proteggere. Non voglio. Ma sento in qualche modo di doverlo fare. Come se fra tutte lei meritasse un destino migliore. Come se fra tutte almeno lei dovesse vivere.
Mi sento così vulnerabile. Così nudo. Così infinitamente debole. E tutto solo per colpa sua. Tutto solo per lei.
Se solo sapesse. Se solo immaginasse, che non sono altro che un mostro. Mi chiedo cosa penserebbe di me. Forse mi crederebbe anche lei una bestia. Proprio come mio padre.

“Alba sei qui?”

Si volta all’istante verso le parole di un ragazzo di cui non riesco a distinguerne ancora il viso. Che pare cercarla come la creatura più preziosa che esista al mondo.
Lo invidio. Lo invidio così tanto perché umano. Perché può provare i suoi sentimenti senza vergogna né ribrezzo. Perché vive ogni giorno come se fosse l’ultimo, mentre io rimarrò così per sempre.
Lo invidio perché lui può amare e io no.

Non avere qualcuno che si ama è la peggiore maledizione possibile.

Approfitto della sua distrazione per avvicinarmi. Ora sono ad un passo da lei. Ad un soffio del suo fragile viso e dalle sue piene labbra, delicate come una rosa, proprio come erano le sue.
Avrei voluto averle. Dominarle, impossessarmene avidamente fino a farle sanguinare. Come se mi appartenesse. Come se fosse già mia.
Come se non avessi mai potuto smettere.
Come se fosse la mia tentazione. Il mio eccesso più imperdonabile. La mia brama più irrequieta.
Vorrei cedere. Vorrei davvero farlo. Ma non posso. Non voglio. Non questa volta.

“Voglio essere guardato come qualcuno che ti ricorda cosa sia sorridere. Solo per un attimo. Solo per un istante. Solo per sapere come ci si sente. A me basta solo questo”.

Pronuncio deciso quelle parole fissandola negli occhi e lei mi guarda affascinata, rapita, totalmente ed incondizionatamente mia succube. Questo è uno dei privilegi dei vampiri.
So cosa devo fare. So cosa devo dire. Ormai sono andato troppo oltre. Questo non doveva succedere. Non doveva accadere. Non avrei dovuto permetterlo. Avrei dovuto ucciderla. Così come era giusto. Così come avevo deciso.
Non posso mostrare la mia vulnerabilità. Non questa notte. Non con lei.
Ma se ho deciso di proteggerla devo farlo con tutto. Devo andare fino in fondo.
Devo proteggerla anche da me. Soprattutto da me.

“Ora dimentica. Voglio che dimentichi tutto quanto. Addio Alba”.

Lei mi sorride, così come le ho chiesto di fare e prima che i suoi occhi si chiudano per un banale secondo io sono già sparito. Fuggito. Nascosto tra la nebbia che effimera sale al cielo. Dove lei non avrebbe mai potuto trovarmi.
Quello che è accaduto sarebbe stato solo un segreto. Il mio segreto. L’avrei custodito, celato nel profondo di un cuore che aveva da tempo smesso di battere. Nessuno mai l’avrebbe visto. Nessuno mai me l’avrebbe rubato, perché per nessuno mai sarebbe esistito, eccetto che per me.
L’avrei custodito per l’eternità. Sarebbe stato mio, solo mio, fino a quando il mondo sarebbe esistito. Fin quando il sole avrebbe brillato. Fin quando io sarei vissuto.

Sempre e per sempre.

E forse non mi sarei sentito più solo.

Mi volto un’ultima volta e la guardo. Vedo quel ragazzo che l’abbraccia protettivo. Quel ragazzo che ora vede in lei quel sorriso che io ho creato.
Avevo smesso di fare del bene a questo mondo, ma mi ero dimenticato quanto ciò fosse appagante.
Sorrido. Di nuovo, anche se per poco.
Un attimo. Un respiro. Una piccola collana blu attorno al suo bianco collo e comprendo ogni cosa.
Avrei dovuto capirlo fin dal primo istante.
Non poteva essere altro che lei.
 

I’ve lost it all. I’m just a silhouette
A lifeless face that you’ve already forgotten.
Setting fire to my insides for fun
To distract my heart do not feel anything.
But I forever missing him
And you cause it.
 
Ho perso tutto. Sono solo una sagoma
Una faccia senza vita di cui ti sei già dimenticata.
Do fuoco a ciò che ho dentro solo per divertimento
Per distrarre il mio cuore in modo da non sentire più nulla.
Ma mi mancherà per sempre
Ed è solo colpa tua.
(Daughter -Youth-)




 





Buon sabato a tutti :)

Grazie infinitamente per aver letto un'altro dei miei capitoli. Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto. Se avete qualcosa da chiedere, qualsiasi cosa, non esitate a scrivermi. Rispondervi mi renderebbe più che felice :)

Volevo solo precisare una cosa: ho deciso di non far rendere più Klaus, come nel telefilm, immune al sole. Volevo mostrare qualche altra sua vulnerabilità, che non sia solo il pugnale di quercia bianca. Non per renderlo debole, ma per mostrarlo anche un po' umano.
Lui più di una volta ha detto che ha cercato di uccidersi nel corso dei secoli e io ho voluto rappresentare uno di questi momenti, interrotto però dall'arrivo di Alba.

In questo capitolo si comincia ad intravedere il rapporto tra Klaus e la protagonista, con il loro vero primo incontro, cancellato però dal vampiro in uno dei suoi pochi momenti di debolezza. Spero che vi sia piaciuto e vi anticipo che nel prossimo i due passeranno molto tempo insieme e cercherò di mostrare qualche frammento del passato di Klaus.

La frase "Sono tutti morti solo che ancora non lo sanno" è tratta dal film "Il Corvo", mentre la canzone ad inizio e fine capitolo è stata un po' modificata per adattarla meglio alla storia.

Infine ringrazio tutti coloro per il tempo impiegato per la lettura di questa storia e un grazie soprattutto a chi recensisce. 

Ciao a tutti, un bacio e alla prossima :)

Buon weekend ^^

 
  
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